Esce infine integralmente, per Aragno, il famoso e per taluni famigerato Taccuino segreto di Cesare Pavese. Invero non si tratta propriamente di una novità. Ma andiamo con ordine: la faccenda è assai divertente e istruttiva.

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Nelle puntate precedenti

Attorno ai primi anni Sessanta, Lorenzo Mondo, allora giovanissimo, ritrova presso la sorella di Pavese, Maria Sini, un blocco-note dello scrittore, risalente agli anni 1942-1943 contenente considerazioni che lo lasciano, racconta in un contributo di accompagnamento a questo libro, «estrerrefatto e turbato». Nonostante ciò, va all’Einaudi e sottopone il reperto a Italo Calvino. Scrive Mondo: «Rivedo ancora il volto di Calvino mentre sfogliava il manoscritto che gli avevo appena consegnato: pallido come di consueto, ma come indurito nei lineamenti».

Il “barone rampante” fa lo gnorri e chiede a Mondo cosa intenda fare di quelle parole. Mondo replica che, fosse per lui, resterebbero inedite: voleva tutelare «il mio amato Pavese» da «volgari e faziose speculazioni» e da un «linciaggio ideologico». Parole profetiche. Alla fine, «decidesse lui», ossia Calvino. Il quale, come sarebbe stato prevedibile, decise di non decidere, ossia di censurare il taccuino.

Prosegue Mondo: «Morto nel 1985 Calvino…, attenuatesi, con il tracollo dell’Urss, certe virulente contrapposizioni ideologiche, uscii allo scoperto», sottoponendo il testo alle nipoti di Pavese, le quali acconsentono alla pubblicazione. Bene, fatto: l’8 agosto 1990, ossia quasi trent’anni dopo il ritrovamento, «La Stampa» pubblica alcuni frammenti del blocchetto.

Scoppia il putiferio. I soloni dell’antifascismo militante e dell’intelligentsia soviet…, pardon: democratica, che conobbero o meno lo scrittore piemontese, intervengono. Mario Baudino parlò per Pavese di «smarrimento», di «tentazione a trasformarsi in un maestro cattivo»; Giancarlo Pajetta, schiumante di rabbia e indignazione, di «duplicità», e addirittura di «delirio», aggiungendo che Pavese «è uno che pensava quelle cose quando affermava il contrario»: e, per inciso, parlare di duplicità da parte di un alto dirigente del partito togliattiano è quasi comico. Fernanda Pivano si definì sbalordita. Questo era il clima che gravava a Torino e in di fatto in tutto il Paese.

Non è finita. Mondo infatti insiste ancora presso l’Einaudi per pubblicare il taccuino, e pare che a un certo punto stia per giungere l’imprimatur. Ma sopraggiunge inopinatamente il veto di Natalia Ginzburg, e son tutte da leggere le motivazioni opposte dalla scrittrice. Insomma, il taccuino restò al sicuro in qualche cassaforte di via Biancamano, sino a questo 2020. Nessuno, e per questi altri trent’anni da quella lontana estate, ha avuto il coraggio morale di darlo alle stampe. Come si vede, gli spettri dei censori aleggiano e agiscono anche a censori morti e sepolti.

A conti fatti, pertanto, va detto che il titolo di Aragno è sbagliatissimo e sviante, per non dire atto di malafede. Sarebbe infatti stato meglio chiamare quel, con Goethe, insegretito.

Lo scandaloso (e per nulla segreto) Pavese

Ma che cosa contengono quei foglietti di così sconvolgente e scabroso per aver suscitato le funeste reazioni dei nostri intellettuali campioni della libertà di pensiero e di stampa e un ritardo di sessant’anni?

Isoliamo alcune delle frasi e mettiamoci comodi: «Una cosa fa rabbia. Gli antifascisti sanno tutto, superano tutto, ma quando discutono litigano soltanto… E mostra ben che alla virtù latina o nulla manca o sola la disciplina… Il fascismo è questa disciplina. Gli italiani mugugnano, ma insomma gli fa bene». «Se soltanto il fascismo troncasse veramente gli indugi e si liberasse degli sfruttatori, come non seguirlo?». «Tutte queste storie di atrocità naziste che spaventano i borghesi, che cosa sono di diverso dalle storie sulla rivoluzione francese, che pure ebbe la ragione dalla sua? Se anche fossero vere, la storia non va coi guanti. Forse il vero difetto di noi italiani è che non sappiamo essere atroci». «Stupido come un antifascista. Chi è che lo diceva?». «Boden und Blut – si dice così? Questa gente ha saputo trovare la vera espressione». «Solo gli antifascisti sanno il pregio del fascismo: tutto ciò che loro manca. E s’è visto che mancavano di tutto».

Per anni Torino era stato il centro dell’irraggiamento democratico e antifascista. Il liceo «D’Azeglio» e l’Einaudi ne erano stati tra i principali poli. Pavese aveva studiato nel primo sotto la guida dell’azionista Augusto Monti, e lavorato per la seconda. Nel 1946 si era iscritto al Pci e aveva iniziato a collaborare con «l’Unità» con articoli letterari ma anche politici. L’Einaudi lo portava in processione, era una delle sue teste migliori (verissimo, e una delle pochissime) e una delle penne più preclare della “nuova” Italia, nata dalla resistenza. E sebbene Pavese non si fosse mai dimostrato un antifascista, a dispetto delle allusioni di Pajetta, o un comunista di provata fede, e avesse persino chiesto, e ottenuto, la tessera del Partito nazionale fascista, si trattava di peccati veniali, tutti perdonabili. Alla fine si era pur allocato “dalla parte giusta”. Sicché quei foglietti costituirono un contropiede vertiginoso, un’imboscata indigeribile per il Minculpop antifascista.

Gli unici, in quel 1990, a esprimersi con schiena diritta e altrettanto diritto giudizio furono Franco Ferrarotti (che peraltro rintuzzò aspramente Ginzburg, che di Pavese traccia nel suo Lessico famigliare un ritratto balordo) e Carlo Muscetta. Quest’ultimo, salvo qualche scivolone e non pochi giudizi azzardatissimi, fu il più equilibrato: Pavese, al contrario degli scandalizzati di sempre, non fu mai antifascista, come non era stato fascista (anche se, aggiunge lo scrivente, voci di corridoio sussurrano che insieme al blocchetto fu ritrovata anche una tessera del Partito fascista repubblicano intestata allo scrittore). Era, per il storico della letteratura siciliano, un «impolitico» e «tutto quello che gl’interessava era continuare a tradurre, scrivere poesie, trovare i mezzi per sostentarsi decentemente». Le parole “deliranti” di Pavese, che lasciarono Muscetta immoto, «sono esercitazioni intellettualistiche, riflessioni senza scopi pratici, tormenti di un animo ipersensibile: il tutto nel più puro stile di Pavese».

Eppure…

Lo scrivente tuttavia si spinge ancora oltre, giungendo a un paragone tra Pavese e Agostino. L’ipponate si convertì al cristianesimo dopo nove anni tra le fila della gnosi più radicale, il manicheismo. Ma lo fece perché aveva capito l’aria che tirava: il manicheismo sconfitto, stava invece trionfando la chiesa cristiana di radice giudaica, e Agostino voleva seguitare a studiare in pace, anche se in fondo non solo gli era rimasta addosso qualche profonda traccia della sua esperienza manichea, ma al manicheismo strizzava l’occhio, come risulta chiaro, ad esempio, dalla Civitas Dei, una delle sue opere maggiori.

Nulla poi di sorprendente o motivo di scandalo le parole del taccuino pavesiano dovrebbero suscitare in chi abbia letto il resto dei suoi lavori, dai romanzi al Mestiere di vivere, e senza tener conto dei giovanili scritti futuristi. Definì i Dialoghi con Leucò il libro che meglio lo rappresentasse, e non a caso lo si trova sul tavolino della stanza all’Hotel Roma in cui Pavese s’ammazza. Leggeva e traduceva Nietzsche, e un Nietzsche non ancora calmierato e corrotto da certe interpretazioni. Portò in Italia i grandi storici delle religioni d’impronta non certo laica o marxiana. E tutto ciò senza contare la traduzione – peraltro magistrale, a dispetto di certi revisori dei conti contemporanei in forze proprio all’Einaudi – di Moby-Dick, romanzo che chiude e apre il cerchio del mito nel cosmo pavesiano.

Normali e anzi normalissimi pertanto certi giudizi del taccuino, certi suoi slanci, certe sue idiosincrasie. Né ieri, né oggi i sedicenti “amici” di Pavese vollero capire quelle parole. Meglio tacere, meglio obliterare.

Tuttavia, nonostante questi anni lunghissimi trascorsi, c’è ancora chi oggi s’arrampica sugli specchi producendo uno stridore scocciante e  sinistro. L’introduzione al volume Aragno di Angelo d’Orsi e il saggio, anch’esso avant-propos, di Francesca Belviso occupano novantadue pagine, a fronte, attenzione!, delle ventidue scarse del taccuino vero e proprio, peraltro rade e lardellate d’una scarica fittissima di note anch’esse di Belviso. «Dieci pagine di mani avanti e proteste antifasciste», aveva pronosticato Pavese stesso quando si trattò di pubblicare per la Collana Viola d’Einaudi autori ingombranti come Eliade, Kerény o Spengler, invisi ai centurioni della cultura dominante. Qui le dieci pagine si moltiplicano e se non sono proteste antifasciste, son ben peggio: fracasso assordante per stordire e ammonire il lettore prima che attacchi il taccuino. Il saggio di Belviso, tutto dedicato a quei foglietti, eloquentemente si intitola «Ritratto in chiaroscuro». Al lettore lo scrivente offre di passata un consiglio: leggiti prima il taccuino, poi, se ne avrai voglia e stomaco, buttati sui commenti, e tanti auguri.

Aveva ragione lo stesso Cesare Pavese, scrivendo proprio in quel blocchetto, che «gli intellettuali hanno contato troppo nella vita italiana. Essi sono vili, litigiosi, vanitosi». Sarà stata questa più che le altre la frase che ha smosso la fregola censoria dei Calvino e delle Ginzburg?

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Post Scriptum

A proposito di censure. Pochi sanno o ricordano che l’Einaudi rifiutò, nel 1947, Se questo è un uomo, di un allora ignotissimo perito chimico reduce dalla Polonia. Višinskij, o Berjia, del caso fu – fiato alle trombe – Natalia Ginzburg. Levi ritentò nel ’52: altro rifiuto. Solo nel 1958 l’Einaudi si decise a pubblicare il romanzo, ossia quando aveva già riscosso un buon successo grazie alla De Silva, la casa editrice di Franco Antonicelli. Levi sapeva che la decisione di non pubblicare la sua testimonianza era responsabilità di Ginzburg, ma da gran signore torinese tacque. Però il tempo, come sovente il mare, restituisce i suoi cadaveri, sicché alla fine saltò fuori la responsabilità della domina einaudiana. La quale però, invece di fare ammenda, preferì scaricare il barile su altre spalle. Di chi? Rullo di tamburi: di Cesare Pavese, morto da otto anni.

A mettere un punto definitivo ma maldestro perché evidentemente pietosa menzogna volta a tentar di coprire la magagna, dovette intervenire anni dopo Giulio Einaudi in persona, che riferì la motivazione del diniego di Ginzburg, contemporaneamente scagionando il povero Pavese da qualsiasi maledizione. Il marito della scrittrice, Leone, peraltro sodale di Pavese, era morto dopo torture tedesche e la donna non voleva rinnovellare il dolore. Forse il vecchio Giulio s’era scordato che era stata proprio la dolente Ginzburg a scrivere l’introduzione a un altro libro sull’olocausto: il diario della piccola Anna. Era il 1947, lo stesso anno del rifiuto a Levi.

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