Da tre anni a questa parte vivo al primo piano d’un palazzo opportunamente situato all’angolo fra Calle Prosperidad e Calle Progreso. Ammetto che sin dal primo giorno m’è parso ovvio come, se non fosse per la fortuita combinazione di nomi altisonanti, quest’incrocio non presenterebbe nulla d’architettonicamente o urbanisticamente memorabile: si tratta semplicemente di due strade come tante, il cui intersecarsi crea un angolo come tanti altri, il tutto infilato nel bel mezzo d’un vecchio quartiere di Città del Messico. Ma come resistere alla tentazione di leggervi qualcosa di più? Un presagio, forse… o un auspicio, un augurio, una premonizione. Come non sbandierare con una certa presunzione – al tassista, al fattorino, all’amico bisognoso d’ulteriori indicazioni – il fatto di vivere nel punto preciso in cui la Prosperità incontra il Progresso, con quel suo idealismo latinoamericano trasformatosi in indirizzo postale?

 

E in effetti questo spicchio di città s’è rivelato all’altezza del proprio nome: privo di vertiginose accelerazioni gentrificatrici, ha tuttavia potuto vantare un costante soffio di rinnovamento che non ha mai tradito lo spirito originale di barrio. Così, per almeno un paio d’anni, la vita all’incrocio tra Prosperità e Progresso è scivolata via dolcemente, con l’unico elemento di potenziale disturbo rappresentato da quegli strani incidenti che sembravano tempestarne le notti altrimenti tranquille. Che fosse l’auto proveniente da Prosperità a non aver dato la precedenza alla moto proveniente da Progresso, o che fosse invece la moto/Progresso ad andare troppo forte perché la macchina/Prosperità potesse evitarla? Nessuno ha visto niente. Risultato: ci si svegliava di soprassalto con quell’inconfondibile doppio rumore, quel sibilo di pneumatici seguito, una frazione di secondo dopo, dal tonfo sordo tipico dei tamponamenti… o dal grattare metallico d’una marmitta sull’asfalto. A quel punto non si poteva far altro che aprire la finestra per verificare che nessuno si fosse fatto davvero male, per poi riaddormentarsi con le caleidoscopiche luci blu della polizia stradale che danzavano sui muri della camera da letto. Finita lì. Il giorno dopo nemmeno se ne parlava più. Il non-evento aveva lasciato come unica traccia qualche cumulo di ghiaia a coprire le macchie d’olio proprio in quell’area grigia che non si sa bene se sia ancora Prosperità o si tratti già di Progresso.

Ma poi è arrivato il 19 Settembre 2017 e le cose sono cambiate. Non dico in peggio, no. Sono cambiate e basta. O forse sono rimaste esattamene le stesse e siamo noi ad essere cambiati.

 

Possibile. Fatto sta che da quel giorno la mia relazione con quell’angolo di città e, per estensione, con tutta Città del Messico ha preso una svolta assolutamente inaspettata. Perché il 19 Settembre è stato il giorno del terremoto di magnitudo 7.1 e alle 13 e 14 minuti me ne stavo tranquillo in sala ad apparecchiare tavola. Anzi, nel momento esatto in cui la terra ha iniziato a tremare ero chinato, schiena curva sotto il tavolo alla ricerca d’un cucchiaio caduto. La mia prima reazione è stata quella di crearmi un’immagine mentale del camion al cui passaggio, secondo la mia logica, il pavimento aveva iniziato a oscillare visibilmente. Ma l’illusione è durata poco. Qualche frazione di secondo ed ecco improvvisamente quel suono: l’allarme sismico. Certo non era la prima volta che lo sentivo. Per l’esattezza era la seconda. Proprio pochi giorni prima, in piena notte, quella stessa sirena aveva già accompagnato la nostra frettolosa discesa in strada. Tuttavia il 19 Settembre le cose erano ben diverse: la forza del terremoto, le conseguenze devastanti… e soprattutto il fatto che l’allarme stesso fosse suonato nel momento in cui la terra già tremava e non, come sempre, trenta secondi prima. Insomma, questa seconda volta s’era trattato d’un segnale di conferma, non di un avvertimento.

Ma giusto per essere chiari: quello che m’interessa qui non è il sisma in sé, quanto piuttosto la presa di coscienza di come un tale evento abbia cambiato bruscamente il mio rapporto con i suoni di questa città. Perché da quel giorno in avanti, mentre le agenzie immobiliari ribattezzavano gli appartamenti al primo piano come “i nuovi attici” grazie alla possibilità di fuga rapida, la mia sensibilità a qualsiasi suono in grado di compromettere la quiete di Prosperità e Progresso è cresciuta in maniera esponenziale. E se tale ossessione non ha certo mitigato gli aspetti palesemente negativi del vivere seduti sopra una zona sismica, devo ammettere che li ha quanto meno ammortizzati. D’improvviso mi s’è aperta davanti agli occhi una nuova frontiera e la città che credevo di conoscere si è rivelata in tutta la sua stratificata complessità acustica. È a questo punto che ho deciso di metter tutto per iscritto e stilare la bozza di una guida sonora di Città del Messico.

La procedura è semplice e no, non è stato necessario scendere in strada, o aprire il portone del palazzo, né tanto meno la porta di casa. Infatti, dopo giorni d’osservazione, mi sono reso conto di come tutte le ricerche necessarie si potessero svolgere stando comodamente seduto sulla mia sedia Acapulco strategicamente posizionata nel mezzo del terrazzo che si affaccia su Prosperità/Progresso. Certo, come ogni bozza, anche questa dev’essere considerata come provvisoria; ma sono convinto che lasci trapelare in controluce la possibilità di un sistema a venire, un’immagine seppur tenue del panorama sonoro che costituisce la spina dorsale del mio quartiere e, più in generale, di tutta questa gigantesca, assurda città.

Andiamo per ordine… se non d’importanza, quanto meno cronologico.

08.00 del mattino

L’urlo dell’uomo che distribuisce i bottiglioni d’acqua filtrata irrompe nella mia prima colazione. L’uomo gira il quartiere con una bicicletta la cui parte anteriore è stata appositamente personalizzata con un portapacchi in grado d’accomodare i pesanti recipienti. Il segreto del suo successo risiede nella capacità di prolungare esageratamente l’ultima sillaba della parola “acqua” rendendo il richiamo irresistibile per gli assetati.

 

  09:15 del mattino

La campana che annuncia la raccolta dei rifiuti mi coglie impreparato mentre sto rispondendo a una mail. Si tratta d’un gruppo di cinque o sei persone, per lo più uomini, letteralmente a cavalcioni su un camion della spazzatura zeppo di rifiuti organizzati in sacchetti giganti di tela. Uno di loro – il prescelto, per così dire – precede il veicolo a piedi agitando all’impazzata un campanello per informare l’intero isolato del loro arrivo.

Il grido dell’uomo che vende e ricarica le bombole del gas mi distrae durante un appuntamento di lavoro. A un orecchio inesperto, il suono potrebbe facilmente essere confuso con quello dell’uomo che vende acqua filtrata. Ma devo ammettere come, dopo un’analisi più attenta, le due voci differiscono profondamente sia in profondità che in colore.

La litania pre-registrata del venditore di tamales – tipico piatto preparato con impasto di mais – mi ricorda che è ora di mangiare qualcosa. Un ragazzo su una bicicletta molto simile a quella del venditore d’acqua filtrata gira con un grande pentolone di alluminio, forchette di plastica e tovaglioli di carta. Anche senza individuarlo fisicamente, quella voce stridula sembra fluttuare come un soffio leggero per tutto il quartiere. La sua onnipresenza rassicura gli erranti, e la sua puntualità viene in aiuto quando si vuole sapere l’ora esatta e non si ha con sé nemmeno il telefono.

 

  03:00 del pomeriggio

Un camioncino parcheggiato in doppia fila da cui proviene una voce maschile, pre-registrata. La voce elenca incessantemente i due, massimo tre tipi di frutta venduti quel giorno, secondo la disponibilità. Il tono è pressante, il ritmo incalzante. L’abuso di ripetizioni e allitterazioni incanta e attrae clienti da tutto il vicinato. È più che probabile che, ore dopo la dipartita del veicolo, la cantilena mi stia ancora ronzando in testa. Risultato: finisco col canticchiarla sotto la doccia.

05:30

Il tintinnio acuto e ritmico dell’arrotino accompagna la mia pausa caffè. Due profili d’acciaio spessi circa 2 centimetri, uno dritto, l’altro piegato in modo da ottenere un ferro di cavallo. L’uomo usa il primo per colpire il secondo, in modo da produrre un suono tagliente che anticipa un lavoro ben fatto.

08:30 di sera

Il sibilo acuto del “forno a quattro ruote” del venditore di patate dolci sveglia mio figlio pochi minuti dopo aver preso sonno. Si tratta d’un marchingegno curioso: una piccola stufa a legna cuoce i tuberi mentre viene trascinata per le strade del quartiere. Nel processo di cottura, il forno raccoglie sufficiente vapore per produrre, una volta espulso attraverso un piccolo tubo simile a un camino, un fischio acuto in grado d’essere sentito a un miglio di distanza.

 

Pressoché ad ogni ora del giorno e della notte

Una voce femminile, una cantilena pre-registrata e in loop, elenca una serie di vecchi articoli per la casa: materassi, lavatrici, frigoriferi, stufe eccetera. Il camion da cui questa voce proviene si muove a passo d’uomo per le vie del quartiere nella speranza d’acquistare per pochi Pesos qualunque cianfrusaglia di cui la gente voglia disfarsi. Ora, non so bene chi sia questa donna o come sia successo che la sua voce abbia finito per permeare la stragrande maggioranza delle strade di questa città. Ma se dovessi proporre una colonna sonora di Città del Messico, la scelta cadrebbe sicuramente su di lei.

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