Abbiamo visto “ La foresta dei sogni “ regia di Gus Van Sant.

Con Matthew McConaughey, Naomi Watts, Jordan Gavaris, Ken Watanabe, Katie Aselton. Drammatico, durata 110 min. – USA 2015. – Lucky Red uscita giovedì 28 aprile 2016.

Gus Van Sant è un vero outsider dello star system hollywoodiano: inserito e indipendente fino alla marginaltà cinematografica allo stesso tempo; oltre che regista importante, ma discontinuo, è anche sceneggiatore, montatore fotografo, musicista, pittore e scrittore. Tra i suoi film migliori ricordiamo il famoso – e forse il suo più importante – Belli e Dannati ( 1991 ), Da morire ( 1995 ), Scoprendo Forrester ( 2000 ), Elephant ( 2003; il film più elaborato come analisi psicologica sulla violenza negli Usa ), Milk ( 2008 ). Regista del movimento dinamico e on the road, ha messo al centro della sua ricerca narrativa in tutta la sua cinematografia il tema del viaggio, del disagio personale, sul vuoto pneumatico che precede la tragedia e soprattutto la sofferenza profonda che porta alla morte, subita o cercata ( la Trilogia della morte: Jerry, Elephant, Last days – ma anche Drougstore Cowboy e L’amore che resta ). In questo ultimo film la morte è messa al centro della storia, è vissuta, sfiorata, subita e stabilita, ma senza alcuna grevità o crepuscolarismo, anzi, verso il finale c’è un climax quasi new romantic, sfiorando la new age. Nella sua carriera, inizialmente indipendente, poi passata per Hollywood e quindi rimasta a mezza strada dalle prime due, ha realizzato opere sperimentali e necessarie alternate con film piuttosto commerciali, ma sempre lasciando una sua impronta; e in questi quarant’anni di carriera ha ottenuto un paio di premi Oscar, alcune nomination, ha vinto una Palma d’oro e un premio per la miglior regia a Cannes.

Il Giappone è la terra dei suicidi ( leggete se vi va l’ottimo scrittore Haruki Murakami e in particolare il suo Norwegian Wood ), una leggenda è legata alla foresta di Aokigahara, una foresta di 3.500 ettari che si trova alla base del Monte Fuji. Chiamata anche la « Foresta dei Suicidi », perché dal 1950 ci sono stati oltre 500 suicidi ( 108 corpi sono stati ritrovati soltanto nel 2004 ); qui giunge direttamente dagli Stati Uniti, con un biglietto di sola andata, Arthur Brennan, un professore quarantenne di fisica. Ha deciso di suicidarsi e di terminare qui la sua vita con tanto di pillole e bottiglietta d’acqua. Sta prendendo la dose letale, seduto su una roccia, quando incrocia un giapponese, ferito e smarrito, Takumi Nakamura: è venuto anche lui qui per suicidarsi, ma all’ultimo momento ha cambiato idea, si è perso e non sa come tornare indietro. Arthur cerca di aiutarlo a trovare il sentiero giusto, ma anche lui ha perso l’orientamento. Quindi devono passare delle ore assieme mentre sopraggiunge la notte e un violento acquazzone. Veniamo a sapere che Takumi voleva suicidarsi perché è stato dequalificato sul lavoro, ha perso il suo onore professionale, e così facendo si voleva lavare dal disonore, ma forse ama troppo sua moglie sua figlia ed ha cambiato idea. In questo viaggio che dura fino al giorno dopo, Arthur e Takumi cercano di sopravvivere disperatamente al freddo e alla stanchezza, riparandosi in una grotta, poi in una tenda dove si trova il corpo mummificato di un altro suicida; l’americano ricorda ( con dei flash back un po’ banali ) il suo rapporto infelice con la moglie e le ragioni per cui è giunto qui, ma con le ore rimanda il suicidio e il suo dolore trova una ragione di vita.

La foresta dei sogni non ha molto dei precedenti viaggi verso la fine dei suoi film passati, Van Sant ci racconta una storia ( che a noi è sembrata più credibile e potente sulla carta che non nelle immagini del film ) di dolore normale e quasi convenzionale per una storia d’amore borghese arida e noiosa che diventa necessaria e unica nel momento in cui lei si ammala e muore, non per la malattia sotto controllo ma per il più ridicolo degli incidenti d’auto. Siamo lontani da quel cinema indipendente dalla lirica originale e particolare a cui ci ha abituati il regista in precedenti film, come manca anche una gentilezza del tocco e una ricerca di soluzioni nuove rientrando così in un cinema classico melodrammatico, dalle strade ben tracciate, ma senza che il regista ne abbia fino i fondo imparato le regole. Un peccato anche per l’attore protagonista ( Matthew McConaughey ) che ha troppa presenza scenica per essere al servizio della storia e quindi condiziona il personaggio che interpreta fino a farlo sparire davanti alla sua figura attoriale che risulta ingombrante. Bravo l’attore giapponese Ken Watanabe che impersona la figura della moglie di Arthur venuta a salvarlo sotto mentite spoglie.

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