Aereo, treno, motorino. Maureen è in continuo movimento, afflitta da una routine che non le concede respiro: possiamo osservarla durante i suoi sfiancanti spostamenti ma non riusciamo mai a metterla davvero a fuoco. Il senso di alienazione che vive la rende invisibile, una presenza fantasmatica che si fa materia solo per essere al servizio degli altri. “Sono completamente sola o posso entrare veramente in contatto con qualcun altro?” sembra chiedersi, mentre interroga il telefonino come fosse una tavola ouija. E noi ci stringiamo intorno al suo quesito rassicurati da un’unica certezza, il magnetismo di Kristen Stewart, corpo iconico presente in ogni scena di Personal Shopper. Fischiato e premiato al Festival di Cannes, il film – in sala dal 13 aprile – è un nuovo brillante capitolo del cinema di Olivier Assayas: anarchico come il punk (Clean), inquieto come l’adolescenza (L’eau froide), autoriflessivo come il metacinema (Irma Vep), fragoroso come un esplosione (Carlos).

Dopo Sils Maria, è ritornato a lavorare con Kristen Stewart. Lì sembrava che si interrogasse sull’immagine pubblica dell’attrice americana, stavolta l’impressione è che il personaggio sia stato scritto per cercare di capire chi è realmente.

In un certo senso sono stato ispirato direttamente dall’esperienza precedente. Il personaggio di Valentine in Sils Maria non era di grande profondità psicologica, era quasi unidimensionale, però lei mi ha fatto venir voglia di esplorare nuove direzioni. Così ho cercato di costruire il personaggio basandomi su quello che avevo capito di Kristen, ma anche pensando alla possibilità di farle interpretare qualcosa di nuovo. Volevo farle sentire qualcosa di mai provato prima. Avevo scritto il ruolo di Valentine per un’attrice americana pur senza pensare a qualcuno in particolare, poi fortunatamente ho incontrato lei, che avevo già visto in Into the Wild e The Runaways dove era molto brava. Tuttavia niente mi aveva preparato alla scoperta che è stata Kristen sul set. Perché non è solo un’attrice brava, è un’attrice unica.

Nella scena in cui Maureen si spoglia per provare gli abiti di Kyra è come se specchiandosi si vedesse per la prima volta, scoprendo qualcosa di nuovo. Forse la sua femminilità.

È un personaggio in crisi d’identità, si trova in un momento di debolezza a causa della morte del fratello gemello, la sua metà, che l’ha resa particolarmente vulnerabile. È in una fase in cui si sta ponendo molte domande su se stessa e sul proprio corpo. Per me il cardine del suo comportamento sta in tutta l’ambiguità della sua relazione con l’ambiente della moda: da un lato lei lo disprezza vedendolo come l’espressione di un mondo materialistico, dall’altro è in grado di fornirle le risposte sulla sua femminilità. Perché il film è un cammino di autorealizzazione, teso verso la scoperta di sé. La domanda centrale è se lei è un maschio o una femmina.

In questo senso, la domanda di Maureen si accorda col ritratto mediatico di Kristen Stewart, ormai diventata il simbolo del fluid gender.

Certamente non in modo letterale, ma sapevo che quest’ambiguità trovava un’eco in Kristen: Maureen non è lei ma svela una dimensione importante della sua persona. Comunque, a differenza del suo personaggio, Kristen non è ambigua. Anzi.

Lei si sofferma lungamente sugli spostamenti quotidiani della protagonista. Sono scene apparentemente insignificanti ma che rendono bene il senso di solitudine di Maureen. Perché, in fondo, mi sembra che il film parli di questo: la solitudine di tutti noi.

Esattamente. Nel senso di una solitudine moderna, popolata da tutti i mezzi di comunicazione. Un tempo quando qualcuno restava solo, aveva a disposizione soltanto l’immaginazione, il sogno. Adesso anche un solitario, attraverso i social network e Skype, è collegato a un circuito di amici e conoscenze. Nella solitudine moderna, per di più, si sviluppa quella dimensione dell’immaginazione che circola dentro internet e che in un certo qual modo ricorda il funzionamento della nostra mente.

In questa insolita ghost story, il texting ha un ruolo centrale.

Quello che m’interessa è il modo in cui ci ha cambiato il collegamento col virtuale, il modo con cui interagiamo con gli schermi, con il nostro telefonino. Io penso che l’umanità sia stata cambiata da questo, noi ci pensiamo in modo diverso da quando abbiamo una connessione col mondo esterno attraverso il telefono. È diventato un’estensione della nostra mente. Immaginando Maureen volevo creare un personaggio moderno. Mi sembrava che l’astrazione del suo modo di comunicare fosse un ottimo esempio della dimensione umana del nostro rapporto col virtuale: il modo in cui comunichiamo con interlocutori di cui noi ignoriamo tutto, che non conosciamo. Inoltre, questa idea di comunicare con un personaggio invisibile, m’interessava molto anche per la tensione che si crea con questo tipo di comunicazione. Non c’era niente di simile in passato. L’email è molto simile a una lettera e una conversazione telefonica non cambia la sintassi e la dinamica del dialogo che si può avere con qualcuno al bar. Si tratta di qualcosa di squisitamente moderno.

Il film parla della possibilità di vedere l’invisibile. Ma il cinema non è anch’esso un modo per dare corpo a immagini che prima non esistevano?

Penso che il cinema abbia la capacità di catturare una forma d’invisibile. Sicuramente è la sua dimensione più affascinante, che spesso trova dimora nel cinema di genere. Registi come Dario Argento, John Carpenter, David Cronenberg, per me sono degli esploratori, molto sottili, del funzionamento della mente e dell’umano. Quando discorriamo di fantasmi, stiamo parlando della relazione con il nostro inconscio, e loro hanno inventato un modo di collegare il cinema con l’incosciente.

La rivista per cui la sto intervistando si chiama Il Mucchio Selvaggio, un omaggio al film di Sam Peckinpah. So che ha avuto la fortuna d’intervistarlo. Cosa ricorda di quell’incontro?

Mi ricordo molto bene di quell’intervista. Nel 1982 ero un giovanissimo giornalista, era la prima volta che andavo negli Stati Uniti e dovevo intervistarlo a Los Angeles per “Cahiers du Cinéma”, che allora era una rivista molto diversa. Avevo la più grande ammirazione per lui, ero stato impressionato da tutti i suoi film, in particolare da Voglio la testa di Garcia. Non stava bene fisicamente, si vedeva che era malato, pensavo che non sarebbe mai riuscito a girare un altro film e invece poi fece Osterman Weekend. Era un personaggio impressionante. Parlava con grande profondità, in un modo molto poetico, aveva anche un che di aristocratico. È stata l’intervista in cui ho trovato il legame più forte con la persona che avevo di fronte.

Nel futuro imminente dovremmo poter vedere Based On a True Story, il film da lei scritto e diretto da Roman Polanski. Inoltre, dopo lo stop del 2014, so che è ripartita la macchina produttiva di Idol’s Eye, gangster movie che cerca di girare da molto tempo.

Il film di Polanski ora è al montaggio, io però non ho visto nulla. Idol’s Eye è un progetto tormentato, si è fermato più volte ma ora sembra si sia sbloccato e si possa fare. Tuttavia è molto costoso, è un film d’epoca, quindi c’è un problema di finanziamenti e non è ancora sicuro che tutto andrà per il verso giusto.

Il protagonista dovrebbe essere Sylvester Stallone. Lo stima come attore e regista?

Io sono sempre stato un fan di Stallone. Ho visto tutti i Rocky, giusto un paio forse sono meno interessanti, ma anche Rocky Balboa mi è piaciuto moltissimo. Mi ricordo bene il suo primo film, Taverna Paradiso, e potrei citare tutti i film che ha interpretato, tra cui lo splendido Cop Land. Ma ciò che apprezzo di più è sicuramente la saga dei Rocky.

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