Siamo nell’estate del 2010 in una miniera della regione montuosa del Semien Wollo nel nord-est dell’Etiopia. Ci sono alcuni operai in rivolta per un brutale incidente sul lavoro che ha lasciato gravemente ferito un lavoratore locale: ma quasi subito, la macchina da presa lascia la scena dell’incidente per entrare nell’interno della miniera dove altri due operai riescono a sfruttare il parapiglia che si è appena creato per estrarre clandestinamente un enorme esemplare di Opale di Welo: uno dei più quotati e preziosi minerali che vi sono attualmente sui mercati. È la fulminante scena iniziale di Uncut Gems, l’ultimo film dei fratelli Safdie che da qualche settimana è in streaming in Italia su Netflix dopo aver riscosso un considerevole successo della critica negli Stati Uniti a partire dalla sua premiere al Festival di Telluride lo scorso agosto.

E ci si perdoni se useremo il titolo originale in luogo di quello scelto da Netflix per la distribuzione italiana – Diamanti grezzi – dato che non sono i diamanti al centro del film, ma appunto questa insolita pietra preziosa. L’Opale di Welo – si legge sul web – è una pietra traslucida molto particolare, pieni di trasparenze e di riflessi colorati che la rende particolarmente apprezzata nella lavorazione dei gioielli. Non è chiaro chi sia stato il primo a scoprirla, ma la sua introduzione sul mercato di Nairobi è recente, dato che risale al 1993, mentre la sua estrazione industriale è iniziata ufficialmente solo nel 1997. E da lì ha avuto un boom inarrestabile fino a oggi. Tuttavia solo l’uno per cento delle pietre estratte è adatto alla lavorazione dei gioielli, dato che si trova di solito incastonato in vene di quarzo ad una profondità di 2-3 metri sotto la superficie: questo fa sì che il suo valore commerciale sia particolarmente alto.

 


Negli ultimi anni l’estrazione delle materie prime è diventata una delle attività più redditizie in un capitalismo contemporaneo che continua – nonostante tutti gli steroidi finanziari – a essere in enorme crisi da profittabilità. Ne parlano a lungo Sandro Mezzadra e Brett Neilson in The Politics of Operations – uno dei più bei libri di teoria politica marxista degli ultimi anni, che verrà prossimamente pubblicato da Manifestolibri – e spiegano che l’estrattivismo (minerario ma non solo) è diventato un vero e proprio modello di produzione di ricchezza che lungi dall’essere legato a un’epoca economica passata, è in realtà profondamente implicato alla finanziarizzazione degli ultimi anni. C’è insomma una connessione profonda che lega le pietre preziose dei minatori etiopi al denaro della finanza di Wall Street.

E questa connessione è rappresentata da Howard Ratner, il gioielliere ebreo del Diamond District di Manhattan interpretato da Adam Sandler, che è protagonista del film: anzi, letteralmente dal suo buco del culo, dato che la macchina da presa dei fratelli Safdie all’inizio del film entra nelle fluorescenze dell’Opale di Welo per uscire… all’estremità opposta di una colonoscopia. Non è una boutade quella dei due registi di New York, ma una vera e propria coincidenza degli opposti che è al centro del film: il massimo del sublime – la ricchezza incarnata nella pietra preziosa, che sembra emanare direttamente valore – che si ribalta nell’abietto del materialismo più gretto.

 

 

Howard Ratner è un personaggio che vive solo in quella che Marx chiamerebbe la sfera della circolazione: lui tratta soldi, debiti, gioielli, scommesse, persino mogli e amanti, cambiandogli di posto e sostituendo gli uni con gli altri in una sorta di gioco delle tre carte generalizzato. Tutti sono equivalenti con tutti gli altri, e infatti l’intreccio del film è costruito attorno a una classica storia di indebitamento, dove la richiesta di un creditore viene soddisfatta soltanto attraverso un ulteriore nuovo indebitamento, in un continuo innalzamento della posta che sembra non finire mai. Il debito chiama nuovo debito, che nel momento della sua scadenza non potrà che essere sostituito da un terzo debito e così via. È stupefacente come il film riesca a produrre una continua sensazione di accerchiamento, di ansia e di resa dei conti incombente che diventa sempre più imminente man mano che l’intreccio sembra volgersi al termine. La regola d’oro Hollywoodiana, quella per cui una persona che diventa ricca senza meritarselo – cioè senza aver guadagnato la propria ricchezza col sudore della propria fronte – finirà prima o poi per essere punita, è talmente interiorizzata nella nostra esperienza spettatoriale, che sembra inevitabile che l’epopea dell’anti-eroe non possa che chiudere la sua morsa. E sta qui l’acume dei Safdie, che dimostrano invece di saper costruire una riflessione molto più ambiziosa, che non ha paura di essere spinta fino a farsi allegoria del presente. La pietra preziosa – così come fu l’oro nell’epoca della caccia all’oro – sembra infatti fondarsi sull’illusione della possibile esistenza di una ricchezza pura, immediata, che per esistere non deve passare attraverso quella dolorosa e complicata mediazione data dalla produzione e dal lavoro. Ma che esiste già in forma pura, nascosta da qualche parte. La ricchezza insomma non va costruita, ma va trovata, perché è indubbio – pensa il cercatore d’oro, così come lo scommettitore incallito – che da qualche parte essa esista già.

L’Opale diventa così l’incarnazione di questa possibile ricchezza immediata: è la risposta a tutti gli ostacoli, i problemi e le opacità del sociale. Essa è la risposta a tutto (e ovviamente è anche ciò che impedisce di vedere la realtà dei problemi reali: quindi è un feticcio). È il tramite per la cancellazione di ogni possibile debito. Per qualcuno, esattamente come accadeva con l’oro, essa è dotata di poteri magici (e non è un caso che il pensiero magico ritorni – ahinoi, anche a sinistra – proprio in una fase dove la fuoriuscita dal capitalismo sembra più lontana), come infatti accade al giocatore di pallacanestro Kevin Garnett, che pensa che le sue prestazioni sul campo da gioco dipendano dall’influenza mistica della pietra.

 

 

E tuttavia i Safdie non ci permettono di guardare a questi personaggi presi nell’illusione del feticismo della ricchezza immediata da una posizione di distanza, perché quante volte anche a noi non è capitato di pensare che gli antagonismi e le contraddizioni del reale potessero essere risolte con un gioco delle tre carte o un escamotage? Quanto anche nel considerare la nostra condizione storica e collettiva, non ci fondiamo sulla credenza del tutto irrazionale che anche le contraddizioni più insormontabili alla fine troveranno un modo per essere sciolte da un deus ex machina (pensiamo al global warming)? Infatti fino a un minuto prima ci fanno tifare, o per meglio dire a credere – a noi come a Howard – che questa volta la fortuna possa essere casualmente dalla nostra parte e possa risolvere tutto con un colpo di dadi. I Safdie decidono appunto di sciogliere queste contraddizioni non con la morale (come farebbero gli anti-eroi scorsesiani, ancora in questo intrisi di provvidenza cristiana), ma con il materialismo inerte e senza senso della contingenza: che riporta tutto questo sistema di credenze e proiezioni fideistiche nei poteri della pietra preziosa… alla materialità del buco del culo.

E tuttavia a ripensare a distanza di qualche tempo all’allegoria del film non può che ritornare quella strana sensazione di angoscia: che però stavolta non è più l’angoscia immediata di vedere rappresentata sullo schermo l’esperienza lacerante di Howard che non riesce a far fronte ai propri debiti man mano che la sua dipendenza dal gioco d’azzardo diventa sempre più patologica; ma un’angoscia più profonda, più mediata, per così dire più intellettuale. Qual è infatti la posizione di un soggetto cronicamente indebitato (con la terra, col futuro, con il lavoro), che invece che pensare allo squilibrio strutturale della propria condizione, pensa che sia possibile trovare da qualche parte una sorta di “giacimento” di denaro che possa dare una svolta alla propria condizione? Qual è quella condizione di chi pensa che sia possibile con un po’ di ingegneria distributiva far fronte a quello che ormai sembra essere uno squilibrio epocale e senza possibile risoluzione? Quello che agisce da psicotico, proprio come Howard, è forse allora proprio il capitalismo finanziario di oggi, che pensa ancora che sia possibile trovare da qualche parte una pietra, o un giacimento di denaro (o qualche altro sofisticato prodotto finanziario) che magicamente possa farci illudere e continuare a fare finta che tutte queste contraddizioni non esistano. L’Opale insomma è proprio lì, all’estremo opposto della nostra colonoscopia.

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