Abbiamo visto “ Di nuovo in gioco “ regia di Robert Lorenz.
Lorenz si è trasferito a Los Angeles per iniziare la sua carriera nel 1989, ha fatto in questi venticinque anni il secondo e il primo assistente alla regia per Brian De Palma, Martin Campbell, Garry Marshall, dal 1994 è diventato assistente e poi anche produttore esecutivo di tutti i film di Clint Eastwood e della sua casa di produzione ‘ Malpaso ‘; da “ I ponti di Madison County “ passando per puri capolavori come “ Mystic River “ e “ Million Dollar Baby “. Adesso debutta alla regia a quasi cinquant’anni con questo film che Eastwood ha voluto solo interpretare e produrre, con una sceneggiatura di Randy Brown. Peccato per questo gesto di generosità del vecchio leone americano, perché se avesse diretto lui questo film probabilmente sarebbe stato un altro piccolo gioiello della sua carriera e l’ennesimo piccolo film indipendente che racconta quella america marginale, desolata e priva di eroi. Dirigendolo, questo assistente alla regia ha reso tutto ‘ grazioso ‘, televisivo e prevedibile e senza alcuna idea di regia. Probabilmente potrà servire agli studenti talentuosi di qualche scuola di Cinema per comprendere cosa significa il ruolo del regista e in cosa non si deve cadere erroneamente. E aggiungiamo una banalità, anche se ci sono dei bravi attori, una buona fotografia di Tom Stern ( “ Invictus “, “ Hereafter “ ), un discreto montaggio di Cox e Roach ( tutti gli ultimi film di Eastwood ) e una sceneggiatura con delle buone potenzialità, senza un director è tutta fatica sprecata.
Gus Lobel ( Clint Eastwood, ormai ottantaduenne ) è stato un buon giocatore di baseball, da alcuni decenni è uno scout di giovanissime future glorie. Gira i campetti e dorme nei motel sempre in cerca di nuovi talenti sportivi per tutti gli Stati Uniti. Ma ormai è vecchio, vede poco e arranca da solo nella vita; è rimasto fedele ad una moglie che è morta giovane e incontra il meno possibile la sua unica figlia ormai trentenne avvocato affermato. Resta un lupo solitario, burbero e un po’ ostile al mondo che cambia, ed è anche vagamente infelice anche se non se lo dice. Ma è una roccia e continua a fare quello che altri avrebbero già abbandonato, osserva partite delle leghe dilettantesche di baseball di periferia senza essere in grado di vedere ma riconoscendo il tipo di battuta solo dal rumore della mazza da baseball, e passa le sere da solo a bere birra in postacci e mangia cibo grasso in tavole calde. Un suo caro amico ( il bravissimo – ormai diventato un caratterista – John Goodman ) Pete, suo capo e protettore all’interno degli Atlanta Braves cerca di aiutarlo e contatta la figlia per chiederle di aiutare il vecchio padre. La figlia Mickey dapprima dice di no, sono i giorni decisivi per un avanzamento di carriera, sta per diventare socia dello studio, e poi in passato c’è stato l’abbandono del padre che l’ha lasciata dagli zii senza più vederla o sentirla, poi decide di raggiungerlo per un fine settimana. L’incontro non è dei migliori, lui sempre più solitario e silenzioso, lei che mal sopporta il carattere del padre a cui vuole bene ma per prova anche rabbia per l’abbandono adolescenziale. Nonostante i battibecchi, il fine settimana si trasforma in una settimana e lei diventa gli occhi di lui sui campi di baseball, e in questo peregrinare di campo in campo si ritrovano spesso con Johnny ( Justin Timberlake ) un ex campione che spera di diventare giornalista sportivo e che per adesso fa lo stesso lavoro di Gus. Un finale a lieto fine un po’ banale e semplificato chiude la storia.
Le tematiche tipiche del Cinema indipendente americano ci sono tutte, il cavaliere solitario duro e puro, il contrasto con la modernità ( un orecchio allenato può più di un computer e dei dati relativi ), lo sport come manifestazione individuale del merito, lo scontro giovani e vecchi, il cuore dell’America di periferia in fondo ruvido ma importante, la regalità dell’eroe ormai vecchio e malato ma mai domo, la difficoltà di manifestare sentimenti anche verso i figli ( ricorda molto il carattere degli eroi dei film western Anni Cinquanta alla John Wayne ), eppure la regia rende vane tutte le premesse, si avvita su se stessa, sbaglia passaggi fondamentali e riesce solo in qualche tratto a rendersi coerente. Anche l’idea dei sentimenti visti attraverso i cinque sensi ( perdendo la vista si può imparare con l’udito a capire quello che non si è riusciti a fare ) diventa un tema in sottotraccia.

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