Il DdL n. 2994 in discussione al Senato, che tante polemiche ha acceso, se verrà approvato introdurrà molti cambiamenti nella scuola. Vale la pena riassumerli, anche se in modo incompleto: il notevole accentramento di poteri decisionali nella mani del Dirigente Scolastico; la possibilità di aziende private (oltre che di associazioni e realtà territoriali di vario genere) di collaborare molto da vicino con le scuole e di finanziarne (o indirizzarne) parte delle attività; il principio della chiamata diretta di un insegnante da parte dei singoli istituti scolastici; l’assunzione di un certo quantitativo di precari, ma non di tutti quelli che nell’ultimo decennio hanno lavorato nelle scuole; l’introduzione del principio della valutabilità dell’insegnante tramite un premio da attribuire ai più meritevoli. E altro ancora.

Molta della critica (a favore o contro il DdL) è passata attraverso una serie di riduzioni che con facile gioco sono diventate slogan da lanciarsi contro con ogni mezzo possibile. Temo che questo modo di far valere le proprie ragioni abbia, alla lunga, nuociuto più a quella parte dell’opinione pubblica e di lavoratori della scuola, nella quale personalmente mi colloco, contraria alla riforma. Proprio nel momento in cui il DdL è in discussione in Senato, può forse servire rilanciare la critica alla riforma della scuola, ragionandoci su con calma, senza ridurre a slogan il proprio dissenso.

Proverò a farlo a partire da uno solo dei punti che il DdL tratta: la valutazione dell’insegnante. Da una prospettiva molto parziale, dunque, ma che consente una riflessione sui principi generali cui questa riforma si ispira e soprattutto sulle sue enormi lacune.   

“Sì, però anche l’insegnante va valutato!”

Assieme a una parte di comuni cittadini, diversi uomini delle forze di governo hanno detto: “sì, però anche gli insegnanti vanno valutati!”. E poi: “vogliamo introdurre il principio del merito nella scuola”. E ancora: “stiamo stanziando un bel po’ di fondi per premiare chi merita”. E così via. Alcuni Dirigenti Scolastici: “mi piacerebbe finalmente mandare a casa chi non lavora o lavora male”.

In pochi hanno provato a chiedersi (minima&moralia lo ha fatto riproponendo uno scritto di Bruno Trentin che si può leggere qui) se serve davvero una valutazione fatta così, che esalti il principio del merito premiando con incentivi in denaro o buoni-libro e biglietti per il teatro una ristretta percentuale di insegnanti di una scuola. In pochi hanno chiarito cosa voglia dire davvero valutare un lavoratore (e, nello specifico, un insegnante).

Nessun esponente del Governo ha chiarito a cosa debba servire esattamente la valutazione degli insegnanti. E purtroppo, arrivati ormai quasi alla fine dell’iter legislativo, nessuno ha chiaro come e alla luce di quali criteri, se la legge passerà, avverrà questa valutazione. E soprattutto se ci saranno dei criteri chiari e solidi. Si è discusso su chi valuterà. Ma proverò a chiarire che è inutile decidere chi valuterà gli insegnanti se non si determina prima a quale scopo un docente debba essere valutato, con quali strumenti e alla luce di quali criteri.

Ma d’altra parte più i giorni passano, più il dettato della legge rivela come una gran quantità di questioni, delicate e per nulla secondarie, vengono lì solo accennate per essere rimandate, se la legge verrà approvata, nella sostanza della loro attuabilità, ad altra sede e ad altro momento, lontano dal contraddittorio parlamentare. Solo nell’ultimo periodo, così, l’attenzione degli insegnanti si è focalizzata sugli articoli finali del DdL, che affermano che “il Governo è delegato ad adottare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della […] legge, uno o più decreti legislativi, al fine di provvedere al riordino, alla semplificazione e alla codificazione delle disposizioni legislative in materia di istruzione, anche in coordinamento con le disposizioni di cui alla presente legge”.

“Una delega in bianco”, si ripete da parte di chi critica la riforma, che senza contraddittorio alcuno, senza più necessità di mediazione con i sindacati e con l’organo nazionale consultivo della scuola, consentirà al Governo di cambiare ulteriormente le regole che disciplinano la scuola italiana. Particolarmente esposto a rischi sembrerebbe, a una lettura veloce e “poco esperta” di questa parte del DdL, il comparto della scuola dell’infanzia. Ma è poi tutta la questione relativa alle nuove assunzioni, alle nuove immissioni in ruolo, al sistema del reclutamento del personale, alla valutazione del periodo di formazione, che potrebbe riservare ai diretti interessati più di una amara sorpresa (pagamento dei percorsi formativi a carico degli insegnanti appena assunti, ad esempio; primi anni di servizio a stipendio ridotto). Quale sarà l’esito definitivo non è dato saperlo. Se la legge verrà approvata non si potrà fare altro che aspettare e sperare nella buona sorte.

Come un insegnante valuta gli studenti 

Per cominciare a ragionare sull’ampio tema che riguarda la valutazione degli insegnanti mi pare utile raccontare ai non addetti ai lavori come un insegnante intende o deve intendere la valutazione di uno studente.  È infatti necessario che tutti abbiano chiaro che per un insegnante la valutazione è uno strumento (e un momento) ben preciso del proprio lavoro, che (almeno sulla carta) non viene lasciato al caso, ma è disciplinato da una gran quantità di indicazioni, regole, procedimenti che proprio quel ministero che oggi va per le spicce inserendo dei premi per gli insegnanti, e che chiama questa pratica dozzinale “valutazione”, non tratta affatto con sufficienza. Anzi: spende carte su carte, parole su parole, circolari su circolari, per indicare come si debba fare e a quale scopo.

Questa attenzione agli scopi, alla solidità dei criteri e alle procedure da seguire valgono per gli studenti. E come mai per i docenti no?  Perché non sono previste, o almeno indicate nelle linee generali, in questa riforma?

Di solito, quando entro in una classe per me nuova, soprattutto se è una classe già formata da anni, una terza media ad esempio, e sono io l’intruso in un contesto consolidato, passo i primi giorni a gettare le basi per quella che sarà la relazione con gli studenti. Mi presento e mi racconto. Induco gli studenti a fare lo stesso. Per lo più utilizzo dei giochi di parole, faccio loro scrivere brevi testi, che poi leggeranno ad alta voce. Tutti i primi mesi sono dedicati soprattutto a lavori di tipo ludico, creativo e espressivo. Osservo gli studenti, come interagiscono con me e tra di loro. Anche loro mi osservano e cercano di capire chi sono, il mio carattere, la mia preparazione, la mia capacità di essere coerente nelle scelte. Contemporaneamente faccio svolgere i cosiddetti test d’ingresso: verifiche che servono a valutare i livelli di preparazione “in entrata”. I test d’ingresso poi vengono corretti e restituiti agli studenti. Si copiano i risultati sui registri. È il primo stigma, il primo marchio dell’anno scolastico impresso sull’alunno.

Quasi sempre i test d’ingresso vanno piuttosto male: gli studenti sono un po’ arrugginiti dalle vacanze estive e soprattutto i test non verificano l’esito di esperienze didattiche fatte insieme in classe ma nozioni pregresse o di tipo generale. Quando restituisco i compiti corretti li vedo sbiancare in viso. Dico loro che non si devono preoccupare, miglioreranno, quei voti non fanno media, avranno modo di dimostrare quel che sono in grado di fare, le verifiche servono solo a capire come e su cosa all’insegnante conviene cominciare a lavorare.

Ma la valutazione iniziale un insegnante accorto non la fa certo basandosi solo sugli esiti di una prova secca, quale un test d’ingresso è. La fa innanzitutto attraverso una serie di esercitazioni che mettano in gioco le più diverse competenze e abilità, attraverso l’osservazione di un modo di lavorare, di muoversi, di stare in classe, di distrarsi o di sintonizzarsi con gli altri. Anche la qualità del lavoro e l’attenzione con cui si è operativi nel corso di un’attività pratica o laboratoriale può, anzi deve, portare a una valutazione.

Per non spezzare il rapporto di fiducia e quel po’ di possibilità di affidamento che nel frattempo si è creato in classe attraverso i lavori di tipo espressivo, nel momento in cui comunico la valutazione dei test d’ingresso dichiaro da subito che la parte che meno mi piace del mio lavoro di professore è proprio quella inerente la valutazione. I voti li devo dare perché mi tocca, ma la mia considerazione nei confronti della persona a cui metto quel voto, dico loro nel modo più chiaro possibile, va ben al di là del voto stesso.

Perché sia chiaro anche ai profani: la valutazione per un insegnante non è una cosa semplice e scontata. Negli studi pedagogici viene a formare quasi un’intera disciplina. È una branca della didattica di proporzioni piuttosto vaste.

E soprattutto non è un fine in sé ma uno strumento asservito a delle finalità altre rispetto alla valutazione stessa. Certo non serve a premiare un merito o a sanzionare un demerito, è qualcosa che va ben al di là del promuovere e del bocciare. È un momento che deve essere inserito all’interno di un processo educativo e formativo continuato negli anni. E le stesse direttive ministeriali che disciplinano la materia rendono esplicita la finalità educativa che essa ricopre e non riescono a eluderne la natura soggettiva e individualizzata.

La valutazione è un momento della relazione tra insegnante e studente e per questo deve per prima cosa servire alla crescita personale dell’alunno, inducendolo quanto più possibile a sviluppare capacità di autoverifica. Ma, dicono le direttive ministeriali, deve servire anche all’insegnante per auto-valutare l’efficacia del proprio lavoro.

I momenti della valutazione, inoltre, nel corso di un anno scolastico, come sanno benissimo anche i genitori, sono molti, perché hanno lo scopo di monitorare il percorso di crescita che lo studente compie nel corso dell’anno scolastico. C’è la valutazione intermedia e quella finale (le cosiddette pagelle). Ma poi quasi tutte le scuole adottano quello che in gergo viene chiamato “pagellino”: un’ulteriore informazione offerta alle famiglie sul percorso dei loro figli a metà quadrimestre. Infine ci sono ancora altri momenti di ricevimento delle famiglie e continui colloqui che avvengono su appuntamento. E poi ci sono i compiti scritti, le valutazioni orali, la valutazione di lavori svolti in assetto laboratoriale, esperienze extra-curricolari (progetti che avvengono al di fuori delle normali ore di lezione) anch’esse soggette a valutazione, ecc.

La valutazione, insomma, è verifica quasi quotidiana: non si risolve in un solo momento, cioè negli scrutini finali.

Se quella di cui abbiamo parlato all’inizio, esemplificata attraverso la pratica del test di ingresso, è un tipo di valutazione che viene detta diagnostica, poiché serve a capire quali sono i bisogni degli studenti e a impostare di conseguenza una programmazione adatta; quello di cui stiamo parlando ora è un altro momento della valutazione, che viene detto formativo. Si fa “in itinere”, nel mezzo del viaggio insomma, e dovrebbe stimolare correttivi e cambiamenti: tanto nello studente quanto nell’insegnante. Essa inoltre non può avere un valore assoluto e generalizzato.

Per alcuni alunni ad esempio si predispongono programmazioni particolari che tengano presenti, via via, le difficoltà nell’uso della lingua (ad esempio per gli studenti di origine straniera), tempi di apprendimento più lenti per le situazioni di svantaggio socio-culturale, programmi fortemente ridotti per situazioni di deficit cognitivo, ecc. Cioè, ancora una volta, si afferma il principio che la valutazione non è una roba secca, da dentro o fuori, da promossi o bocciati, ma una pratica complessa che non può che prevedere numerosissime variabili e una gran quantità di momenti, situazioni e modalità in cui debba avvenire.

All’interno delle proprie programmazioni annuali, inoltre, gli insegnanti sono tenuti, per precisa direttiva ministeriale, a prestare attenzione alla dimensione più collaborativa della vita d’aula, considerano tra i propri criteri di valutazione anche le capacità che hanno gli alunni di costruire assieme pezzi di sapere, la capacità che hanno di aiutare i compagni in difficoltà: l’attitudine a mettere insieme e a fare circolare le esperienze, insomma, affinché lo studio non sia una prestazione (o performance) individuale, ma avvenga attraverso pratiche condivise, nello scambio reciproco.

Nelle Indicazioni nazionali impartite dal ministero agli insegnanti, tra le competenze che la scuola deve essere in grado di certificare come raggiunte dallo studente alla fine del primo ciclo d’istruzione, cioè alla fine della terza media, ricoprono un ruolo significativo anche queste voci: “Lo studente al termine del primo ciclo […] assimila il senso e la necessità del rispetto della convivenza civile. […] Collabora con gli altri per la costruzione del bene comune esprimendo le proprie personali opinioni. […] Si assume le proprie responsabilità e chiede aiuto quando si trova in difficoltà e sa fornire aiuto a chi lo chiede”.

Per “certificare”, è ovvio, bisogna “valutare”: anche questi aspetti meno quantificabili, più sfuggenti.

È il ministero stesso, insomma, che afferma il principio secondo cui la costruzione del sapere, nelle situazioni scolastiche, non è di tipo competitivo ma collaborativo, non è di tipo performativo ma relazionale. E d’altra parte, se c’è qualcosa rispetto a cui negli ultimi anni la scuola è cambiata in senso molto positivo e che, soprattutto nel sud (ad esempio in Sicilia, da dove scrivo), ha fatto mutare profondamente di segno il compito sociale che la scuola deve darsi, in contesti di mafia come i nostri ad esempio, è proprio tutto il lavoro inerente l’educazione alla legalità e la convivenza civile. Da diversi anni a questa parte la scuola è chiamata a educare alla responsabilità partecipata, alla costruzione di regole condivise all’interno delle singole classi. Sono sempre le direttive ministeriali che lo dicono.

È una contraddizione che notiamo solo noi docenti? Prima il ministero dice agli insegnanti che la scuola deve essere il luogo in cui si educa alla partecipazione democratica. E poi progetta una riforma in cui il comando si accentra in mano a pochi soggetti, in cui viene azzerato il potere decisionale degli stessi insegnanti, costringendoli di fatto ad affilare le armi della piaggeria e dell’opportunismo a discapito di quelle della critica consapevole e della partecipazione franca e aperta ai processi decisionali degli istituti in cui lavorano. Perché la scelta di accentuare così tanto la competizione tra pari? Perché allontanarsi così tanto dal principio della condivisione delle responsabilità?

Anche a proposito di dialogo, di confronto, di conflitto, le attuali Indicazioni ministeriali dicono cose ben precise. Alla voce “Comunità educativa, comunità professionale, cittadinanza”, afferma e sancisce: “Ogni scuola vive e opera come comunità in cui cooperano studenti, genitori e docenti. Al suo interno assume particolare rilievo la comunità professionale dei docenti che, valorizzando la libertà, l’iniziativa e la collaborazione di tutti, si impegna a riconoscere al proprio interno le differenti capacità, sensibilità e competenze, a farle agire in sinergia, a negoziare in modo proficuo le diversità e gli eventuali conflitti per costruire un progetto di scuola”.

Non è un paradosso? C’è una riforma che incentiva negli insegnanti valori e stili di comportamento in completa contraddizione con ciò a cui, a quegli stessi insegnanti, chiede di educare e di valutare gli studenti. C’è un Ministero che, nel presentare una nuova riforma, nega se stesso e le proprie stesse Indicazioni nazionali, alla luce delle quali pretende e ha richiesto per anni ai suoi insegnanti di lavorare.

È evidente che, se passerà la riforma, tutta questa parte dovrà essere necessariamente stralciata dalle Indicazioni nazionali. Il ministero, nell’impartire le sue direttive, non potrà più dire che la comunità professionale dei docenti assume particolare rilievo in ogni scuola. Perché non sarà vero. Dirà che il Dirigente Scolastico occupa particolare rilievo. Peccato che, poi, non è certo lui (o lei) che spende l’intero proprio tempo con gli studenti. Particolare rilievo avrà dunque un soggetto che non ha nulla a che fare con la quotidianità del lavoro educativo con i ragazzi. Ma solo con il lavoro di gestione e amministrazione delle risorse, di rappresentanza, di rapporto con le altre istituzioni e con enti extra-scolastici (tra cui anche le aziende private). Non è contraddittorio anche questo? Che si voglia incentivare il merito degli insegnanti sottraendo loro potere e valore? Che si voglia rilanciare l’efficacia della scuola togliendo centralità a chi ogni giorno fa scuola nelle classi? 

Promossi o bocciati

E alla fine c’è il momento fatidico in cui si tirano le somme. Si determina se uno studente ce l’ha fatta oppure no. Ma ce l’ha fatta a far che? A raggiungere i livelli e gli obiettivi che si erano programmati all’inizio: per tutta la classe o solo per lui (se ha quei bisogni speciali di cui si parlava prima). E infatti questa valutazione viene detta, appunto, sommativa. Deve servire a mettere punto, per girare pagina. Chiude il percorso di un anno scolastico e dà degli esiti finali. Anche questa ultima parte, non è mica facile. E non può risolversi in un dentro o fuori secco. E siccome noi insegnanti non siamo né arbitri né allenatori di serie A, che devono vincere delle partite e far contenti gli sponsor, ma educatori, non può che implicare una domanda di fondo, che è poi sempre la stessa: cosa è davvero utile alla formazione e alla crescita del ragazzo? Che fine farà quel ragazzo che stiamo promuovendo o bocciando? Che ne sarà di lui l’anno prossimo e in futuro? Ha le risorse perché una bocciatura possa essere per lui stimolo alla crescita o quella eventuale bocciatura sarà l’ennesima sconfitta da cui (a undici, dodici o tredici anni) a fatica si riprenderà?

Non è questione di rilasciare un sei politico, come troppo facilmente si afferma, è questione di assumersi una responsabilità pesante nel progetto di vita di un ragazzo: bisogna farlo con cognizione di causa, perché hai davanti un minore che ti viene affidato (per dovere costituzionale, come ha ben ricordato il linguista Tullio De Mauro in un articolo che potete leggere qui), prima che dalle famiglie, dallo Stato e dalla comunità per conto dei quali tu, insegnante, compi un servizio.

Cosa vuol dire valutare gli insegnanti

Nelle chiacchiere da Bar Sport, e siamo arrivati al punto centrale del discorso, tanta imprecisione è circolata in questi mesi: sul lavoro degli insegnanti e su cosa sia davvero utile perché lo svolgano al meglio. È un po’ successo quello che sempre accade quando la Nazionale di calcio gioca i mondiali: siccome tutti almeno una volta nella vita hanno giocato a pallone, chiunque si sente in grado di fare l’allenatore e presume di saperla più lunga del C.T.

È chiaro che valutare un insegnante non è la stessa identica cosa che valutare uno studente.

L’insegnante è un lavoratore che pur operando in ambito educativo non sta in relazione con il suo (ipotetico) valutatore all’interno di un rapporto educativo-formativo, ma di tipo professionale. Ed è un laureato abilitato a svolgere quella professione, quasi sempre con molti anni di esperienza, in alcuni casi anche molto specializzato.

Questo lavoratore, inoltre, viene retribuito (certo pochino, ma comunque pagato), e da lui si pretende un certo livello di professionalità e soprattutto dei risultati.

Ma la questione della valutazione, anche nel suo caso, va impostata in modo analogo a quello esposto nel caso degli studenti. Non può che partire dallo stesso presupposto. E cioè: la valutazione non è un fine in sé, ma un mezzo attraverso cui si vogliono ottenere dei risultati altri.

Il vero problema della riforma è proprio questo. Che il legislatore parla di valutazione, parla di premi da dare a chi più merita, indica perfino chi debba essere colui che valuta gli insegnanti, ma senza minimamente porsi l’unica, vera e principale domanda che andrebbe posta: a che serve valutare l’insegnante? Quale fine voglio ottenere? E, di conseguenza, in quale modo è opportuno operare per raggiungere quegli obiettivi?

È infatti dal fine, dall’obiettivo da perseguire che si può poi decidere quale sia il metodo migliore perché, attraverso la valutazione dell’insegnante, si possa raggiungere lo scopo che ci si era prefissi.

Il vero problema è che in questa riforma manca l’individuazione del fine che si vuole ottenere attraverso la valutazione. Da qui nasce una procedura male impostata, destinata a far danno. L’unico fine a cui può servire la valutazione di un insegnante (ma perché poi un insegnante e non un’intera equipe di lavoro, visto che – dicono le stesse Indicazioni ministeriali sopra citate – il lavoro scolastico, la stessa costruzione del sapere si realizza in sinergia, attraverso la collaborazione e la valorizzazione delle diverse attitudini individuali?) è quello di migliorare un servizio. Un servizio offerto (e speso) in un ben preciso contesto di riferimento. Non in astratto, ma in un luogo concreto in cui un professore in carne e ossa lavora con studenti in carne e ossa.

La questione qui comincia a ingarbugliarsi, e chi lavora nella scuola lo sa.

Mi veniva da ridere quando, pochi giorni dopo lo sciopero del 5 maggio, ho sentito per radio parlare di scuola e di riforma un ex-preside di un liceo classico dei Parioli. Mi veniva da ridere perché, ascoltandolo parlare, mi rendevo conto che per me e per lui il lavoro dell’insegnante non è affatto lo stesso lavoro. Io insegno da anni in scuole medie di quartieri popolari ad alta percentuale di: povertà, analfabetismo delle famiglie d’origine, immigrazione e criminalità organizzata. In una grande città del sud. Il mio lavoro di insegnante, se lo intendo realisticamente, e non posso fare altrimenti, prevede percorsi talmente diversi! È proprio un altro lavoro quello che svolgo io e quello che svolgono gli insegnanti del liceo dei Parioli dell’ex preside.

È chiaro che non è su risultati secchi e obiettivamente quantificabili (come quelli che, ad esempio, provano a determinare le ormai ben note prove Invalsi, somministrando la stessa identica prova su tutto il territorio nazionale) che si può valutare un insegnante. Bisogna trovare altri parametri e altri riferimenti. Bisogna che, appunto, la valutazione, anche in questo caso, diventi una pratica complessa che prenda in considerazione una molteplicità di fattori, proprio come si fa con gli alunni. E va fatta su un’osservazione attenta e continuata nel tempo, se no non è una valutazione: è una votazione da talent show da fare con un’alzata di paletta.

Il valutatore, inoltre, dovrà avere competenze certe e una dimestichezza con il lavoro di insegnamento, oltre che strumenti teorici su cui basare la sua valutazione.

Il Disegno di legge, nella sua attuale formulazione, se ho inteso bene, prevede che la valutazione degli insegnanti venga fatta a fine anno scolastico, affidandola a un Comitato per la valutazione dei docenti composto da due docenti e da due rappresentanti dei genitori (oppure, per la scuola superiore, da un genitore e da uno studente). Dovrà essere il Consiglio d’Istituto, che è un organo eletto all’interno della scuola e composto oltre che dal Dirigente Scolastico da rappresentanti degli insegnanti, delle famiglie e del personale non docente della scuola (i cosiddetti “bidelli” o “segretari”) a indicare i componenti del Comitato per la valutazione dei docenti. I quali, dal canto loro, non sono chiamati a fare nient’altro che alzare una paletta e esprimere un gradimento. Certo, motivato. Ma in modo secco, a fine anno, in una sorta di dentro o fuori che si fa una volta sola e poi non ci si pensa più. Attraverso questo gradimento dispenseranno dei premi, degli incentivi, ad alcuni docenti.

Che cosa ha a che fare questa pratica con la valutazione? Nulla, penso di avere a questo punto dimostrato. Aiuterà questa pratica a migliorare la qualità del lavoro degli insegnanti e dunque il servizio che la scuola offre agli studenti e alle famiglie? Ben poco, o forse per niente. Perché valutare e auto-valutarsi non significa ricevere un premio o un incentivo a fine anno, bensì riflettere costantemente sul lavoro svolto, considerandone in modo attento e ponderato i punti di forza e i punti di debolezza, magari anche con l’aiuto esperto e consapevole di qualche soggetto esterno che si accosta al tuo lavoro con intento non certo punitivo o elogiativo ma per affiancarti in un’esperienza di crescita professionale. Per mettere a fuoco gli errori ricorrenti a fronte delle pratiche portate avanti in modo efficace e con successo.

Perché la professionalità (pensate a riflettere sulle vostre stesse, personali esperienze di lavoro, anche in ambito molto distante dalla scuola) non si acquisisce una volta per tutte. Si costruisce pian piano, anche attraverso gli errori, i tentativi andati a vuoto, i successi messi a buon frutto e che ti insegnano qualcosa su come conviene procedere e perché.

E poi, a che serve premiare i meritevoli? Se quelli già lavorano bene, se li premi miglioreranno? E se ce ne sono altri, altrettanto o diversamente meritevoli, che per un accidente del caso (perché non sanno “promuovere” bene se stessi all’esterno, ad esempio) non verranno premiati, non avrai generato frustrazione, disinteresse, rancore in chi magari già di suo lavorava bene e con passione, ma il fatto di non vedere riconosciuti i propri meriti ora disaffeziona?

E infine: premiando i più meritevoli hai fatto qualcosa di concreto e utile per accompagnare in un percorso di crescita professionale, nato da una seria valutazione di punti di forza e di debolezza, chi continua ad arrancare e a faticare nel proprio lavoro, non riuscendo pienamente a trovare il bandolo della matassa? O l’hai solo abbandonato a se stesso non dandogli alcun affiancamento in un processo di messa a fuoco dei propri limiti professionali e delle proprie possibilità di progressione e miglioramento?

E poi, siamo sicuri che la qualità professionale, le buone pratiche di insegnamento, siano imputabili sempre e solo al singolo? Crediamo davvero che esista l’insegnante-vate, il Robin Williams dell’Attimo fuggente, eroe solitario e illuminato, su tutti e contro tutti, capace di ribaltare una classe a prescindere da quel che fanno i colleghi, le famiglie, il personale non docente, perfino il Dirigente?

Il testo della riforma, poi, in effetti prova a chiarire cosa si debba intendere per “meritevole”. Ovvero, quali aspetti del lavoro del docente si intende valutare. E cioè: le capacità didattiche; i risultati a cui si riesce a far giungere gli alunni; il lavoro in più svolto al servizio della scuola (quanto a organizzazione e formazione del personale); la capacità di usare metodologie innovative.

In continuità con i principi di competizione a cui l’intero testo della legge si ispira, manca però tutta la parte relativa al lavoro del docente come azione educativa che avviene grazie a capacità di sinergia e di collaborazione.

Ma la cosa ben peggiore è che risultano indicazioni molto vaghe, che a nulla valgono in assenza di strumenti, seri e ponderati, di verifica e accertamento del lavoro svolto da ogni docente.

Senza questi strumenti seri di verifica, che è abbastanza improponibile possano essere messi in campo dai genitori e dagli studenti di quello che sarà il Comitato per la valutazione dei docenti, l’incentivo al docente rischia troppo facilmente di diventare regalo al docente, magari sempre lo stesso docente, premiato per fini non esattamente o non necessariamente legati a meriti reali.

L’alzata di paletta da talent show, l’indice di gradimento espresso da perfetti incompetenti, rischia così di diventare sopruso, messo in atto arbitrariamente, ai danni degli esclusi.

Ecco perché a molti docenti non piace questo come altri aspetti del Disegno di Legge, perché non prospetta nessuno scenario chiaro, risolutivo.

Siamo contrari, ostinatamente contrari, perché per numerose questioni con cui ci confrontiamo ogni giorno nessuna risposta esso offre. Se non vaghezza e indeterminazione. La valutazione dei docenti è solo una di queste zone fortemente lacunose. E nemmeno la più preoccupante, forse.

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