“Scrittori così non dovrebbero morire mai!”. È la frase che ho udito di recente da un vecchietto novantenne intento a comprare su una bancarella un libro di Tiziano Terzani, scrittore che l’anziano signore aveva scoperto di recente e per caso e di cui si era innamorato. Come al solito le frasi più semplici, e dette dalla gente in apparenza più semplice, dischiudono verità e profondità di cui quasi mai è capace chi della cultura ha invece fatto una professione.

Sono passati vent’anni da quando Tiziano Terzani ha, per usare le sue parole, “lasciato il suo corpo”, e i suoi libri sono più vivi e attuali che mai, ancora promotori ed esaltatori di vita oltre i suoi fisici anni. Chi scrive non nasconde che il primo moto che ebbe dinanzi a Terzani, senza averne ancora letto un solo rigo, fu di diffidenza e prevenzione. L’immagine del signore barbuto e abbigliato in foggia orientale mi parve superficialmente come l’ennesima riproposizione di un cliché abusato, quello del guru o del santone occidentale al cento per cento e che superficialmente scimmiotta un qualche sadhu indiano.

Da quando i Beatles e alcuni poeti della Beat Generation hanno sdoganato le religioni orientali in Occidente segnandone la deriva pop, in un grande discount della spiritualità a buon mercato e svuotata di tutto il suo significato originario, di casi del genere ce ne sono stati migliaia, con il proliferare virale e incontrollato di innumerevoli guru, maestri spirituali, illuminati di vario genere.

Superata invece l’iniziale renitenza ed aperto un libro di Terzani fu subito chiaro che qui la densità e la profondità allignavano in ogni singola parola. Racconti, parabole, concetti singole parole svilite dall’inflazione New Age risuonavano invece nelle pagine di Terzani con una forza sorgiva, immediata, come se quegli antichissimi insegnamenti di cui era latore fossero espressi per la prima volta, liberati da incrostazioni di ogni genere.

Certo, Terzani è stato in buona o cattiva fede utilizzato da quella stessa cultura pop come sua icona, suo santino di comodo, ma della sua trasformazione in guru lo scrittore fiorentino è incolpevole, avendo sempre ricordato, come nelle straordinarie pagine di Un altro giro di giostra, che ognuno è in definitiva il “guru” di se stesso, che da solo deve imparare ad ascoltare la melodia della vita, la vita dove tutto è integrato, il bene e il male, la gioia e il dolore, la vita interna in cui non vi sono né nascita né morte.

Noi siamo il problema e noi siamo la soluzione.

Partito come giornalista, come reporter di guerra per “Der Spiegel” sul fronte vietnamita, in cui assistette fra i pochissimi alla caduta di Saigon, rimanendo nella città anche dopo la sua conquista da parte dei comunisti sudvietnamiti, Terzani fu per molti anni corrispondente dai luoghi principali dell’Asia, fornendo reportage straordinari in cui il giornalismo si innalzava alla superiore dimensione della letteratura pur mantenendo sempre il rispetto della verità.

Progressivamente, con la scoperta della malattia e della sua umana mortalità, Terzani si allontanò sempre di più dalla dimensione della pura cronaca, per librarsi invece, come nelle sue Lettere contro la guerra, verso le atmosfere rarefatte dell’Utopia e del trascendente.
a cura di Andrea Ponso
Violentissima dolcezza – I detti dei Padri del Deserto

Partite dall’Apocalisse di inizio millennio, il crollo delle Twin Towers nel più grande attentato della storia e le guerre che in una spirale di violenza l’amministrazione di George W. Bush mosse prima all’Afghanistan e poi all’Iraq, le lettere di Terzani (in voluta opposizione al fanatismo alla rovescia eppure speculare dei pamphlet di Oriana Fallaci) superavano la dimensione fenomenica dei fatti e degli accadimenti per proiettarsi invece verso altre dimensioni e aspirazioni. Da cronista del quotidiano e dell’Impermanente, Terzani si era fatto stenografo del Permanente, di ciò che va oltre il velo di Maya e ricongiunge gli eventi sanguinosamente ripetitivi della nostra aiuola terrestre a ciò che invece li trascende nella Non-Dualità dell’Atemporale.

L’escalation di orrore e di violenza poteva essere in realtà una buona occasione per ripensare noi stessi e intraprendere un viaggio il cui inizio può solo essere dentro di noi.

Nel ventennale della scomparsa di Terzani, la Longanesi ripubblica ora il suo libro letterariamente più bello e indimenticabile, Un indovino mi disse, in una nuova edizione illustrata con le fotografie scattate da Terzani stesso nel suo incredibile viaggio. Quasi troppo noti gli antefatti biografici che hanno fornito l’occasione per il libro e che qui ricordiamo solo scheletricamente. Nel 1976 un indovino ad Hong Kong profetizzò a Terzani che nel 1993 non avrebbe dovuto volare perché ne sarebbe andato della sua vita. Senza crederci troppo ma con lo spirito di chi coglie la palla al balzo per poter correre l’avventura, diciassette anni dopo, memore della profezia dell’indovino, Terzani decise di assecondarla e di farne ancora una volta una buona occasione per un viaggio al di fuori e all’interno di sé. Per un intero anno non prese un solo aereo e viaggiò per buona parte dell’Estremo Oriente in treno, in autobus, a piedi, a dorso di elefante, ma senza mai perdere il contatto con la Madre Terra ed i suoi umori.

Un elicottero su cui avrebbe dovuto trovarsi precipitò in effetti nella giungla cambogiana: avverarsi della profezia dell’indovino? Ognuno può rispondere come crede.

Sta di fatto che, in questo straordinario viaggio, culminato in un ritorno in ferrovia da Bangkok a Firenze che ha il sapore del Giro del mondo in 80 giorni del verniano Phileas Fogg, Terzani si divertì ad andare a interrogare indovini di ogni sorta, a Bangkok come a Singapore, a Manila come nelle steppe mongole, imbattendosi in un incredibile bazar dell’umanità, dove convivevano ciarlatani e personaggi invece dotati forse di un accesso privilegiato ad altre dimensioni dell’essere.

Il tutto fu una grande avventura ed un grande gioco, un pretesto avventuroso per la riscoperta della dimensione “magica” dell’esistenza, di tutto ciò che non è assoggettabile alle ferree leggi del razionalismo, ai canoni prepotenti della nostra civiltà fondata sulla superstizione della scienza e della tecnica e sull’illusione di un tempo progressivo e lineare, quando esistono invece infiniti tempi, nella cui curvatura il passato, il presente e il futuro sembrano coesistere: il tempo verticale contro quello orizzontale ed esterno delle lancette dell’orologio.

E, insieme, una riscoperta dello “sragionamento” che impronta tanta cultura orientale, soprattutto i racconti Zen, fondati sulla destrutturazione della logica, dei meccanismi rodati del razionale, in nome del rinvenimento in sé di un’altra logica fondativa, quasi dei paradossi del koan, con le loro assurdità solo apparenti.

In questo meraviglioso libro, che è fra i capolavori della letteratura italiana del secondo Novecento (anzi, uno dei pochi grandi libri che essa abbia prodotto), Terzani sembra ricongiungersi alla tradizione dei grandi giornalisti-viaggiatori dimenticati che lo precedettero in Asia nei primi decenni del Novecento, Arnaldo Cipolla (allora soprannominato “il Kipling italiano”) e Mario Appelius, oggi dimenticato per via della sua fede fascista, e le cui opinioni politiche nulla tolgono alla vividezza dei suoi stupendi resoconti. Autori che Terzani non a caso amava e ammirava e di cui era qui l’ideale continuatore innalzando tuttavia la letteratura di viaggio ad una dimensione superiore e raramente raggiunta prima con questa verità e intensità.

L’ autoimposizione di non volare per un intero anno lo riporta al piacere della riscoperta del viaggio in treno che

“con i suoi agi di tempo e i suoi disagi di spazio, rimette addosso la disusata curiosità per i particolari, affina l’attenzione per quel che si ha attorno, per quel che scorre fuori dal finestrino. Sugli aerei presto si impara a non guardare, a non ascoltare. La gente che si incontra è sempre la stessa, le conversazioni che si hanno sono scontate”.

In treno l’umanità con cui si spartiscono i giorni, i pasti e la noia, con tutti i suoi personaggi spesso indimenticabili, non li si incontrerebbe altrimenti, non certo nei freddi “non-luoghi” chiamati aeroporti e non nei viaggi aerei stessi, che Terzani considera per quello che sono, scorciatoie delle distanze e della comprensione del mondo, non legati ad uno sforzo e a una conquista. Ben diverso il treno, in cui, per osmosi, si resta appunto radicati negli umori della Terra.

Nel viaggio, sia fisico che interiore, nulla ha valore se non è legato appunto a una fatica, a una conquista, a un disagio, al calcolo dei possibili intoppi che si incontreranno lungo il cammino e al fascino dell’imprevedibile e di ciò che non può essere pianificato a tavolino. Il viaggio implica in ogni sua dimensione il farsi sorprendere, lo stravolgimento delle abitudini e dei pensieri costituiti: perché si viaggia solo per scoprire, in ultimo, noi stessi.

“Che brutta invenzione il turismo!”, sbotta a un certo punto Terzani, prendendosela a ragion veduta contro questa industria malefica che tutto snatura e tutto corrompe, riducendo ogni luogo a un enorme Disneyland ad uso e consumo di gente trasportata in lungo e in largo per migliaia di chilometri ma che in realtà non ha mai abbandonato la propria casa e le proprie abitudini del pensare.

“Perché in Asia, quando un vecchio si vede puntare addosso una macchina fotografica, si volta, resiste, cerca di nascondersi, si copre la faccia? Lo fa perché pensa che quella macchina gli porti via qualcosa di suo, qualcosa di prezioso che non può ritrovare. E non ha forse ragione? Non è anche nell’usura di decine di migliaia di foto, scattate da turisti distratti, che le nostre chiese hanno perso la loro sacralità, che i nostri monumenti hanno perso la loro patina di grandezza?”.

E Terzani non aveva ancora potuto assistere al proliferare di Instagram e al moltiplicarsi delle sue immagini che consegnano sempre di più l’idea di una patinatura e di un’omologazione del mondo in cui nulla è più realmente un “Altrove”.

Al termine del suo anno senza aerei, riconsegnato alla routine di spostamenti più convenzionali e ormai dimentichi delle distanze come delle fatiche, Terzani era in cerca di un ennesimo viaggio, di un’ulteriore occasione per sospingersi fuori da sé stesso.

“E io? Dove vado io? Che cosa mi invento ora che non ho più da evitare gli aerei? Certo, un’altra buona occasione si ripresenterà. La vita ne è piena. Ho sentito dire che in India, vicino a Madras, c’è un tempio nei cui recessi un grande saggio di tremila anni fa scrisse, su foglie di palma, la vita e la morte di tutti gli uomini di tutti i tempi, del passato e del futuro. Uno arriva – pare – e gli viene incontro un monaco che dice: ‘Ti stavamo aspettando’. E da qualche parte tira fuori una di quelle foglie ingiallite con tutto ciò che è accaduto e tutto ciò che accadrà al visitatore. Andando a vivere in India, cercherò quel tempio. Dopo tutto, uno è sempre curioso di conoscere il proprio destino”.

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