Scappato dal seminario di Maulbronn, internato in cliniche per ragazzi affetti da disagi mentali, straziato dall’educazione scolastica, è a Tubinga, dove lavora come libraio, che Hermann Hesse, poco meno che ventenne, scopre se stesso. Tubinga, nel Baden-Württemberg, è stregata dalla memoria di Friedrich Hölderlin, che lì visse i lunghi anni della sua seconda vita, in penombra. Nel 1913 Hesse pubblica “un racconto dell’antica Tubinga” titolandolo Nel padiglione dell’antica Tübingen. Di ritorno da un viaggio a Ceylon, Sumatra e Malaysia, alla ricerca del prodigio, Hesse, quando scrive questo racconto è già l’autore di Sotto la ruota, Peter Camenzind, Gertrud, Rosshalde (“romanzi giovanili” recentemente accorpati e pubblicati da Mondadori). Il testo si concentra sulle passioni e le promesse esistenziali di Eduard Mörike e di Wilhelm Waiblinger (autore, tra l’altro, di un importante documento che narra Hölderlin: vita, poesia e follia, edito così da Adelphi). Tra i due scrittori, diversamente infelici, diversamente ingabbiati dalla convenzione sociale, dal desiderio di fama, dalla convivenza con le convenienze, s’installa l’ombra di Hölderlin, il poeta sempre giovane, che ha scelto la via della follia. Il racconto, il cui titolo completo è Nel padiglione del giardino di Pressel, è raccolto in L’uomo con molti libri e altri racconti e riproposto da Edizioni Studio Tesi. Se ne ricalcano alcuni passi.

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Mentre Mörike stava dietro ai due turbato e pensoso, Hölderlin si girò verso di lui e fissò, come alla ricerca di qualcosa, il volto espressivo del giovane, dai lineamenti fini e delicati, i cui occhi e la fronte rivelavano spiritualità e fanciullezza d’animo. Forse il vecchio sentiva quanto questo giovane gli assomigliasse; forse quella fronte pura e luminosa e quei bellissimi occhi, che conservavano un sogno giovanile ancora meravigliosamente intatto, gli facevano ricordare la propria giovinezza. Oppure, anche questa semplice successione di pensieri era troppo stancante per la sua mente e il suo sguardo grave e imperscrutabile restava posato sul volto dello studente per puro diletto.

Mentre tutti e tre tacevano e in ognuno di essi perdurava l’eco della vivace conversazione di qualche minuto prima, la giovane Lotte Zimmer arrivò risalendo la vigna. Waiblinger la vide da lontano e rimase a guardare con tranquillo piacere l’avanzare della vigorosa figura femminile e, allorché essa si avvicinò rispondendo con un sorriso al saluto che le aveva rivolto, saltò giù dalla bassa finestra e le andò incontro… Waiblinger fece ancora un po’ di scherzi e di cerimonie, poi entrò e invitò con un cenno l’ammalato ad alzarsi, gli mise il cappello in mano e lo guidò alla porta. Hölderlin sembrava andar via di malavoglia, lo si intuiva dallo sguardo e dai movimenti esitanti, però non disse una parola di preghiera o di rincrescimento. Con la cortesia impeccabile dietro la quale si trincerava da tantissimi anni e si nascondeva al mondo intero, dedicò uno sguardo e un inchino prima a Mörike e poi a Waiblinger, si avviò ubbidiente alla porta e là si voltò con un ultimo inchino. «Mi raccomando umilmente a Sua Eccellenza. Sua Eccellenza ha comandato. Servitore devotissimo di Lor Signorie».

Fuori, Lotte Zimmer lo prese per mano e lo condusse via; i due studenti, in piedi sui gradini, rimasero a guardare i due che si allontanavano scendendo la montagna attraverso i vigneti e rimpicciolivano in fretta, l’uomo alto e compassato e la sua custode.

Il vestito blu e il grande cappello nero di Hölderlin furono visibili ancora a lungo.

Mörike si avvide che l’amico seguiva con occhi tristi l’infelice che scompariva a poco a poco. Ci teneva molto a distrarre l’amico sensibile e sovreccitato e voleva anche evitare di rivelare qualcosa di troppo del suo intimo in un momento di commozione incontrollata, perché Waiblinger aveva cessato da mesi di essere il suo miglior confidente. Mörike, che nelle giornate solitarie poteva abbandonarsi per ore a una malinconia senza motivo, non amava questo lato della sua natura complicata e si guardava bene dal mostrarlo ad altri, in modo particolare a quest’amico cui piaceva così tanto crogiolarsi in una quasi disgustosa rivelazione dei propri sentimenti più intimi.

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Si erano appena separati che Mörike ritornò indietro: guardò l’amico dritto negli occhi e disse con voce insolitamente grave: «Non dimenticare le doti che hai! Credimi, si deve rinunciare a molte cose, se si vuol diventare grandi e creare qualcosa di buono». Con questo si allontanò e l’amico rimase a guardare l’esile figura che si affrettava verso la Bursagasse e il collegio.

Waiblinger, che di solito non tollerava gli ammonimenti, gli era incredibilmente grato per queste parole perché ne avvertiva lo splendido e recondito significato: Mörike credeva in lui. Per lui, che così spesso dubitava di sé, ciò era una consolazione e un monito profondo. Proseguì lentamente verso la casa della sua bella ebrea, la fatale figlia del professor Michaelis.

In quello stesso momento Friedrich Hölderlin, nella sua camera, andava su e giù inquieto. Aveva mangiato la minestra e, com’era sua abitudine, aveva messo il piatto sul pavimento fuori della porta. Non sopportava l’idea che nel suo rifugio ci fosse qualcosa che non gli apparteneva e alla sua esistenza misera e solitaria non appartenevano né piatto né bicchiere, né quadri né libri. Il pomeriggio era ancora vivo in lui: l’amata e silenziosa casetta tra le vigne, l’ampio paesaggio estivo, lo scintillio del fiume e il canto degli studenti, lo sguardo e le parole dei due giovani, soprattutto di quello bello e dolce, di cui non sapeva il nome.

Sebbene fosse stanco, l’irrequietudine lo spingeva di continuo su e giù, qui e là; talvolta si arrestava vicino alla finestra e guardava nella sera dimentico di sé. Ancora una volta, oggi, aveva percepito la voce della vita ed essa riecheggiava estranea ed eccitante nel suo mondo d’ombre. Gioventù e bellezza, discorsi elevati e pensieri lontani gli avevano parlato, a lui che una volta era ospite di Schiller e un invitato alla mensa degli dèi. Ma era stanco, non poteva più afferrare i fili dorati, non poteva più seguire il canto della vita. Riusciva solo a sentire la lieve, discontinua melodia del proprio passato ed esso non era stato nient’altro che un anelito infinito mai appagato. Era vecchio, vecchio e stanco.

All’ultima luce del giorno morente l’uomo ammalato prese di nuovo in mano la penna e tra versi muti e sparsi, che coprivano un foglio di rozza carta, scrisse con la sua bella ed elegante scrittura questo lamento breve e triste: «Il gradevole di questo mondo io l’ho goduto/ Le giovanili gioie sono da tanto, da tanto finite/ Aprile e Maggio e Giugno sono lontani./ Io non sono più nulla, non ho più gusto a vivere».

Non molto tempo dopo Wilhelm Waiblinger dovette abbandonare il collegio e Tübingen. A lui toccò in sorte di bere a sorsi rapidi e assetati la gioia e la miseria della libertà e di bruciare presto. Si diresse in Italia e non rivide più la patria e gli amici. Povero e abbandonato, si spense a Roma come un avventuriero dimenticato da tutti. Mörike rimase al collegio, ma alla fine degli studi non poté decidersi a diventare parroco. Dopo alcuni tentativi sfortunati e lotte senza speranza, alla fine dovette arrendersi e trascinarsi sotto la croce. Ma così come non divenne mai parroco del tutto, allo stesso modo non ottenne mai una vita piena e felice. Rinunciò con dolore alle proprie illusioni e nei momenti migliori, strappati alla mediocrità con le unghie e coi denti, diede forma ai suoi versi imperituri.

Friedrich Hölderlin rimase nella sua stanza con l’Erker a Tübingen e visse altri vent’anni nella sua morta penombra.

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