Esattamente cinquant’anni fa è accaduto che, in un preciso momento del secolo scorso, i due “filosofi del secolo” stringessero un sodalizio inaspettato e durevole. È il 27 novembre 1971: una mattina cupa e fredda, tipica dell’autunno francese, ma anche tesa, alla Goutte-d’Or, banlieu situata al centro di Parigi, ai piedi della collina di Montmartre e connotata dalla presenza numerosa di famiglie e di lavoratori immigrati di origine maghrebina. Le tensioni razziali nel quartiere si sono acuite con l’affaire Djellali Ben Ali: un adolescente algerino che, dopo aver malmenato la portinaia del suo immobile, viene ucciso a colpi di fucile dal marito della stessa portinaia, col pretesto di un presunto tentativo di stupro perpetrato dal giovane nei confronti della moglie. La condanna lieve a sette mesi, in primo grado, all’omicida fa scattare una mobilitazione degli intellettuali di sinistra, che si affianca a quella dei comitati locali e dei militanti della Gauche prolétarienne (GP), con l’organizzazione di una manifestazione e di un “appello ai lavoratori del quartiere” , alla cui testa si pongono a sorpresa: Michel Foucault e Jean-Paul Sartre.

Così, quella mattina fredda è anche il giorno del primo incontro e del “disgelo” tra i due maîtres à penser francesi, divisi, già da alcuni anni, dalla scia di acredine che contrassegnò la polemica nata all’indomani della pubblicazione di Le parole e le cose di Foucault, nel 1966. Vedendo nel libro un esempio emblematico e potente della “furia del dileguare” la storia e l’uomo, il soggetto e la prassi, propria dello strutturalismo, Sartre, sulle pagine de L’Arc, smascherava, a suo dire, i reali intenti politico-ideologici dell’opera: “Dietro la storia, beninteso, è il marxismo che è preso di mira. Si tratta di elaborare una ideologia nuova, l’ultimo presidio che la borghesia può ancora costruire contro Marx”. Dal canto suo, Foucault ne approfittava per presentare causticamente la Critica della ragione dialettica, scritta sei anni prima da Sartre, “come il magnifico e patetico sforzo di un uomo del XIX secolo di pensare il XX secolo” (v. Didier Eribon, Michel Foucault. Il filosofo del secolo, una biografia, Feltrinelli, 2021). Per entrambi, l’appuntamento alla Goutte-d’Or s’inanella a una catena di impegni e attività di militanza, a cui l’onda lunga e ambivalente del “Maggio 68” li ha trascinati da almeno un paio d’anni, inducendoli anche a riflessioni sostanzialmente convergenti sulla necessità di una funzione nuova dell’intellettuale. Ed entrambi, pur non essendo e non divenendo mai maoisti, si ritrovano a solidarizzare con le lotte e le cause della GP, fondata nell’autunno del 1968, di cui apprezzano lo spontaneismo, l’obiettivo della democrazia diretta, l’appoggio alle rivolte popolari e apparentemente marginali, di immigrati, prigionieri, indigenti delle periferie, il rifiuto delle nozioni di “rivoluzionari di professione” e di presa del potere.

Considerata come sobillatrice di azioni illegali, la GP è presa di mira dal governo e dalla repressione poliziesca, che, nella primavera del 1970, culmina con gli arresti, messi in atto con pretesti, dei direttori del loro giornale, La Cause du peuple, Jean-Pierre Le Dantec e Michel Le Bris, e poi del loro leader, Alain Geismar. Sartre accoglie il loro appello e grido di aiuto. Convinti che lo Stato non oserà arrestare l’intellettuale di fama internazionale, i militanti della GP offrono al filosofo la direzione del giornale, e Sartre accetta. Non solo. Contro il tentativo della polizia e della censura di bloccare le vendite del giornale, Sartre scende per le strade a venderlo di persona e, tramite un’associazione di Amici di La Cause du peuple, diretta da Simone de Beauvoir e Michel Leiris, sensibilizza a questo scopo altri intellettuali, scrittori e artisti. Parallelamente, Sartre elabora il concetto di “nuovo intellettuale”, contrapposto all’intellettuale classico, allo specialista del sapere. È persuaso che il nuovo intellettuale è emerso con la contestazione dei corsi magistrali nel Sessantotto, e che ora si affianca alle masse, si mette al loro servizio, rifiutando un ruolo guida o di giudice sovrano, lottando per un ideale universale di società giusta e desiderabile, in cui finalmente cesserà di essere un ceto separato. Anche l’impegno di Foucault negli stessi anni è una conseguenza pratica della sua teoria del potere ed è coerente con la riformulazione del ruolo e della figura dell’intellettuale, che tra l’altro condivide con Gilles Deleuze.

 

 

Tutto ha inizio nell’autunno del 1970, quando il compagno Daniel Defert, coinvolto nella protesta della GP volta a far riconoscere lo status di prigionieri politici ai propri militanti arrestati, propone a Foucault di presiedere una “commissione d’inchiesta” sulle prigioni, sul modello dei “tribunali popolari” istituiti sempre dai maos, che Sartre ha già accettato più volte di presiedere. Foucault preferisce chiamarlo “gruppo d’informazione” e redige un manifesto, con la parola d’ordine: “La parola ai detenuti!”, presentato alla stampa con Jean-Marie Domenach, il direttore della rivista letteraria cattolica Esprit, e lo storico Pierre Vidal-Naquet: nasce il GIP (Groupe d’information sur les prisons). Presto il GIP si stacca dalla costola maoista, si rende autonomo e si riproduce come modello di attivismo civile anche in altri ambiti e nella provincia. Ne è sedotto anche Deleuze, che vi vede un nuovo tipo di organizzazione capace di rinnovare i rapporti tra teoria e pratica e lo spazio di intervento di un nuovo tipo di intellettuale, che non pretende più di essere una coscienza rappresentante o rappresentativa. Anche Foucault vede l’occasione storica di congedarsi dalla figura dell’intellettuale rappresentante dell’universale, detentore della verità e della giustizia, portavoce di chi non ha ancora piena coscienza del vero o di coloro che non possono dirlo, per rimpiazzarla con quella dell’“intellettuale specifico” che si batte con le masse e nelle masse, che ormai non hanno bisogno degli intellettuali per sapere, dire o diventare coscienti.

Semmai, possono averne bisogno per spezzare o incunearsi nella rete istituzionale dell’informazione che sbarra la via al “sapere” e ai “discorsi” delle masse, per affrontare e cambiare i regimi politici, economici, istituzionali dentro i quali si “produce” la verità. Da qui, l’importanza di intraprendere lotte alla periferia del sistema, intorno a centri locali di potere (il capoccia, il portiere di case popolari, il direttore di prigione, un giudice, un responsabile sindacale, un redattore-capo di giornale..), di rinnovare la pratica politica con la rivolta, abbandonando il mito della rivoluzione. Negli stessi anni in cui l’archeologo del sapere si trasforma nel genealogista che diagnostica i rapporti tra potere, saperi e corpi nella società moderna, Foucault passa dalla teoria alla pratica: se la forma del potere è costellata e capillare, anche l’azione politica dovrà decentrare e moltiplicare i suoi terreni di lotta. E, per Foucault, tutte le lotte sono importanti, centrali, non ce n’è una che può catalizzare le altre, tantomeno la “lotta di classe”.

Eppure, l’avvicinamento tra i due, fino a poco tempo prima impensabile, forse andava al di là del comune impulso a “gettare il proprio corpo nella lotta” e andava a toccare inconsciamente corde più segrete. Come se le due orbite intellettuali di Foucault e Sartre si sovrapponessero e l’uno abbandonasse parzialmente la propria per percorrere e sondare quella dell’altro.

 

 

I due sembrano incontrarsi nell’interstizio dei due cammini che stanno compiendo a rovescio rispetto alla precedente traiettoria. Foucault si muove più decisamente dalla struttura alla storia, al soggetto, Sartre si muove oscuramente dalla storia alla struttura, dalla libertà al condizionamento.. Gli anni febbrili in cui sostiene apertamente La Cause du peuple e poi l’altra e più fortunata avventura giornalistica della GP, Libération (in misura minore, vi collaborerà anche Foucault), Sartre sta lavorando, infatti, al libro su Flaubert: L’Idiota della famiglia. Sembra per un momento lasciare alle spalle il faticoso tentativo di integrare la struttura nella storia, la ragione analitica nella ragione dialettica, perseguito nella Critica della ragione dialettica del 1960, che, nonostante l’ostinazione a voler a tutti i costi subordinare le prime alle seconde, nella cornice dell’“insuperabile” marxismo, aveva il merito di mostrare come lo strutturalismo nella deriva scientista rischiasse di frantumare e cristallizzare la conoscenza dell’uomo. Come ci fa comprendere bene l’ultimo saggio di Massimo Recalcati, che reinterpreta originalmente tutto il percorso sartriano alla luce della discontinuità e della novità dell’opera su Flaubert, il Sartre più maturo scopre invece il carattere “insuperabile” e “inassimilabile” dell’infanzia nel processo di costruzione del soggetto, il quale non appare più scintillare agli stessi occhi di Sartre nella pura trascendenza della libertà o nella prassi storica trasformatrice del mondo e della società.  il Sartre che “dissolve l’idea di un’esistenza libera che precede ogni essenza, mostrando invece quanto l’esistenza si trovi da sempre sommersa, insabbiata, presa in circuiti di costrizione eterodiretti, inclusa nell’alienazione della storia, obbligata a una passività di fondo costituita dalle marche traumatiche del desiderio degli Altri” (M. Recalcati, Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio, Einaudi, 2021).

Viceversa, Michel Foucault si fa contagiare dalla posa dell’intellettuale “universalista” che ancora Sartre incarna e, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, assume sempre più le vesti di difensore e combattente per i diritti umani e i valori della democrazia. Una direzione che farà allontanare da lui Deleuze, ma che lo porterà a ritrovarsi ancora con Sartre in nuove iniziative e lotte come la protesta contro la visita di Breznev in Francia, in appoggio ai dissidenti sovietici, o il sostegno all’operazione del boat-people vietnamita di Bernard Kouchner. E, non a caso, negli stessi anni Foucault va maturando un cambiamento nel programma di lavoro. Comincia a dismettere la postura nietzschiano-genealogica radicale del filosofo del sospetto, che scorge dietro i proclami illuministici e liberali solo dispositivi di assoggettamento e a interessarsi a una nuova problematizzazione del soggetto fino al tema del “governo di sé”.

 

 

In un testo letto in occasione di una conferenza stampa a Ginevra, per un’iniziativa contro la pirateria, nel 1981, la conversione alla nozione di universalità dei diritti dell’uomo è ormai netta. Per Foucault, esiste senza dubbio “una cittadinanza internazionale che ha i suoi diritti, che ha i suoi doveri e che impegna a opporsi a qualsiasi abuso di potere, qualunque sia l’autore, qualunque sia la vittima”. In nome di questa cittadinanza internazionale e dell’appartenenza a una comune umanità, i governi vanno richiamati alla loro responsabilità di fronte al dolore e alle sofferenze, poiché “la sofferenza degli uomini non deve mai essere uno scarto muto della politica.

Essa fonda un diritto assoluto da sollevare e rivendicare di fronte a chi detiene il potere (“Face aux gouvernements, les droits de l’homme”, Libération, 30 giugno – 1° luglio 1984). L’“intellettuale specifico” che nei primi anni Settanta s’imponeva di parlare solo in nome proprio, di non porsi più come l’intellettuale universale (“maledetto” o “socialista”) avanti o al di sopra, per “dire la verità muta di tutti” (v. Gli intellettuali e il potere. Conversazione tra Michel Foucault e Gilles Deleuze, 1972), ora raccomanda a sé e agli altri di indignarsi e di dare voce alla sofferenza umana che i governanti vorrebbero ignorare o lasciare muta. Nella teoria e non solo nella pratica, Foucault sembra ora non avere remore nel considerare gli intellettuali una sorta di esercito di mobilitazione o di riserva per la libertà, per la dignità umana, non solo in situazioni limite e di pericolo per un ordine democratico, ma in qualsiasi momento i diritti civili, sociali, umani, diventino una posta politica fondamentale, come torna a essere anche oggi. C’è una inflessione nuova e diversa nello sguardo dell’ultimo Foucault, su cui non possiamo escludere che abbia influito l’“umanista” Sartre. Infatti, negli ultimi volumi della Storia della sessualità, quasi rileggendo retrospettivamente la sua parabola intellettuale e militante, Foucault scriverà: “Vi sono momenti, nella vita, in cui la questione di sapere se si può pensare e vedere in modo diverso da quello in cui si pensa e si vede, è indispensabile per continuare a guardare o a riflettere”. A Foucault, e all’amico Sartre, non mancò certamente questo coraggio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *