Abbiamo visto La chiave di Sara (Elle s’appelait Sarah) regia di Gilles Paquet-Brenner.
Paquet-Brenner è un regista giovane, ha da poco superato i 35 anni, ma ha un’idea di cinema che potrebbe collocarlo tra gli ultracentenari, di ‘stile’ classico, passatista e senza un’idea di regia che non sfiori il già visto, l’emotivo algido e convenzionale. Ha già girato cinque film ma nessuno di questi è memorabile, anche se un paio in Francia

hanno avuto un certo successo di pubblico. Nel 2010 ha realizzato da un romanzo di buon successo della giornalista-scrittrice Tatiana de Rosnay questo film che si basa su un fatto veramente accaduto nella Francia del 1942 e sul quale l’autrice ha imbastito una trama di fantasia ambientata nel 2009. Se ci dovessimo attenere alla realizzazione e al plot politicamente corretto e ‘borghese’ dovremmo usare termini come toccante storia romanzata, uno sfondo tragico per persone sensibili, realizzato con stile sobrio e incisivo. E amenità varie. Ma in realtà una domanda naturale si propone con evidenza: oggi come si può raccontare il disgusto e l’abiezione che deve produrre il fascismo e il razzismo? Forse non col politicamente corretto, forse evitando tutti gli stereotipi culturali che si aggirano intorno a questo cancro, forse pensando che è entrato in noi un po’ di quel male, di quella brutalità, di quel cinismo.

E ci viene in mente l’imperfetto ma efficace ultimo film di Pasolini Salò o le 120 giornate di Sodoma del lontano 1975, anno della nascita di Gilles Paquet-Brenner. Ma lasciamo ad altro spazio un’eventuale analisi del problema “Osceno” come categoria politica ed estetica.
Siamo nel 2009, a Parigi, nel famoso quartiere Le Marais. Julia Jarmond (una sempre brava e un po’ distante Kristin Scott Thomas) è una giornalista americana quarantenne, sposata con un manager francese da vent’anni e con una figlia appena uscita dall’adolescenza. Oltre che scrivere per una piccola rivista colta francese è anche interessata e informata sulle tragedie che il periodo nazista in Francia ha creato tra i suoi cittadini. Quando bisogna preparare in redazione un servizio sui tragici fatti del Vél’ d’Hiv è su di lei che cade naturalmente l’incarico.
Nel luglio del 1942, la gendarmeria francese rastrellò su ordine tedesco circa 13.000 ebrei che vennero trascinati nel velodromo, tenuti prigioni senza né acqua e né cibo per alcuni giorni e poi deportati nel campo di concentramento.
Julia inizia a ricostruire i fatti (il film è su due tempi narrativi) ma allo stesso tempo è impegnata a ristrutturare la casa ricevuta dai suoceri e a tenere in piedi un matrimonio che oltre le formalità e la correttezza è ormai finito. Lavorando alla ricostruzione di quei tragici fatti, conosce la storia di una bambina di dieci anni Sara e della sua famiglia, deportati in Germania; la bambina, quando era giunta la polizia a casa, aveva nascosto suo fratellino Michel nell’armadio e li lo aveva lasciato. Per Julia conoscere questa drammatica storia diventa ben presto non solo materiale per un articolo, ma diventa un fatto quasi personale nel momento in cui scopre che l’appartamento che sta ristrutturando era la casa di Sara e dei suoi genitori e che il suocero era andato ad abitarci grazie al rastrellamento. Questa e altre scoperte, fatte con un viaggio negli Usa e uno a Firenze, condizionano le scelte di vita di Julia fino ad avere un bambino contro il parere del marito. E questo è il prezzo che decide di pagare per avere una nuova vita, quasi come se attraverso il tempo quella Sara fosse voluta rinascere grazie a lei e a sua volta avesse fatto rinascere in Julia sopita e stanca una nuova voglia di vivere.
La trama si muove naturalmente su due binari paralleli ben integrati e coerenti, ed anche la scelta registica di fare “due” livelli differenti, quello contemporaneo con interni freddi, rapporti rarefatti e con una fotografia algida e asciutta, e quello del dramma nazista con colori seppiati, interni caldi e modesti e rapporti affettivi intensi fino allo spasimo resta coerente con la visione d’insieme. Come la giovanissima Sara (una coinvolgente Mélusine Mayance) e sua madre (un’intensa Natasha Mashkevich) hanno un rapporto intenso e fisico, così la giovane Zoe (Karina Hin) e sua madre Julia hanno un rapporto affettuoso ma distante.
Una pecca che possiamo trovare nella cifra registica è che non si discosta molto dal romanzo-romanzato e nell’insieme la ricerca di lei fa perdere sia la drammaticità dell’olocausto, sia i rapporti personali tra Julia e suo marito relegati a tre scene soltanto e troppo abbozzate (come il tradimento di lui focalizzato da uno sguardo di una collega).

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