Abbiamo visto “ Il riccio “ regia di Mona Achache.
Quando i popoli avevano una radicata cultura nazionale erano espliciti i modelli culturali, i simboli esteriori come il modo di vestire, l’arredamento delle case, il linguaggio, i rituali, i comportamenti sociali. Per noi italiani, i cugini francesi avevano molti meriti e un fascino un po’ distante. Ma sapevamo anche che un certo modello di cultura francese era un po’ spocchiosa, presuntuosetta e forse un po’ troppo glamour per i nostri standard. La stessa differenza che in Asia si riscontra tra un giapponese e un cinese. Questo film è la dimostrazione pratica di quella francesità un po’ pâté de bourgeois, di intellettualismo fanè che un tempo ci irritava particolarmente non per nostra inadeguatezza ma per quella falsa sfacciataggine di involontaria superiorità. Non sappiamo se la giovane regista (Mona Achache – appena ventotto anni, alla sua opera prima) sia cascata con le scarpe in questa pozzanghera per scelta, inesperienza o per i naturali trabocchetti che sorgono quando si deve fare un film da un libro famoso, di successo e anche un po’ sopravvalutato. Saranno cento anni che si parla dei film tratti da libri, sono cento anni che i primi lasciano insoddisfatti quasi sempre e perdono nel confronto col romanzo da cui sono tratti: confronto che viene naturale ma che non dovrebbe essere fatto in quanto linguaggi e stili diversi ( sia per chi li realizza che per gli spettatori ), un po’ come fare un confronto tra una poesia e un brano musicale.
Il film si lascia vedere, ha alcuni momenti poetici, alcune gentilezze del tocco, alcuni passaggi delicati e in controtendenza col panorama del cinema odierno; a questo si deve aggiungere che c’è un cast ( un po’ algido ) ma perfetto, come sono molto bravi tutti gli attori. Non riusciamo quindi a comprendere perché l’autrice del romanzo, Muriel Burbery, abbia “scomunicato” l’opera, l’abbia stroncata senza pietà, e abbia preteso dalla produzione la scritta un po’ generica «liberamente ispirato».
In rue de Grenelle, al numero 7, c’è un condominio elegante, abitato da solo cinque famiglie dell’alta borghesia. Burocrati ministeriali silenziosi e formali, signore che parlano più con le piante che con i propri figli, anziane svagate con cagnolino, bambine di undici anni che hanno deciso di suicidarsi e che citano Freud, parlano giapponese e girano filmini come poteva fare Godard da bambino. Una alta borghesia educata e civile che tuttavia non riesce a vedere che il proprio naso e i suoi simili, gli altri sono ombre da non calpestare. Un’ombra è la portinaia Renée, dalla sua guardiola assiste allo scorrere di queste vite di lusso, superficiali e indifferenti. Lei è in tutto e per tutto una portinaia: grossa, sciatta, scorbutica, mangia continuamente cioccolata e beve tè. Ma ha una porta chiusa in casa e un segreto, ha centinaia di libri ed è una coltissima autodidatta che adora l’arte, il cinema, la filosofia, la musica, la cultura giapponese. Conosce e cita Marx, Tolstoj, Ozu e nasconde a tutti la sua cultura: ha deciso di essere un riccio e di non chiedere più nulla alla vita. Al secondo piano abita Paloma, la figlia undicenne di un ministro e di una signora che è da dieci anni in psicanalisi: adolescente geniale e fin troppo matura che ha deciso di suicidarsi il giorno del suo compleanno. Fino ad allora si nasconde negli armadi e dietro una telecamera con cui riprende qualsiasi cosa. Nel condominio viene ad abitare un anziano giapponese ricchissimo, monsieur Ozu ( un concentrato di gentilezza e saggezza nipponica, sempre con la risposta giusta e poco convenzionale ), sarà lui a far ‘incontrare’ Paloma e Renée e sarà sempre lui a scoprire il mondo segreto della portinaia, a ‘smascherarla’ e a farle perdere il ‘riccio’ in cui si è chiusa da quando è rimasta vedova.
La portinaia autodidatta Renée è la protagonista di questo film anche se in alcuni momenti rischiamo di dimenticarci di lei per seguire Paloma e le sue ripetute riprese filmiche. E’ lei il riccio, ispida e puntuta ma incredibilmente elegante nell’animo. E’ lei che ha una dolenza e un malessere dell’animo che tuttavia non la rendono mai squallida moralmente. E dove il personaggio non riesce ad arrivare ci pensa con un mezzo sorriso o un gesto del corpo la bravissima attrice Josiane Balasko ( regista, attrice in molti film francesi e sceneggiatrice ) per far comprendere allo spettatore il mondo ricco di segreti, di sogni, di idee e di bellezza.
Paloma (Ariane Ascarid – una ragazzina anche lei un po’ ‘riccio’ ) è una piccola ma troppo matura Giudice dell’Umanità che prende le distanze dalla famiglia: cosciente di avere una madre fragile e debole, un padre, silenzioso e aggressivo, con cui non ha rapporti, una sorella Colombe che studia filosofia solo a fini speculativi e non per affrontare il mondo in maniera autentica. Una ragazzina estenuantemente attenta e profonda nel comprendere il suo mondo, di cui è convinta di capire la parte crudele, e che non riesce a sopportare la mediocrità della gente con cui vive, e per cui ha pianificato di suicidarsi con il barbiturici il giorno del suo compleanno.
Traghettatore di queste due vite così vicine e così lontane, monsieur Ozu ( Togo Igawa ), dei tre personaggi quello che è apparentemente il più saggio, equilibrato e sereno. Ma che non ha una ‘vita’ sua ma che è solo speculare a quella delle due donne, sembra uscito da un libro zen e messo lì per far scattare meccanismi narrativi.

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