Fairfax, Oklahoma, attorno al 1920. Foto e filmati in bianco e nero di indiani con macchine di lusso, gioielli, vestiti eleganti, e un tenore di vita tra i più alti di tutta l’America di allora. I bianchi che gli stanno attorno si arrabattano invece per dare una mano, farsi assumere per qualche lavoretto o collaborazione; o, più semplicemente, per tentare di raggirare qualcuno di questi noveaux riches e accaparrarsi le briciole di tanta ricchezza.
È una delle prime scene di Killers of the Flower Moon, presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Cannes e da poco uscito nelle sale italiane. E sembra in effetti la storia di un mondo capovolto, dove i bianchi e i nativi americani si sono scambiati di posto. È invece una vicenda reale, tra le più improbabili e sorprendenti della storia statunitense, che ha ispirato nel 1991 un romanzo candidato al Pulitzer (Mean Spirit, della scrittrice Chickasaw Linda Hogan) e nel 2017 un saggio narrativo del giornalista David Grann, Killers of the Flower Moon appunto (in Italia è stato edito da Corbaccio con il titolo Gli assassini della terra rossa), il quale, sebbene criticato da molti storici dei nativi americani, ha fornito a Scorsese e al co-sceneggiatore Eric Roth un molto generico soggetto per il film.
La tribù degli Osage, originaria delle valli dei fiumi Ohio e Mississippi, a seguito di varie guerre e deportazioni finì per essere relegata a quello che nel XIX secolo si chiamava “Territorio indiano”, un’area corrispondente più o meno all’attuale Oklahoma, costituita ad arte per isolare e radunare diverse tra le tribù indiane man mano che avanzava la colonizzazione bianca. Ironia della Storia, è proprio in questa terra che vennero scoperti all’inizio del XX secolo alcuni tra i più ricchi giacimenti petroliferi dell’America del Nord. Una scoperta che in brevissimo tempo rese alcuni dei loro abitanti, come gli Osage, tra i più ricchi rentiers della nazione. Senza dover far nulla.
Come fare dunque per accaparrarsi la materia prima per eccellenza più preziosa per il nascente e dinamico capitalismo americano? Come riuscire a requisire quella terra che era appena stata data agli Osage credendola senza alcun valore? Si tratta di una delle tante storie di “accumulazione originaria” che hanno contraddistinto gli albori della storia del capitalismo e con cui Marx chiude il primo volume del Capitale. E che continuano ancora oggi, come mostrano tutte le vicende legate alla proprietà delle terre indigene e allo sfruttamento delle materie prime che vi sono contenute: dalla Riserva di Standing Rock, dove dal 2016 i nativi si oppongono con tattiche di disobbedienza civile alla costruzione del Dakota Access Pipeline, alle lotte contro al fracking, la fratturazione del suolo mediante liquidi al fine di ottenere una migliore produzione di petrolio o di gas, con devastanti effetti sull’ambiente. Ma il segreto – quando il cinema vuole mostrare un evento storico generale attraverso una storia particolare – è sempre quello di legare processi collettivi e impersonali con storie soggettive e scelte individuali, in modo da far intravedere la prima nei secondi.
Killers of the Flower Moon racconta la storia particolare di William Hale (Robert De Niro), un proprietario terriero dell’Oklahoma e allevatore di bovini che si trova per caso ad avere le proprie terre contigue a quelle degli Osage e che vede in tutta questa vicenda una grande opportunità. Ma soprattutto è la storia del nipote Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio), un reduce della Prima Guerra mondiale menomato fisicamente (“something happened in my guts”) che si trasferisce in Oklahoma perché – a suo dire – gli piacciono i soldi. Ma gli piacciono anche le donne, l’alcol, il gioco d’azzardo, la violenza… In che modo queste due storie particolari entreranno a far parte di un evento storico generale, ovvero la requisizione della terra agli Osage che renderà possibile la nascita delle grandi compagnie petrolifere private?
Quando Scorsese doveva parlare degli investimenti della criminalità organizzata a Las Vegas (Casinò), o dei missionari cattolici nel Giappone del Seicento (Silence), o della criminalità organizzata di origine italiana a New York attraverso una storia soggettiva (Quei bravi ragazzi), lo faceva creando un cortocircuito tra generale e particolare, usando i conflitti soggettivi interiori come immagine di una questione universale. Qui avviene qualcosa di un po’ diverso, che forse ha preso un po’ in contropiede molti di quelli che da Scorsese si aspettavano un’altra grande epopea. La struttura di base dei film scorsesiani, anche quando non parlano di religione, è sempre “religiosa”: si serve del peccato come occasione di ribaltamento nella grazia (di fatto, come ha ammesso lui stesso, tutti i protagonisti dei suoi film sono variazioni sul tema del Johnny Boy di Mean Streets). Ebbene, in quest’ultimo Killers of the Flower Moon le tensioni drammatiche che dilaniano l’esperienza soggettiva sono quasi completamente assenti.
Ernest Burkhart è infatti una figura troppo stupida e troppo “piatta” per incarnare nella propria soggettività il conflitto drammatico e a volte tragico tra Storia e individuo. Perché il peccato diventi grazia (L’ultima tentazione di Cristo), perché la pulsione di morte diventi elevazione all’eternità (Toro scatenato), perché la dannazione diventi redenzione (The Irishman), perché il tradimento diventi fedeltà (Silence ma anche L’età dell’innocenza) c’è bisogno di un ingrediente fondamentale: la verità. I conflitti latenti devono palesarsi, ciò che è rimosso deve tornare alla luce: insomma, il destino deve colpire l’individuo che pensava di sfuggirgli. In Killers of the Flower Moon la verità rimane invece nascosta fino alla fine, lasciando inespressa quella resa dei conti drammatica che non solo ha contraddistinto i suoi film, ma che è da sempre un ingrediente necessario per trasfigurare il soggetto in eroe e la vicenda storica, o pseudo-storica, in mito.
Lo si vede nel dialogo finale tra Burkhart e la moglie Osage Mollie (Lily Gladstone), che Ernest ha sposato solo per ereditare i suoi diritti di proprietà sulla terra e le cui medicine per il diabete sono state volontariamente manipolate da lui e dallo zio, causandone quasi la morte: di fronte all’ultima opportunità di dire la verità e ammettere che la propria vita si è fondata sulla menzogna, decide di tacere. E non è chiaro se si tratti di mancanza di coraggio o se, in modo ancora più inquietante, non sia lui stesso ad avere iniziato a credere alle proprie bugie.
Killers of the Flower Moon è sorprendentemente uno dei film dove Scorsese finisce per sconfinare più volte nei toni della commedia e dove il climax drammatico rimane sempre un passo indietro rispetto alla sua piena espressione. Chi si aspettava il Great American Movie che trasfigurava la storia particolare in mito universale – alla Cancelli del cielo o Petroliere – rimarrà inevitabilmente deluso da un film che, nonostante le tre ore e mezza di durata e il budget da 200 milioni di dollari, è tutt’altro che una grande epopea magniloquente. Qui invece della trasfigurazione in mito c’è semmai una burletta, o meglio un radiodramma un po’ stupido, sponsorizzato dall’FBI, che prende il posto del mito e che finisce per banalizzare quello che indubbiamente fu un evento storico epocale e drammatico, ma che non venne mai riconosciuto come tale. E che pertanto non ha alcun posto nel mito americano, neanche nella sua faccia denegata e bastarda: perché il genocidio dei nativi raffigurato in questo film non ha la forma del grande sterminio di massa – che pure in altre occasioni ebbe – ma di una serie di esecuzioni mirate, cooptazioni, matrimoni semi-combinati, raggiri piccoli e grandi, in un misto di inganno, arrendevolezza e violenza che ebbe come prima conseguenza quella di togliere ai nativi americani anche lo status di vittime.
C’è qualcosa di assolutamente geniale in una forma filmica così trattenuta e insolita per Scorsese, così atipica per il suo cinema: un gangster movie senza nemmeno la cattiveria dei gangster (a un certo punto compare persino J. Edgar Hoover, che però qui sta incredibilmente quasi dalla parte dei buoni); una storia di mafia che però non ha il bagno di sangue di Quei bravi ragazzi; un western senza cowboy; una commedia che non fa ridere.
Forse la cifra più autentica e originale di Killers of the Flower Moon è da ricercare proprio in questa struttura drammatica dissimulata, in una sorta di doppia cancellatura della storia che ha finito per nascondere anche le tracce di questa rimozione. E se un regista come Scorsese è capace a ottant’anni suonati di tornare ancora una volta sui propri passi e realizzare un Liberty Valance senza alcuna concessione alla maniera, vuol dire che tutto sommato al cinema – anche oggi, anche per il più smaliziato e disincantato degli spettatori – è ancora possibile sorprendersi. E non può che essere una buona notizia.