Rebecca, detta Becca, e Tyler sono due adolescenti che vivono con la madre single; ormai da alcuni anni il padre se n’è andato a vivere con un’altra donna senza mantenere i contatti con nessuno di loro. I nonni, che i due ragazzini non hanno mai conosciuto, un giorno chiedono alla figlia il permesso di ospitare per una settimana i due nipoti nella loro casa di Masonville. La madre è incerta ma Becca e Tyler sembrano tenerci e la convincono. Per Becca, che ha sogni da cineasta, è anche l’occasione di realizzare un documentario su quei giorni e sui rapporti tra la madre e i nonni, che è impaziente di intervistare. Ma nel corso di quella settimana lei e suo fratello, che si esercita con il rap e sembra avere i germi per nemici personali, assisteranno a comportamenti dei nonni man mano sempre più preoccupanti.

Folta ormai la schiera dei registi che smantellano o schiacciano il racconto, per esempio Gus Van Sant che in Paranoid Park lo lacera (spezzato in due: superotto o trentacinque millimetri? Soggettivo o oggettivo? Geometrico o antigeometrico?) e lo ipnotizza nel circolo selvaggio di una pista da skateboard. Né mancano i registi che liquidano i propri personaggi, come già Antonioni, naturalmente, che alla fine di L’eclisse (1962) li “semina” sulle strisce pedonali e li discioglie nella luce di un lampione (e addio all’identificazione di una donna).

Tutti muovono da Hitchcock, che è il grande pioniere, il Neil Armstrong di mille lune del cinema. Pensate a La congiura degli innocenti (The Trouble with Harry, 1955), dove il racconto, la “questione”, consiste di fatto in una serie di soste presso un cadavere (il cadavere è il racconto); o pensate a Nodo alla gola (The Rope, 1948) in cui la macchina da presa monellescamente intraprende (come i bambini che non smettono mai di giocare, senza-soluzione-di-continuità) una specie di caccia al tesoro, mentre i personaggi (i “grandi”) discutono seduti in poltrona di questioni di filosofia morale sotto lo stroboscopio di una New York artificiale e dietro lo specchio (in vetrina), e dove il tesoro è il cadavere nascosto in un baule (il cadavere è di nuovo il racconto); ricordatevi poi di Psyco (Psycho, 1960), che ci mette non troppo di più che il tempo di una doccia per far scomparire nello scarico dell’acqua, come un eroe di William S. Burroughs (o un volto di Francis Bacon che si incunea nel buco della serratura di una porta), la sua protagonista, la celebre attrice bionda che con il suo volto ha portato la gente al cinema.

E a volte sono i luoghi del cinema che dettano legge, a dispetto delle voglie della trama.

La serie tv The Wire finisce non appena i cinque ambienti della città di Baltimora a cui ogni stagione si vincola (la strada; il porto; il municipio; la scuola; la redazione del quotidiano) sono stati indagati nei loro specifici ingranaggi, hanno assolto la loro funzione di pezzi del puzzle (come le cinque testimonianze che l’inviato dell’Inquirer raccoglie per provare a venire a capo della verità su Charles Forster Kane in Quarto Potere di Orson Welles). La serie tv The Knick, analogamente, giunge a un punto di non proseguibilità quando in seguito a episodi incendiari assortiti i politici locali decidono di non proseguire i lavori di ricostruzione dell’ospedale The Knick: senza set, niente film (la serie sarebbe del resto derubata del suo nome, un povero Frankenstein, senza identità).

M. Night Shyamalan gioca a eclissare se stesso. Si diverte a dimettersi. Lascia la cassetta degli attrezzi nelle mani dei suoi due protagonisti, Rebecca (sembra battezzata da Hitchcock) e Tyler. Rebecca, o Becca, vuole infatti realizzare un documentario sulla prossima visita a casa dei nonni a Masonville (o Mansonville?), che né lei né suo fratello hanno mai conosciuto. La sorella fa quindi la regista e il fratellino fa il suo operatore (o così è deciso, in effetti si passeranno la videocamera come in uno scambio tennistico). La maggior parte delle inquadrature del film saranno le inquadrature decise dai due ragazzini. M. Night Shyamalan resta all’angolo. Semmai è un regista fantasma: in una scena, il fratello rassicura la sorella in lacrime di non stare zoomando sul suo volto (con le domande che le pone sta scavando nel suo dolore di bambina abbandonata dal padre e che ora pensa di non valere nulla); noi non crediamo a Tyler che se non altro così si avvicina, otticamente, alla sorella, ma in fondo è anche possibile immaginare che in questa situazione Night Shyamalan colga l’occasione per rimpadronirsi del mezzo di ripresa. Mai uno zoom, in ogni caso, è stato altrettanto candido nell’affermare la propria sostanza o non sostanza immateriale, spionistica, spiritica, fantasmagorica.

A confermare questa contumacia, la delega del compito registico, è l’assenza di commento musicale. Anzi no. Il fratellino vuole aggiungerlo. Lui è un rapper e cioè uno che mette in rima e canta gesticolando qualsiasi argomento gli si lanci in bocca. Vuoi vedere che Night Shyamalan, piratesco, si identifica meno con Becca che con Tyler?

E pertanto… l’argomento di oggi è… l’horror!

Che aspettiamo, sembra incitarsi M. Night Shyamalan: mettiamolo in rima, l’horror.

La progressione in didascalia dei giorni settimanali fino al climax da calendario fa rima con la scansione di Shining (quando Jack Torrance finisce di parlare con il proprietario dell’Overlook Hotel, una dissolvenza incrociata particolarmente lenta lo trasforma in uno spettro); il vomito peripatetico della nonna è una variazione di una celebre sequenza di L’esorcista (ed è qui che i due ragazzini capiscono che in quella casa non è tutto verde); la nonna che si nasconde sotto il lenzuolo e poi si solleva ricoperta dal lenzuolo fa rima con tutti i film di fantasmi di sempre (ma il mio cuore batte per il film Ghostbusters di Ivan Reitman con i suoi aggeggi intrappolanti; per il videogioco Ghostbusters con il furgoncino in primo piano sul cui sportello si stampava più o meno malinconicamente game over; per la musichetta Ghostbusters che era del film e del videogioco, tanto quanto); la nonna che ride di spalle sulla sedia basculante resuscita la mamma di Norman Bates in Psyco (l’unico film della storia replicato scientificamente da Gus Van Sant, che ne rifà quasi tutte le inquadrature).

Non ci meravigliamo quindi se il montaggio alternato della sequenza cardinale (la nonna che si avventa su Becca, il nonno che bracca Tyler) ha la movenza di una rima alternata.

E in questo pasticcio o in quel postaccio (la casa dei nonni) non possono mancare le autocitazioni, se di documentario autobiografico, quello di Becca, si tratta. La più geniale tra queste riguarda il momento in cui Tyler corre davanti alla videocamera perché stava parlando con Becca di quello che avevano visto dal buco della serratura della propria stanza, la nonna che vomitando passa velocemente davanti ai loro occhi, e il ragazzino vuole riderci su a modo suo, usando il campo, entrando nell’inquadratura come se sbucasse da un nascondiglio e come se puntasse a salvarsi di là dall’inquadratura (nella incolumità del non esser spiato). Questo momento, questa performance, corrisponde alla scena di Signs in cui l’alieno si rivela, a un gruppo di bambini e a noi spettatori, con un fulmineo scatto, sbucando da un vicolo, durante la visione del filmino che riprende la festa dei bambini.

In questo film tutto ciò che conta accade davanti a una videocamera tenuta tra le mani della sorella o del fratellino oppure da loro piazzata in qualche punto nascosto: riprendono anche mentre dormono: se M. Night Shyamalan dimostra di saper essere un regista fantasma, loro sono in grado di diventare, alla bisogna, registi sonnambuli.

La rivelazione narrativamente più dirompente, poi, arriva mediante la telecamerina di Skype. La mamma sta ascoltando e guardando in video i suoi due figli che le comunicano gli strani avvenimenti in casa dei nonni, lei ribatte che non riesce a capire, che i nonni sono delle brave persone, allora Tyler solleva il portatile e lo fa ruotare, come farebbe Archimede per spedire i raggi del sole contro i nemici. La madre scopre così la verità: da una telecamerina incorporata al computer. Il fulcro del film si trova in questo. Strumenti di ripresa, aggeggi per intrappolare e disintrappolare lo sguardo, che rimano tra loro. Che gesticolano cantando.

M. Night Shyamalan prende nelle proprie mani l’horror più sporco possibile (il nonno a un certo punto, in un’inquadratura fissa, approfitterà nel modo più spietato della fissazione che ha Tyler per la pulizia, del suo terrore per i germi) e lo deterge trasformandolo in un rap.

Il regista Lav Diaz ci dice che “ricorderemo il mondo attraverso il cinema”. Nel frattempo, con Night Shyamalan, il cinema pensa a ricordare se stesso. A rifarsi, a rifrarsi. A visitare le proprie stanze, anche quelle che fanno paura (come giocare a nascondino). Perché tutto quello che conta lo dovremmo guardare come lo filmeremmo se lo filmassimo. Noi registi fantasmi e insieme acchiappafantasmi. Con in coda sillabe e gesti.

(Rebecca che finalmente si sta guardando allo specchio, ma che per un frangente gira la testa e segue il ritmo della canzone di Tyler, è il gesto più commovente di tutti, il suo sorprendente sì alla presenza di un commento musicale nei film, nella vita).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *