Abbiamo visto “ Frantz “ regia di François Ozon.

Con Pierre Niney, Paula Beer, Ernst Stötzner, Marie Gruber, Johann von Bülow. Genere Drammatico, produzione Francia, 2016. Durata 113 minuti circa. Da giovedì 22 settembre 2016

Regista non ancora cinquantenne e assai prolifico con i suoi quindici tra corti e mediometraggi e ben sedici film all’attivo.   Nella sua ricerca di temi e di stili è passato dalla Trilogia del Lutto a vari generi cinematografici come il grottesco, la commedia, il giallo, il musical fino al melodramma; passando dall’ambientazione da inizi Novecento, agli Anni Settanta, all’attualità. Scrivendo sceneggiature originali ma anche traendo da romanzi e pièce teatrali i suoi script. Bisogna dire che è un regista apprezzabile per bisogno di ricerca, che spazia i suoi interessi e curiosità da storie di bambini che osservano gli adulti a quelle di fragili identità sessuali, dall’amore dichiarato a quello equivoco, da storie di donne incinte a ragazze che si prostituiscono, a fatti criminali. Per quantità di interessi e per una certa visione del mondo fa venire in mente vagamente il grande regista tedesco Fassbinder da cui ha tratto dal testo teatrale Tropfen auf heisse Steine il film Gocce d’acqua su pietre roventi ( 1999 ); ma il confronto si ferma qui in quanto il punto di vista è più razionale e culturalmente francese, mentre l’esplorazione del desiderio è più mediatica e borghese.

Pur confezionando sempre dei film interessanti, però François Ozon non riesce a realizzare delle opere di grande respiro, da autore fondamentale, probabilmente perché, per il suo cinema, la forma è sempre tutto e lo stile rischia di creare una struttura complessa ma in fondo un po’ vuota. Oppure è per una certa vena patinata, per un effetto glamour o perché l’eros è troppo conciliato col thanatos seppur con qualche insidia, sempre comunque in un’atmosfera ovattata e armonizzata. Anche questo Frantz è tratto da una pièce teatrale, L’Homme que j’ai tué di Maurice Rostand e già utilizzata dal maestro Lubitsch per il film Broken Lullaby ( 1932 ), uno dei suoi film meno conosciuti. E Ozon sceglie per la prima volta il bianco e nero per dare concretezza e atmosfera a uno sfondo che però nella seconda parte non ha la drammaticità dei disastri del post guerra.

Siamo nel 1919 in un piccolo paese tedesco appena uscito dalla Prima Guerra, i cui cittadini conservano tutto il dolore dei propri morti ma anche la rabbia per la sconfitta. Anna è una giovane e bella ragazza orfana, abita in casa dei genitori del suo fidanzato morto in guerra ( una bravissima Paula Beer, al suo quinto film e Premio Mastroianni per la migliore attrice emergente al festival di Venezia ), vive come una vedova inconsolabile. Nessuno dei tre ha superato il dramma della perdita e sembra che Anna non riesca a elaborare il lutto, ogni giorno va al cimitero e si ferma a curare i fiori sulla tomba. Un giorno scopre che qualcun altro ha messo dei fiori e ben presto si saprà che Adrien ( Pierre Niney ), un francese, afferma di essere amico di Frantz, da prima della guerra; il giovane inizia un rapporto di frequentazione con i genitori del soldato ucciso, diventando ben presto una proiezione dei due vecchi che attraverso Adrien ritrovano un figlio e assecondano la simpatia di Anna per il giovane uomo. Storia fatta di piccoli dettagli e gentilezze, brevi passeggiate dei due ragazzi e cene in famiglia, con la condivisione dell’amore per la musica, lui suona il violino e lei il piano; il tutto viene interrotto costantemente però dalla diffidenza degli altri, ostili ai francesi e in particolar modo da parte di un pretendente rifiutato da Anna. Lui ripartirà dopo qualche tempo, nonostante entrambi provino un sentimento forte non riescono ad esprimerlo; lui poco prima di ripartire le confessa il vero rapporto che ha avuto con Franz e del suo naturale senso di colpa che vuole svelare ai genitori ma che lei impedirà con delle piccole bugie. Entrambi sono due giovani delicati e forse desiderosi di farla finita, ma forse è proprio l’idea della morte che alimenta il loro desiderio di vivere, come il quadro di Manet, “ Il suicidio ”, di cui lui le parlerà e lei andrà a vedere al Louvre più di una volta. Dopo che le loro lettere si interrompono, su spinta dei genitori di Frantz, Anna parte alla ricerca di Adrien a Parigi, ricerca difficile in una grande città quasi allo stremo, ma l’incontro ci sarà e il finale diciamo è un po’ malinconico e a sorpresa…

Un buon film, si potrebbe dire senza tempo, pudico e trattenuto, in cui si affrontano – ma sempre restando un po’ in superficie – parecchi temi come un possibile amore tra due ‘ nemici ‘ ( potrebbero essere un israeliano e una palestinese o un pachistano e un’indiana ), la questione politica di una fratellanza impossibile, la difficoltà per tutti di superare un odio indotto, la difficoltà del senso di colpa, di riuscire a rielaborare il lutto, la necessità di perdonare e andare avanti, il modo di affrontare la verità e la necessità di dire qualche bugia, accettare che chi è morto non era perfetto ma a volte banale come tutti. Ma sembra che in fondo per Ozon, tutto si giochi su un altro piano, la distanza tra la materia vera dei sentimenti e la difficoltà di esprimerli. Se nella prima parte il regista riesce a raccontare con una certa efficacia una microsocietà ancora incapace di accettare la sconfitta e quindi di lasciare spazio alla parte più nera della coscienza di un popolo, nella seconda parte, la realtà francese emerge solo con una scena un po’ a effetto, quando in un ristorante di Parigi gran parte dei clienti cantano La Marsigliese, e questo ci sembra veramente un po’ poco.

Un buon cast su cui emerge la protagonista tedesca Paula Beer. Adrien, Pierre Niney ( visto ne Le nevi del Kilimangiaro e Yves Saint Laurent ) è un po’ troppo stereotipato nel suo ruolo e nel suo aspetto da romantico e delicato personaggio da film degli Anni Venti.

voto 7

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