Abbiamo visto “ Synecdoche, New York “ regia di Charlie Kaufman.

Kaufman è uno degli sceneggiatori più abili e originali di Hollywood, suoi sono gli scripts Essere John Malcovich, Se mi lasci ti cancello, Confessione di una mente pericolosa.  Nel 2008 decide di esordire alla regia e in molti, pensando al suo grande talento, si aspettavano un capolavoro, il film è stato presentato al 61°  Festival di Cannes dividendo pubblico e critica tra estimatori e detrattori.  Già dal titolo si intuisce l’azzardo e l’ambizione dell’autore, perché il titolo è un gioco di parole fra Schenectady, New York, in cui è ambientata la vicenda, e la sineddoche ( dal greco «συνεκδοχή» attraverso il latino «synecdŏche», fino all’italiano « ricevere insieme » ), un procedimento linguistico-espressivo  o anche una figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro ma che ha con il primo una relazione di vicinanza.  Una figura retorica paragonabile alla metonimia perciò spesso ardua da distinguerle.  In realtà Kaufman ci vuole raccontare puntando troppo in alto di arte che si coniuga con la vita solo attraverso la verità, forse è il sogno brechtiano di utilizzare il teatro epico cercando di coniugarlo cinematograficamente con un nuovo stile alla Godard.   Ma l’argomento è trattato così in maniera complessa ed empirica ( sembra invece di essere in mezzo al guado tra Ingmar Bergman e Terrence Malick ) che oltre a non farsi comprendere nella seconda parte, rischia di essere una elucubrazione intellettuale se non un pipponismo celebrale.  In cui la prima vittima ci sembra essere il povero Philip Seymour Hoffman ( tanto grande come attore quanto contorto personalmente nella scelta dei suoi personaggi ).  Nella prima parte ( la più risolta e anche la più deprimente ) riusciamo a seguire il discorso del regista dal punto di vista formale e narrativo, l’alternanza tra vita vera e finzione teatrale prosegue in modo quasi lineare fino a quando nell’appartamento di Michelle Williams la vita vera si trasforma in ricostruzione, ma da questo passaggio i vari piani si mischiano, si confondono, si ribaltano e la vita e l’opera del regista Caden Cotard ( Philip Seymour Hoffman ) si complicano fino ad essere osservati in quanto tali e senza riuscire a seguire lo spettacolo che sta allestendo per cercare attraverso la sua vita una verità.  Una vertigine che lascia basiti se non annichiliti.  Probabilmente quando si vuole fare un capolavoro è questo il momento dell’errore per presunzione.  La scrittrice Chocano ha scritto a proposito “ Un film selvaggiamente ambizioso, debordante, imponente, straziante, complicatissimo e dolorosamente triste “.

Caden Cotard è un regista teatrale off molto stimato, è ipocondriaco, depresso e questo stato d’animo sembra ritrovarsi nel mondo dei suoi affetti.   Fa fatica ad alzarsi la mattina, mentre guarda la sua cacca dal colore rosso come il suo piscio si vede la sua bimbetta angosciata Olive per la sua cacca verde e per la sua paura di morire.  Tra le altre cose ha problemi ai denti, agli occhi, forse al cervello, sul viso e sulle gambe gli compaiono delle pustole, e i medici sembrano moderatamente preoccupati della sua salute e lui è convinto che morirà presto.   Quella che sembra un po’ meno depressa, si fa per dire,  è la moglie l’artista Adele Lack ( Catherine Keener ) che appena può se ne parte per Berlino con la figlia per un mese e resta lì per tutta la vita andando a vivere con la sua migliore amica.  Nel frattempo Caden presenta con successo in teatro Morte di un commesso viaggiatore ( è stato tra l’altro l’ultimo lavoro teatrale di Hoffman nel 2012 ), titolo emblematico del teatro americano ed ottiene un premio prestigioso che consiste nel finanziamento di un nuovo spettacolo teatrale.  Decide che sarà la sua Opera, quasi testamentaria, e raccoglie un cast enorme di attori in un magazzino a New York City, nella speranza di creare un lavoro di brutale onestà.  Opera faraonica che impiega ben diciassette anni per essere allestita perché l’autore è alla disperata ricerca di sincerità attraverso le esperienze della sua vita e in quella dei suoi cari.  E da qui, per almeno un’ora di film, i piani della storia si confondono e per Cotard c’è la quasi impossibilità di realizzare la sua opera.  Nel frattempo la vita procede, muore prima suo padre, poi sua madre, quindi sua figlia Olive cresciuta a Berlino – e che lui non ha mai più visto – che sul letto di morte gli chiede di scusarsi e di ammettere d’essere omosessuale; muore suicida anche il suo alter ego nello spettacolo teatrale, fino all’amore della sua vita che muore intossicata nel letto accanto a lui in una casa perennemente circondata dal fuoco.  E lui nel mentre cerca la verità di un gesto, la credibilità di una rappresentazione che risulta sempre più artificiale.  Tutto si rivela ( anche a noi ) al regista contraffatto, quasi rituale, e quindi già morto.  E sul finale un personaggio tra i tanti dello spettacolo ( la morte ?  ) si presenta al regista sempre più stanco e demotivato e con decisione prende in mano la ‘ regia ‘ fino a modificare la scena finale, un funerale pieno di energia e rabbia che termina con una pioggia libertoria e purificatrice.

Alla sua prima regia ( ed anche ultima per adesso ) Kaufman si permette una creatività assai rara per Hollywood e gioca con acrobazie narrative interessanti ma rischiose e a volte criptiche, realizzando un film complesso e fuori dagli schemi, a volte troppo personale e intellettuale.

Il cast è composto dal magnifico Philip Seymour Hoffman ( che ci ha lasciati in Febbraio a soli 46 anni ) e da un gruppo di attori straordinari, Catherine Keener, Jennifer Jason Leigh, Emily Watson, Samantha Morton, Michelle Williams, per citarne solo alcuni.

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