Nella marea di dichiarazioni che hanno seguito l’uscita nelle sale di Barbie ne ho trovata una di Greta Gerwig, riportata da Deadline, piuttosto interessante: «Nel film ci sono elementi oltraggiosi che fanno dire alla gente: “Oh, mio Dio, non posso credere che la Mattel ti abbia permesso di farlo” o “Non posso credere che la Warner Bros. ti abbia permesso di farlo”». Ciò che mi colpisce è come questa frase, nonostante sia volta a mettere in evidenza la libertà creativa di cui la regista ha goduto, ponga chiaramente in contrapposizione l’autrice e i suoi committenti, mettendo allo scoperto la duplice natura del film: opera terza scritta (col marito Baumbach) e diretta dall’eroina del cinema indipendente americano Gerwig, ma anche opera prima da 100 milioni di dollari della Mattel Films, nuova divisione cinematografica dell’azienda statunitense fortemente voluta dal suo CEO Kreiz.

Guardando un film pasticciato come Barbie è quasi possibile osservare gli sforzi che sono stati fatti per rispondere a esigenze creative e commerciali diverse, e tentare di farle convivere. In realtà, per quanto improbabile, il sodalizio tra Mattel e Gerwig si fondava sulle giuste premesse per poter funzionare: per l’azienda, provare a imporre Barbie come un simbolo di empowerment femminile era una scelta praticamente obbligata per riportare oggi il brand al centro dell’attenzione; e per la regista non fare un film totalmente disimpegnato era altrettanto inevitabile, per non tradire il proprio percorso artistico e non esporsi del tutto alle prevedibili accuse di essersi svenduta, che le sono comunque puntualmente arrivate. Dando dunque per assodata un’iniziale comunione d’intenti riguardo agli obiettivi, sono evidentemente emerse delle divergenze su come raggiungerli.

Può essere un esercizio divertente, e in alcuni casi anche piuttosto facile, associare vari elementi del film, alternativamente, a Gerwig o a Mattel. Tanto per cominciare, i personaggi: è difficile togliersi l’impressione che Ken, come si usa dire, rubi la scena a Barbie, per quanto ciò possa suonare paradossale. Non accade solo per merito di Ryan Gosling – che pure, più di chiunque altro nel cast, riesce a calarsi nella parte fino a sembrare fatto di plastica e non di carne, portando con sé un bagaglio abbastanza insospettabile di comicità espressa non solo con la mimica facciale ma con l’intero corpo, arrivando al punto di strappare una risata con la semplice flessione di un bicipite. A lui vengono affidate tutte le trovate più memorabili del film, dalla confusa comprensione di cosa sia il patriarcato alla maglietta “I am Kenough” già diventata un meme.

Ancor più incredibile e paradossale è che il film renda più agevole immedesimarsi in lui che nella protagonista. Se Barbie, nel mondo reale, scopre un maschilismo e una mascolinità tossica che è tristemente ben familiare anche al pubblico in sala, Ken, nel mondo di Barbie, vive un incubo di proporzioni inimmaginabili. Condannato da Mattel a vivere per l’eternità in un mondo in cui è perdutamente innamorato di Barbie e da lei infinitamente rifiutato, e dove in ogni caso gli sarà per sempre preclusa la possibilità di consumare il suo amore perché, com’è noto, a entrambi mancano i genitali, si trova in una situazione di una crudeltà sisifea, prometeica. Oppure, per non ricorrere alla mitologia greca e usare riferimenti più recenti, pare intrappolato in un’allucinazione da Chew-Z controllata da Mattel anziché da Palmer Eldritch; ad ogni modo, più ci ripenso, più mi sembra una delle cose più terrificanti mai viste al cinema, totalmente incongruente rispetto a gag e colori sgargianti (e qui davvero mi chiedo come abbiano permesso a Gerwig di farlo).

Margot Robbie si trova invece a dover interpretare un personaggio molto meno interessante, forse perché è Gerwig a non trovarvi lo stesso potenziale, forse perché è Mattel a forzare la mano per ottenere determinati risultati. L’idea di Gerwig è costruire una sorta di bildungsroman a partire da un momento ben preciso, quello in cui una ragazzina dice a Barbie più o meno ciò che tutto il mondo pensa della bambola, terminando il discorso dandole della fascista e facendole perdere ogni certezza riguardo alla propria identità. Nel film ci sono tante tiratine d’orecchio a Mattel, di quelle che qualsiasi brand accetta di buon grado per mostrarsi moderno, trasparente, consapevole delle proprie colpe e abbastanza onesto, se non altro, da ammetterle; ma il discorso della ragazzina va ben oltre: è un furbissimo punto e a capo nell’intera e decennale narrazione del marchio. Da quel momento in poi Barbie cambia, nel film e (perciò) nella realtà; o almeno così vorrebbe Mattel. L’operazione però è troppo sfacciata e – come se non fosse già abbastanza complicato mettere in scena il bildungsroman di un pupazzo di plastica – che credibilità può avere un racconto di formazione interamente sovrapponibile a un’operazione di marketing e di riposizionamento?

Lo stesso esercizio si potrebbe estendere poi alle singole scene del film, e citerò qui solamente il caso più eclatante, la sua doppia conclusione: un primo finale lungo e stucchevole, in cui Barbie incontra la sua creatrice e matura la decisione di divenire umana dopo un montaggio di immagini che sembra provenire da una parodia del peggior Terrence Malick; e un secondo finale brevissimo, provocatorio, tagliente, in cui Barbie va a fare la prima visita ginecologica della sua vita. Rispettivamente frutto del sacco, come ogni evidenza, di Mattel e di Gerwig, anche queste due chiusure indicano come, in Barbie, non si sia riusciti ad arrivare a una sintesi.

Questo doppio finale mostra inoltre, in miniatura, quello che è un altro problema enorme del film: il ritmo. Alcune parti lo rallentano per fornire una serie di spiegoni, con concetti elementari ripetuti più e più volte nel timore, facilmente attribuibile a Mattel, che qualche passaggio non fosse sufficientemente comprensibile a chiunque. In altre parti l’andamento del film invece accelera, in alcuni casi fin troppo, come nel tentativo, questa volta di Gerwig, di recuperare il tempo perduto e trovare spazio per tutte le sue idee all’interno di un minutaggio accettabile. Arrivano allora sequenze travolgenti dove, tra balletti, scontri, inseguimenti e dialoghi infarciti di citazioni cinefile e più e meno pop (si tratta con ogni probabilità del primo blockbuster che nomina il frontman dei Pavement), si intersecano due parabole femministe parallele, quella delle Barbie contro lo strampalato patriarcato instaurato dai Ken, e quella speculare dei Ken nel mondo “alla rovescia” di Mattel. Il risultato è un’esperienza postmoderna, soprattutto nel senso deteriore del termine, in cui è sorprendente – o per meglio dire: sintomatico – veder portato avanti il discorso femminista senza mai un accenno, in mezzo a tanta attenzione chiarificatoria, al concetto di uguaglianza.

Quasi tutto ciò che è necessario sapere sul postmoderno è convenientemente racchiuso in un singolo libro, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, e allora tanto vale concludere con le parole del suo autore. Secondo Fredric Jameson è proprio questa la maniera postmoderna e capitalista “di trattare una controversia ideologica: portarla dentro il testo in modo tale che divenga parte della superficie piatta sulla quale sono disposti ed esibiti gli altri materiali”.

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