Quell’anno, pochi mesi più tardi, in luglio, avrebbe partecipato al II Congresso Internazionale degli Scrittori per la Difesa della Cultura. Il convoglio ‘antifascista’, pilotato da Mosca, aveva sede, dopo la puntata parigina di due anni prima, a Valencia, Madrid e Barcellona, per supportare la Repubblica spagnola impegnata contro gli schieramenti di Francisco Franco. Era il 1937 e per Octavio Paz, che aveva 23 anni, inviato a rappresentare il suo paese, il Messico, in pieno estro comunista, partecipare al congresso era una specie di premio, l’ingresso nell’alta nobiltà letteraria: erano lì riuniti, oltre all’onnipresente André Malraux, specie di colonnello delle feste, tra i tanti, Tristan Tzara, Julien Benda, César Vallejo, Antonio Machado e Rafael Alberti, María Zambrano e W.H. Auden, Heinrich Mann e, ovviamente, Pablo Neruda. L’Unione Sovietica aveva mandato un plotone di una decina di scrittori, passati in degno oblio. Figlio di un rivoluzionario zapatista, ubriaco di trockijsmo, dagli anni Quaranta, tuttavia, Paz “si allontana dai comunisti ortodossi e conserva legami soltanto con l’opposizione di sinistra” (Franco Mogni). La carriera diplomatica – che lo porterà a lavorare presso l’ambasciata messicana a Parigi, poi in Giappone, infine in India – la compie sotto governi guidati dal Partido Revolucionario Institucional. Premio Cervantes nel 1981, Nobel per la letteratura nel 1990, Octavio Paz, poeta per lo più inclassificabile, dall’opera autarchica, assertiva, tra avanguardia e tremore epico, dai molteplici maestri – anche per via di una vita di vagabondaggi: svezzato dalla lettura di T.S Eliot e di Rilke, è stato amico di Alejo Carpentier, Benjamin Péret, William Carlos Williams, Robert Frost – è considerato uno de los más influyentes autores del siglo XX y uno de los grandes poetas de todos los tiempos. Chi ha attraversato la sua opera – raccolta, ad esempio, per Mondadori, in Vento cardinale e altre poesie – non ne esce indenne, è spesso spiazzante. In libri come L’arco e la lira (Il melangolo, 1991), il pensiero sul gesto poetico sfibra verso vertigini ancestrali: “L’operazione poetica non è diversa dall’esorcismo, dall’incantesimo e da altri procedimenti magici. E l’attitudine del poeta è molto simile a quella del mago. Entrambi utilizzano il principio di analogia; entrambi procedono con fini utilitari immediati: non si domandano che cosa sia la lingua o la natura, ma se ne servono per i loro fini”; “L’opera poetica è in lotta con se stessa. Per questo è viva. E da questa contesa continua… ha origine anche ciò che si è chiamato la pericolosità della poesia… Il poeta è un essere a parte, un eterodosso per fatalità congenita: dice sempre un’altra cosa, anche quando dice le stesse cose del resto degli uomini della sua comunità… l’indole stessa del dire poetico provoca il sospetto”. Pur così importante, l’opera di Paz è per lo più scomparsa nel convegno editoriale italiano, che non fa che replicare il noto (i saggi La duplice fiamma. Amore ed erotismo, Il labirinto della solitudine, lo studio, Apparenza nuda, sul lavoro di Marcel Duchamp), abbandonata a una specie di indegna, inspiegabile atrofizzazione. Nel mondo spagnolo, piuttosto, come Odi et amo: las cartas a Helena, sono rese pubbliche le lettere che Octavio Paz ha scritto all’amata, all’amante, alla moglie, la scrittrice Elena Garro (soprannominata Helena nel carteggio amoroso). Drammaturga di alto talento, narratrice di pregio – piaceva, tra l’altro, a Borges – Elena Garro divorzierà da Octavio Paz nel 1959. “Le lettere sono la testimonianza della formazione intellettuale del giovane poeta, un febbrile registro della vita sociale e messicana in anni turbolenti, ‘un’alta confessione del nostro amore’”, recita la quarta. Le prime lettere risalgono al 1935; due anni dopo, al tempo della lettera che qui si pubblica – edita in origine su “Letras Libres”, è tradotta da Diana Mazon –, il poeta convince Elena, appena ventenne, a raggiungerlo durante il Congresso degli scrittori antifascisti. Elena non si lasciò concupire dalla cappa politica che aleggiava su quella turbata tribù di intellettuali; preferì sposare Paz quello stesso anno. Due anni dopo nacque la loro unica figlia. La chiamarono Helena, a sancire il codice degli amanti, la serratura che impegna alle segrete dell’amore. Poi, disgregati, si lasciarono. Sono morti, a distanza di qualche mese, nello stesso anno, il 1998.

 

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Mérida, 10 aprile, 1937

Cara Helena:

Quando ho messo la data, mi sono ricordato di un verso “Ho avuto una ragazza, mi sembra che fosse ad aprile”. Che gioia, che grande gioia. Aprile, tu, la mia ragazza, la mia ragazza ad aprile e a maggio, la mia ragazza a dicembre, la mia ragazza a giugno. Giugno, hai notato come si dice giugno? Non si dice, si canta, si danza: c’è un fiume luminoso in questa parola, una barca gioiosa, e una musica di acque verdi e limpide. Giugno, c’è qualcosa di grave e calmo, così sottile. Tutto è mosso da un vento, e c’è un pianoforte che canta la i e la u e la o, mentre la g distilla acqua e la n matura qualcosa, frumento, fieno, luce, g….iiii….uuuu….gnooooo. Amore, giugno, Helena, la gioia è in queste parole, in queste morbide lettere che mi scampano dalle mani, che mi toccano la bocca, che mi sbocciano da dentro e non le posso trovare. Da dove viene il suo flusso, il suo accento? È qui, dentro di me, vive come un uccello e poi se ne va in aria. E dall’aria scende, mi circonda, invisibile. La tua voce, le tue postura, impostora Helena, il tuo camminare silenzioso, il tuo fiume. Helena mia.

Quando è arrivata la tua lettera, colomba (ti piace essere una colomba? Preferiresti essere un pesce? Sei, a volte, come un lungo pesce), ero sull’amaca, sdraiato. Senza scarpe, barba lunga e guardavo il soffitto come un babbeo. Vicino a me, nell’altra stanza, Juan de la Cabada (un collega comunista molto buono e simpatico) stava scrivendo una storia, con cose che aveva appena raccolto da Quintana Roo. Una storia magnifica (non so come la sviluppi, ma il materiale è ottimo e si può fare qualcosa di simile a quello che ha fatto Frobenius con la cultura nera) che un giorno ti racconterò. In modo che tu non capisca nulla, ti dirò che si tratta di un méh, di una brocca dove beve un ayux e di altre cose. C’è un’altra storia, della lumaca, che è una donna per i Maya, e lo scoiattolo, che è suo marito. E di come mangiarono una zucca, e di come morì lo scoiattolo e l’avvoltoio cantò e si ubriacò e fu picchiato e impiccato per aver “ingannato il popolo”. E l’avvoltoio era un demagogo, che non sapeva cantare e che portava sotto le ali la povera lumaca. E l’avvoltoio somiglia a molti di quelle parti, a molti di tutto il mondo, che ingannano la gente. E un giorno li impiccheremo, per ubriaconi e bugiardi, e la gente mangerà, senza paura che arrivi il cacciatore, tante belle e grandi zucche. E cose buone oltre la zucca, fagioli e un po’ di mais. Povera gente, affamata, che muore di fame mentre ascolta gli avvoltoi tutto il giorno. Avete tanti avvoltoi, tanti e grossi come aquile, e altri, timidi e intellettuali, che vivono del cadavere di tante cose, dei resti dei banchetti di altri[1]. Sono gli avvoltoi che cantano dopo pranzo, i poveri. Quelli che giustificano i banchetti in cambio di un po’ di mais.

Elena Garro (1916-1998) ha sposato Octavio Paz nel 1937; hanno divorziato nel 1959. Vent’anni prima nacque la loro unica figlia, Laura Helena

Quello che stavo per dirti non era questo. Che ti importa degli avvoltoi? Ero nella mia camera da letto. Un giorno senza infamia e senza gloria. Guardavo il soffitto e un cielo grigio, quasi una prigione. Non ero triste. Pensavo che, in fondo, la vita del prigioniero è una cosa buona, senza dover uscire e dire: buongiorno. E tu eri nella stanza. Eri lì, e dicevi che era proprio bello e che era meglio stare sdraiati sull’amaca, freschi (il caldo è cessato, al nord). E dicevi che era una seccatura avere una stanza così piccola e senza letti, e con solo una sedia e dei libri per terra. Che era troppo bohémien, poco accogliente, persino scomoda. Ma l’amaca, d’altra parte, era enorme e dai colori molto belli. E poi sei rimasta in silenzio e mi ascoltavi. E ti dicevo come sarei arrivato in Messico, e come avrei fatto per tornare con te o restare là, e i conti mi mettevano di cattivo umore, e allora iniziavamo a parlare di sciocchezze e io ti baciavo a lungo, e ti promettevo mille baci e te ne davo un altro ancora. E pensavo che sarebbe stato molto bello se tu fossi nuda, coperta solo dalla sottile rete azzurra e dorata dell’amaca, con i capelli che toccano a terra. Ed ero in quello, nella tua nudità, quando mi hai detto che il tuo amico era molto vicino e che solo un sottile muro di legno divideva la stanza. Così ho pensato che avrei dovuto scegliere un altro posto più comodo a scuola. Ero in quello sgomento quando Cortés Tamayo è arrivato con le lettere. Ho letto la tua. Ho cantato dopo e ho pensato che la vita a volte sia molto generosa e che la posta è bella come un crepuscolo. E mentre la gioia mi segue, e la fiducia, l’enorme, grandiosa, sproporzionata fiducia che mi ispiri rinasce, e rinasce in me la fiducia nella mia forza, ti scrivo così, senza scarpe, spettinato e con la barba trascurata, con la sicurezza della mia gioia, della mia bruttezza e della mia insolenza. Della mia giovinezza insolente, che ti dà baci e mastica gomme e dice sciocchezze. Mi sei arrivata in una lettera quando mi dicevi addio per paura.

Adesso ti rispondo, punto per punto. A Mérida ci sono i tori. Non ci sono toreri, ma per questo ci sono gli aeroplani, sciocca, e i toreri arrivano sugli aeroplani (ecco che arriva una nave carica di… toreri! Eccone un’altra carica di… baci!) e all’interno dei toreri ce ne sono alcuni chiamati Garza e altri chiamati Solórzano[2]. E questi ultimi a volte regalano ottimi pomeriggi e si vede un signor “Chucho” combattere per le veroniche[3], e si grida, perché la piazza è come dovrebbe essere quella di Cadice o quella di Tetuán (o qualcosa del Marocco dove siamo legionari comunisti)[4] e passa un pomeriggio così buono che pensa di ripeterlo e lo ripete domani se, come me, anche altri hanno comprato i biglietti per lo scontro del secolo, 11 aprile. E un’altra cosa. Il signor Domingo non verrà presto, anche se, secondo quanto mi ha detto il Governatore, arriverà, invece di oggi, domenica prossima. Come farà Clemente [López Trujillo] ad annunciare che domenica ci sarà il bis? Ma gli incontri vanno avanti e ogni giorno che passa acquisisco una maggiore coscienza di classe. Ci vorrà un po’, forse, ma presto potrò dire che sono un comunista, cioè un uomo al servizio del Partito Universale dei Lavoratori. E poi, con la tua vitale fiducia e la razionalità della mia posizione politica, potrò lavorare sodo per i miei, per gli unici, mia amante, che devono essere i nostri, nonostante tutte le delusioni degli avvoltoi e degli scorpioni e degli scarafaggi, per i tuoi, per tutti i lavoratori della terra…

Octavio Paz (1914-1998) ha ottenuto il Nobel per la letteratura nel 1990

(Helena, non ti interessa tutto questo, lo so, inoltre non raccontarlo a nessuno. Sii discreta). C’è un’altra strada, ci sono molte strade per gli squali, gli scarafaggi e i serpenti. Per l’uomo ce n’è una sola. E so già qual è. Ho quasi pronta la prima parte di una poesia. Tratta del henequén[5]. Dell’uomo schiavo del cielo e della terribile terra dello Yucatan. L’henequén, che doveva salvarlo dalla fame che ha devastato la cultura Maya (l’archeologia è un altro dei miei passatempi, presto ti manderò foto e magari un saggio che pubblicheremo in una rivista) e l’era coloniale e l’ha reso schiavo ancora di più. La fame continuò. E le canaglie che controllano la vita qui (emarginati e venduti, borghesia feroce e spietata di stupratori e traditori, messa a tacere dalla casta degli intellettuali) hanno costruito Mérida e le ferrovie e tutti i fiori e i pani e i giardini con quel sangue misto. Nella prima parte c’è il paesaggio, fisico e morale. La terra, il cielo, l’henequén, l’uomo. È la parte più facile. Poi verrà l’altro. Una grande poesia, quasi un libro. Inoltre, correggo anche le poesie di giugno, che, come sai, sono cinque. E ho intenzione di rifare gli altri che conosci. E il romanzo. Opera di quattro o cinque anni. Senza fretta. Insomma, qualcosa che potrebbe essere l’opera preludio di Non passeranno e La radice. Ma più maturo. Più equilibrato. Sposato con te, comunista e giovane. Un po’ idiota, ma rinnovato per te. Ti manderò una versione provvisoria della poesia. Non mostrarla a nessuno. Dammi il tuo giudizio.

Helena, tutte le raccomandazioni sono finite. C[ortés] T[amayo] mi dice di salutarti, e di pregarti, di non dimenticarti degli esuli, e che ci mandi L. de M. [Letras de México]. Anche Novaro ti saluta e ti manda un abbraccio.

Helena:

Sono le undici. Giornata nuvolosa, con tutte le sembianze di freddo, con tutto il l’apparato del ghiaccio, ma mite, senza dubbio. Tuttavia, la gente qui deve pensare al freddo. C’è solo una leggera foschia, un invisibile tepore dell’alba. Ti scrivo prima del bagno. Stiamo aspettando alcuni amici per andare a nuotare. Voglio continuare la lettera troncata. Ti ho dato tutte le raccomandazioni, quelle fastidiose e immediate, consigli e promemoria. Ma cosa ti ho detto di me, di me, che a volte sono nel vuoto, vivendo solo esteriormente, in ciò che accade, infecondo e sterile, senza lasciarmi traccia, qualcosa che mi esalti dentro? A volte ho l’impressione di non essere vivo, ma di vegetare. E non mi spaventa. E vedo in te, con veemenza, la vita, l’imprevisto, ciò che ci scuote all’improvviso. Il miracolo, l’inaspettato. Non sei mai ciò che ci si aspetta, amore mio, ma ciò che ci assale in mezzo alla strada, quando giriamo l’angolo; sei ciò che mi distacca da tante cose, e anche ciò che mi lega ad altre cose inaspettate.

Quanto lontano da me la retorica, i pensieri, le frasi, tutto ciò con cui cerchiamo di ingannare, sedurre o sottomettere alla realtà. Sempre in lotta per capire, per incanalare, per tradire. Bene, questo è quello che si fa: si tradisce la realtà, si scende a compromessi con essa. Sempre l’eterna debolezza di accettarla, ma sempre anche l’eterna esigenza, l’eterna viltà, di non accettarla così com’è, ma con condizioni, con restrizioni. E l’inguaribile pretesa di dirigerla. E ciò che è fuori dalla mia volontà o dalla mia ragione, qualcosa che potrebbe essere la mia volontà di sconfiggere la realtà. E, Helen, nonostante tutto devo sconfiggerla. La sconfiggerò, sempre, in qualunque modo e a qualunque costo.

Ieri avrei voluto continuare la lettera ma non ho potuto. Adesso, inoltre, so che quando l’avrò finita vorrò continuare. È terribile non avere qualcuno con cui parlare, e quando vuoi sentire, non hai nessuno da ascoltare. Penso che qualsiasi voce umana mi infastidisca in questo momento. Vorrei che tu fossi qui, non per parlare o fare nulla. Che stessi in silenzio, toccandomi la testa, accanto a me, senza baciarmi, ma spudoratamente nuda. Ti voglio nuda, lunga, bella, alta Helena. Ti voglio nuda, senza veli, mentre mi tocchi la testa. E calma, anche se con un leggero tremito alle gambe. E che tu non mi parli di niente, se no dell’immediato e del superfluo. È possibile questo? Sì, deve esserlo. Devi vivere un giorno, un’ora, non so quanto, sottomessa, in silenzio, docile per me, nuda e lenta. Senza pensare a niente, senza desiderare niente.

Lascia il pensiero e la vita a me. Tu, come una pianta, come il mio respiro, sei accanto a me, cresci da me. Questo è quello che voglio da te, quello che desidero. Ma anche tu esisti, hai una coscienza diversa dalla mia. Questo mi rattrista molto, perché hai interessi diversi dai miei, desideri, sogni. Un mondo aperto ai tuoi occhi, un mondo che non è mio, e che a volte è mio nemico. Il tuo mondo, il mondo che tu ami non è il mio, non lo voglio e lo odio, perfino, quando penso che è il tuo. Il tuo. Tu puoi possedere qualcosa? Sì, pensi a tante labbra, in tanti cieli, in tanti paesi, in tante gioie che non sono le mie gioie, né le mie labbra, né il mio cielo, né nulla di mio. Ma tu non devi avere niente. Nemmeno un destino. Devi essere nuda, anche della memoria e del desiderio, del tuo destino e del mondo. Devi essere solo la mia pianta, la pianta che io creo, quella che vive solo nelle carezze che mi dà, nel bacio che mi dà, nella vita che le do quando lei mi dà la sua vita.

C’è una radio che suona spaventosamente forte. E per la strada, una città morta, c’è solo il rumore degli zoccoli dei cavalli sul selciato. Niente di più. E tu sei qui, sempre, Helen, come angoscia, come rabbia e talvolta come disperazione. Ma il tuo ritratto, qualcosa che ti materializza, una lettera, i tuoi capelli, tutto mi riporta a te. A te, Helen, che sventuratamente esisti senza di me, che vivi senza di me. Non voglio che tu viva se non in me, non voglio che tu sia diversa da me. Che mi stia così attaccata, così legata, da essere me. È questo ciò che voglio, mio ​​dolce amore, buona e cattiva, sempre lontana, sempre fuori di me, sempre, anche quando mi ami, amando il tuo Octavio, non il mio, non quello che voglio tu ami.

Io so cos’è l’illusione del possesso assoluto e totale, il possesso che non si raggiunge mai. So anche che se quel possesso fosse raggiunto, l’amore non esisterebbe. Lo so, so che la mia solitudine, l’angoscia di sapere che esisti come altro da me, è la condizione del mio amore. Non ti amerei se fossi dentro di me, ma soffro perché tu non esisti così. La sobrietà dell’amore, la perfetta comprensione, tutto ciò che significa libertà, è qualcosa che non mi appartiene, qualcosa che esiste, ma che rifiuto. In quella lotta io vivo, che è la lotta della realtà, della tua realtà, contro il mio desiderio. Ed è ciò che mantiene il mio desiderio, ciò che lo esaspera e lo rende esigente.

Amore mio, mia dolce, bionda, cosa stai facendo adesso?[6]

Hai la mia stessa tristezza, la stessa angoscia, la stessa voglia di tacere e di essere accarezzata dolcemente? Hai il desiderio di vivere nell’intimità, incurante, senza vincoli, dell’uomo e della donna? Il desiderio di frequentare la mia vita? Probabilmente stai dormendo, malata, o ridendo, felice o pensando ad altre cose. Quasi sicuramente, e non si dovrebbe soffrire per questo, bisogna capire che è naturale che accada. Bene, lascia che accada, ma possa io, come sei per me, essere il fondale che circonda tutte le tue azioni e desideri, il colore unico che tinge la tua anima. È così facile dimenticare, e soprattutto in Messico! Mi dici che dovrei aiutarti a ricordare, ma io non voglio questo: dimenticami, se puoi farlo, se sono dimenticabile. Non è orgoglio, né vanità, né risentimento. Tu sei indimenticabile, non devo guardarmi dentro per ricordarti. Quando non penso a te in concreto, sei invisibilmente presente. Assaporo le cose, le assaggio, per poi assaporarle insieme a te. Certo che ho paura, paura di vivere con qualcosa che non c’è, con un’Helena che al mio ritorno non è quella che credevo fosse, un’Helena amareggiata che non mi riconosce; un’Helena che ha nuovi interessi, che continua a cambiare la sua anima.

Ho anche paura che Helena mi aspetti e trovi un Octavio diverso, un Octavio che la deluderà. Sarebbe terribile. Ma come fermare il tempo, affinché la nostra pelle, la nostra lingua, la nostra anima, non cambi? Tu, lì, non nutrire i fantasmi, pensa sempre, senza sforzarti di pensare, ovviamente, che Octavio è qualcosa di reale, concreto, umano, pieno di cose spiacevoli, di desideri e tante volte di torbidi capricci. Non idealizzarmi, cerco anch’io di non idealizzarti, né disumanizzarti, né demonizzarti, ma di avere di te la vera immagine, quella della mia Helena, che un giorno potrò modellare, trasformare in qualcosa di mio, in qualcosa che, non essendo mio, sia abbastanza generoso e saggio da essere mio.

Helena mia, ti parlo forse con amarezza, con voce fastidiosa? Voglio essere così sprezzantemente giovanile, così completamente virile e onesto! È orribile dover essere cattivi, dover usare l’inganno! (Dico questo perché mi ha colpito il pensiero che per vivere e avere successo nel mondo era necessario che io fossi un uomo duttile con i miei desideri, un uomo astuto.) Ti voglio qui, notte e giorno, come mia compagna, come la donna che mi esalta. So che è possibile, ma so anche che è attraverso il mio desiderio e il tuo, non solo attraverso il mio. Ti bacio, ti accarezzo, tremo al tuo fianco, sento il tuo tremare, la tua timidezza. Voglio che tu esista solo in ciò che mi corrisponde, in ciò che mi accarezza, in ciò che mi copre di delizia. Delizia, Helena, delizia delle tue labbra, di te, di tutto il tuo corpo e della tua voce. E anche la tua intelligenza, che avrà una nuova direzione più realistica a contatto con la mia. Più dura, più ostinata, più paziente e intrisa di umanità. Dura, inflessibile, così dovrebbe essere la nostra anima. Dura e umana, come la carne, che è dura e calda, candida, come il tuo seno, come il tuo respiro, come tutto ciò che di buono hai. E io lo sapevo, lo sapevo, Helen. Parole, parole, che non hanno altra risposta che quella che possiamo dare nella vita, più risposta di quella delle nostre labbra unite per sempre.

Tuo, amore mio, incanto mio.

Octavio

*La traduzione della lettera di Octavio Paz è di Diana Mazon

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[1] Fa riferimento ai poeti del gruppo Contemporáneos, gruppo di giovani intellettuali messicani.

[2] I toreri Lorenzo Garza y Jésus “Chucho” Solórzano il giorno 11 avrebbero avuto un incontro nella Pizza di Mérida. Paz nutriva grande passione per la corrida e la letteratura sulla corrida.

[3] Nella corrida, la veronica è un gesto che si realizza tenendo la cappa con entrambe le mani. Costituisce la posizione base della corrida del mantello.

[4] Si ricorderà che il nord dell’attuale Marocco era un protettorato spagnolo e che Tetuan era la sua capitale. Fin dall’inizio della guerra civile fu teatro di intensi combattimenti.

[5] Henequén è una pianta del genere delle agavi originaria dello stato dello Yucatan in Messico. Conosciuta come oro verde in epoca preispanica.

[6] Ne La llama doble è scritto: “la domanda dell’amante geloso, cosa pensi, cosa provi? non ha altro che la risposta del sadomasochismo: tormentare l’altro o tormentare noi stessi”.

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