Le parole fronteggiano la vergogna dell’oblio imposto. Nel loro “Viaggio sul fiume mondo” (Mondadori, 2022) Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini raccontano l’Amazzonia nella sua bellezza e concretezza, liberandola dallo status di luogo fantasmatico, da rifugio immaginario delle coscienze tenute a distanza di sicurezza, buone o cattive che siano. Raccontare significa sempre attraversare lo specchio, infrangere la bolla della riflessione per sentito dire e azzardare il rischio dell’esperienza, affrontarne le contraddizioni o gli improvvisi punti di contatto che rivela tra geografie umane solo apparentemente lontane. L’Amazzonia può confinare anche con l’Abruzzo se la mappa la disegna chi unisce i punti con le parole e i ricordi, chi si mette sulle tracce delle storie cui versare il risarcimento del racconto. (antonio coda)

Viaggiare in Amazzonia significa aver ascoltato le parole di Maria Eduarda, della scuola Gente Grande a Manaus: “Un anno fa, una ragazzina che conoscevo si è impiccata con una corda e, mentre moriva, ha filmato tutto con il telefonino”. Che posto è l’Amazzonia?

L’Amazzonia è un luogo eccentrico, composito, in cui coabitano i popoli delle regioni remote, solo in Brasile sono un centinaio i popoli incontattati, e gli abitanti delle città ormai passati a uno stile di vita più simile al nostro. L’Amazzonia è uno degli ultimi mondi naturali terrestri, e allo stesso tempo rappresenta la nostra cattiva coscienza da occidentali. La prima volta che sono stato in Perù a colpirmi fu lo scontro di civiltà a vista tra il processo di globalizzazione che contamina il mondo naturale e la resistenza che comunque i popoli amazzonici gli oppongono, tramite il rapporto in molte parti ancora forte con l’habitat ancestrale. Lo dimostrano i dati: dove vivono i popoli indigeni si deforesta la metà che altrove, i fiumi sono vivi, c’è una visione ecologica, conservativa, della natura, in sintonia con la sacralità che le attribuiscono.

Il viaggio-reportage inizia con gli occhi e le fotografie di Giovanni Marrozzini che ritrae in bianco e nero il mondo verde dell’Amazzonia. Il libro contiene due racconti. Due versioni dello stesso viaggio. Una più simbolica e suggestiva, raccontata con le foto, l’altra che con le parole ricerca un approccio più oggettivo, per quanto possibile. Come viaggiano assieme scrittura e fotografia?

Quando viaggiano assieme c’è sempre un dibattito tra il fotografo e lo scrittore. Il viaggio di Marrozzini inizia prima, sta conducendo un grande lavoro sui miti della creazione in tutto il mondo. Per il viaggio in Amazzonia io e Marrozzini abbiamo deliberatamente deciso di raccontare cose diverse, per non diventare l’uno la didascalia dell’altro. Marrozzini racconta l’immaginario violato. Assieme agli indigeni, decidendolo assieme, ha stabilito come volessero rappresentare sé stessi e il loro rapporto con la sacralità della natura, con i propri miti e credenze. Io ho voluto raccontare la condizione umana tout court, scrivendo quello che vivevo in presa diretta ma soprattutto cercando di capire. Un reportage è sempre una lenta messa a fuoco. Si arriva in un posto per la prima volta e se ne ricava una sensazione di spaesamento, poi più si torna sul posto più la nebulosa iniziale si dirada e le cose cominciano a assumere una forma riconoscibile. La mia e quella di Marrozzini sono due visioni che però si vengono incontro: io racconto le devastazioni e le resistenze dell’Amazzonia, Marrozzini tutto ciò che l’Occidente rischia di distruggere.

La fotografia scelta per la copertina è il punto d’incontro tra le due visioni: è l’unica che viene anche raccontata all’interno del libro.

I fotografi non inventano la realtà ma riescono a cogliere della realtà cose invisibili agli occhi altrui. Fissano nell’istante dello scatto fotografico una epifania. I ragazzi della foto, con quel loro giocare ad arrampicarsi sui rami per tuffarsi in acqua, in armonia con quello che gli antropologi definiscono il cosmo amazzonico, diventano il simbolo di un rapporto con un mondo magico che noi abbiamo perso dopo la scomparsa della civiltà contadina tra fine Ottocento e inizio Novecento. In Amazzonia io ci sono andato dopo aver visto gli ultimi fuochi della civiltà contadina, e qualcosa della nostra civiltà perduta in Amazzonia l’ho rivisto.

Al centro del viaggio c’è l’impresa herzoghiana della Amalassunta, la barca che “viene liberata dopo mesi di prigionia[…] nelle acque oscure e profonde del grande Rio delle Amazzoni”, il 5 settembre, giorno del compleanno di Werner Herzog. Più che un teatro lirico, avete portato in Amazzonia quella che poi è diventata una scuola/biblioteca galleggiante. Padre Gaston della chiesa di San Francesco d’Assisi, a proposito dell’accoglienza che presta ai giovani a rischio in Amazzonia, nel libro si chiede: “È una cura palliativa o produce cambiamento?”. La stessa domanda vale per la scrittura.

Questo ci riporta a Maria Eduarda, la bambina della scuola Gente Grande a Manaus. Finito il viaggio avremmo potuto rivendere la Amalassunta. Abbiamo preferito donarla all’associazione Piccola Nazareno perché appunto diventasse una scuola galleggiante, una biblioteca itinerante. È una piccola cosa, una goccia nell’oceano, però ci è sembrato il prolungamento concreto della nostra attività di narratori, la dimostrazione pratica che non ci aveva lasciato indifferenti la situazione davanti alla quale ci eravamo ritrovati. Per rispondere più direttamente alla tua domanda: tutto quello che faccio è frutto della mia storia e della mia militanza. Se non credessi che la scrittura porta cambiamento probabilmente farei altro. Produce cambiamenti: che poi siano piccoli o grandi questo non ci è dato di saperlo.

Il libro racconta di un viaggio in corso, che è già iniziato, che non è finito, non può finire. Ma com’è stata la tua prima volta in Amazzonia?

Scendo dall’aereo in Perù e sento il fiato della foresta che mi invade e che da quel momento non mi abbandona più. In Amazzonia il rapporto con le cose diventa fisico, sensoriale. Direi quasi magico. Durante il giro delle presentazioni del libro ancora mi chiedo: ma è stato un viaggio o è stato un sogno? È stata un’avventura, al di là delle mie iniziali intenzioni letterarie. Certo, nella mia testa c’era la volontà di rimettere in circolo Joseph Conrad, tutto quel tipo di scrittura, ma sono bastati i fatti a dare il ritmo alla narrazione, a far incontrare vita e letteratura.

Le persone incontrate diventano indimenticabili personaggi da romanzo. Tra gli altri, mi riferisco anche al libraio di Manaus Joaquim tramite il quale hai conosciuto il poeta Thiago de Mello. Anche sulla scorta della lettura di Querida Amazzonia del papa Bergoglio, ti chiedo: per raccontare l’Amazzonia bisogna ricorrere ai poeti e ai sogni?

A Catrimani ho conosciuto una donna yanomami anziana che mi ha parlato del suo orto, del suo mondo, del rispetto per la natura, dei garimpeiros vale a dire dei cercatori d’oro dell’Amazzonia che avvelenano l’acqua dei fiumi, che è quella che bevono gli yanomami stessi. La sua voce era cinguettante. Mi ha detto: “Angelo, metto le mie parole nelle tue mani. Portale in Italia. Portale in Europa”. Come se l’atto del parlare avesse un valore liturgico. Gli indigeni sono animisti e il loro linguaggio si avvicina alla poesia, è musicale. L’incontro con Thiago de Mello poi è stato incredibile: un uomo che finché ha potuto andava nella foresta per recitare le sue poesie al fiume, al vento, agli uccelli. È stato il più grande poeta dell’Amazzonia e tra i più grandi del Brasile. In Italia l’hanno tradotto poco. Anche il librario Joaquim è una bellissima persona: di sicuro non ce lo si aspetta che la libreria di antropologia più fornita, una piccola mecca per gli studiosi di tutto il mondo, si trovi a Manaus.

Viaggio sul fiume mondo è dedicato ai popoli custodi. Leggendo dal libro, a proposito dell’Eldorado di Boa Vista: “L’attività estrattiva inquinò acqua e aria, e in soli sette anni morirono ventimila Yanomami: una vera e propria strage”. O per usare le parole di Carlo Zacquini, ottant’anni, della Missione Consolata: “L’etnocidio sta avvenendo”. A che punto della storia siamo adesso?

Il fatto che con le ultime elezioni politiche Bolsonaro sia stato messo da parte, anche se di stretta misura, è un passo in avanti. Si calcola che durante il governo Bolsonaro sia stata disboscata un’area grande come il Belgio. Lula ha promesso un ministero per i popoli indigeni. Durante l’ultima tornata elettorale c’è stata una crescita esponenziale dei candidati indigeni: sentono che possono cambiare le cose soltanto tramite la politica. Gli Yanomami, che sono uno dei popoli più organizzati, sono riusciti ad ottenere la demarcazione delle loro terre, anche grazie a un italiano, Carlo Zacquini appunto, e a una fotografa, Claudia Andujar, che ha sposato la loro causa, li ritrae da mezzo secolo ed è diventata una delle loro leader. A dimostrazione che il racconto partecipa ai processi di resistenza e cambiamento. Penso a Norman Lewis e al suo reportage apparso sul “Sunday Times” nel 1969, intitolato Genocidio. Fu a partire da quel reportage che nacque Survival International, la ONG che tutela giuridicamente i popoli indigeni, con la quale siamo stati in contatto durante questi anni e che ci ha dato supporto per i reportage in Amazzonia. Posso definirmi tranquillamente un militante della causa dei popoli indigeni dell’Amazzonia, e questo spiega il perché abbia scelto una linea narrativa non rinunciataria. Nel libro si è privilegiato il racconto di chi resiste, di chi sta lottando adesso e di chi ha combattuto prima di loro.

Come esergo del libro c’è la citazione di Davi Kopenawa, leader e portavoce del popolo Yamomami: “Se la mia gente sarà sterminata, dovrete distruggere tutte le nostre fotografie, perché le future generazioni, guardando quelle immagini, si vergognerebbero di un simile crimine contro l’umanità”. Quanto pesa la parola vergogna?

I popoli indigeni hanno subito violenze inaudite. Durante la dittatura militare, dagli elicotteri gettavano cibo con l’arsenico. Gli indigeni venivano uccisi nei loro villaggi. La parola vergogna è severa e giusta, è ciò che dovrebbero provare le grandi multinazionali che vanno in Amazzonia a caccia delle sue ultime risorse, soprattutto americane – ma ce ne sono anche di italiane –, che importano tantissima carne. Ciascuno, nel suo piccolo, dovrebbe provare vergogna per quello che è accaduto e per quello che sta accadendo.

Nella tua esperienza, anche giornalistica, incontrando i responsabili, hai mai visto la vergogna sul loro volto?

No. Considera che c’è la presenza di un preconcetto etnico: l’idea, presente anche tra i brasiliani, che gli indigeni siano persone inferiori. Lo racconto nel libro, nell’ultimo capitolo quando scrivo dell’incontro con i Nukak. Faccio colazione in un locale di San José e ci sono dei bambini nukak che mi chiedono da mangiare. Prendo del pane, glielo do, e mi si avvicina una vecchia che mi dice: “Non mi sta bene che questi vanno nei locali a chiedere l’elemosina. Gli indigeni sono come animali, non sono come noi, sono come bestie”. È quello che pensa la maggior parte delle persone.

“Ora i grandi palazzi di Manaus sono silhouette altissime in lontananza, e la vegetazione verdeggiante incornicia le sponde del fiume. Grandi nuvole si alzano nel cielo aperto, in uno spazio di natura immenso. Siamo già in un altro tempo, quello sospeso dell’avventura e del sogno”. Cos’è che può essere vissuto soltanto in Amazzonia?

Qualcosa di selvaggio sempre in agguato. E la relazione costante con la morte, che da noi è stata totalmente rimossa. Per gli indigeni la morte è in ogni secondo della vita, proprio perché la si rischia in continuazione, con gli animali feroci così come per la presenza di una violenza sociale molto forte. Manaus conta 1400 omicidi all’anno. Senza dimenticare il Covid: in Brasile ne sono morti in settecentomila. Manaus è stata falcidiata. E un mondo molto più complicato, e più lento.

Viaggiare stanca. Voli interni, torpedoni, fuoristrada. Afa assoluta e birre gelate. La tua scrittura non ha nulla di tour-operistico, di patinato, di ammiccante. Fa sentire come la fatica faccia parte del viaggio. Scrivi: “In genere per me questo è il momento migliore: quando è mattino presto, ti sei lavato, sbarbato e vestito, hai controllato penne, taccuini, macchina fotografica, zaino e stai per partire. Lì il desiderio e la curiosità sono al massimo”. Come pure: “L’unica cosa che non posso trascurare del tutto è la scrittura: se passa troppo tempo dalle esperienze vissute, il ricordo diventa sbiadito, a volte addirittura sparisce”.

Per un reporter il viaggio è una necessità. È il momento della scoperta. Molto bella la frase di Kapuściński: Solo in viaggio un reporter si sente se stesso e a casa propria. È vero. Nel viaggio si vive in un altro tempo, più ricco, che dura di più, più impegnativo, difficile. Per esempio, quando ero al Parco nazionale Jau: talmente bello ma di un bello sempre identico e dopo un po’ ti ritrovi in uno spaesamento, in una dimensione labirintica. Con una barchetta entrammo sotto la foresta, tra gli alberi piantati nell’acqua piena di riverberi, sopra le nostre teste centinaia di scimpanzè che saltellavano, una situazione veramente onirica. E mi chiedevo: come si può raccontare tutta questa bellezza? Io scrivo a mano, sui taccuini, fisso subito l’attimo perché voglio conservare la percezione primaria. Già un attimo dopo la memoria comincia a inventare, e il giorno dopo quella cosa che hai visto non è più la stessa. Siccome sono fedele alla scrittura dal vero voglio il più possibile avvicinarmi alla sensazione prodotta dall’esperienza. Ed è una lotta tante volte proprio contro la stanchezza, però non bisogna cedere: quello che non si scrive va perduto.

Capovolgendo García Márquez, raccontare per viverla?

Vivere e scrivere sono vasi comunicanti. Per me si tratta di dare un racconto vivente. Un qualcosa di diametralmente opposto alla finzione letteraria che non ho mai particolarmente amato, che fa da controcanto a una società sempre più finzionale e mediatica. Mi sono convinto a scrivere così una ventina d’anni fa. Leggevo la rivista Linea d’ombra il cui slogan era una frase di Salman Rushdie: “I politici, i media, coloro che creano le opinioni inventano storie. Allora è dovere dello scrittore di finzioni cominciare a dire la verità”. La mia scelta fu dettata in parte dal ragionamento e in parte dall’istinto. È che sono un nostalgico dell’oralità. Vengo dal mondo contadino, dove le storie si raccontavano a voce. Vorrei raccontarle a voce anche io, ma ormai viviamo in un mondo che non lo permette più, e sono costretto a scriverle. L’oralità provo a portarla nella scrittura, la sua naturalezza, la sua necessità.

Viaggio sul fiume mondo ha vinto un premio, Pagine della terra, rifiutato: il main sponsor era l’ENI, multinazionale provetta nel greenwashing. Quanto è importante la coerenza di chi scrive rispetto a quanto scrive?

È importantissima. Se la negassi negherei tutta la mia storia. L’onesta, la bontà, sono questi i valori con cui ho voluto costruire la mia biografia. Oltre a essere una persona che scrive, un intellettuale, sono un cittadino che sente forte la sua responsabilità civile. Chi la tradisce sta tradendo principalmente sé stesso.

Scrivi verso il finale: “Lascio anche la monumentale Recherche di Proust, di cui non ho letto neanche un rigo”. La leggerai mai? Lo chiedo perché il tuo libro e quello di Proust si toccano nel loro tentativo comune, ciascuno con le sue scelte testuali strategiche, di portare in salvo un mondo che sta sparendo. Una certa idea della nobiltà, nel caso di Proust. I popoli custodi nel caso del Viaggio sul fiume mondo.

Il libro di Proust era un portafortuna, un talismano. Con me avevo portato solo due libri: quello di Proust e Cuore di tenebra di Conrad, riletto durante il viaggio. Amo molto i romanzi di avventura: Verne, Stevenson, Jack London, e dentro di me c’era l’intenzione di creare una cornice letteraria per il libro, poi, come s’è detto, sono stato fagocitato dalla realtà che è stata abbastanza stupefacente per valere da sé come una storia d’avventura, ma certo le letture che mi porto dietro hanno fatto la loro parte. Questo per dire che inevitabilmente un reportage ha degli aspetti di finzione, che riguardano la lingua, il ritmo, la qualità dei dialoghi, e il montaggio complessivo del testo.

La struttura del libro, la disposizione dei capitoli, racconta un viaggio non lineare, rappresenta uno spostarsi in avanti e all’indietro nel tempo e nello spazio, come a voler chiarire che non esiste un modo definitivo, esaustivo, per raccontare l’Amazzonia.

È volutamente un racconto parziale, di quello che sono riuscito a percepire in un ampio arco di tempo. Raccontare un posto per me è un po’ come commettere una violazione di domicilio: come posso permettermi di parlare della casa d’altri? Un antropologo ha dalla sua un armamentario scientifico che gli consente di fare dichiarazioni profonde sul popolo che studia. Un narratore scrive quello che non sa spiegare.

Nell’esperienza che ne hai fatto, i popoli e le culture di cui racconti come raccontano sé stesse? La preoccupazione di tenere traccia, di non lasciare sparire le cose, è universale o è un tratto della nostra idea di civiltà?

Forse è stato Lévi-Strauss a dire che l’unico merito degli occidentali rispetto ai popoli indigeni è stato quello di averli raccontati. La loro è una cultura orale che rischia di perdere i propri patrimoni, ma le cose stanno cambiando anche da questo punto di vista. L’Istituto Socioambientale opera molto in Brasile e lavora alla conservazione delle culture indigene. I popoli più forti hanno curato delle pubblicazioni sulla loro storia. Si stanno ponendo il problema soprattutto di salvare la propria lingua e le proprie tradizioni. Tanto è già andato perduto. Durante il viaggio abbiamo incontrato un popolo di pescatori a cui abbiamo chiesto quale fosse la loro cultura profonda: ci portarono in una baracca dove c’era una santa italiana. Parliamo di luoghi dove i salesiani hanno fatto tabula rasa delle culture locali. È stato angosciante. “Ci si vede in faccia che siamo indigeni”, la mettono così.

Scrivere di loro è una forma di riscatto dalla vergogna per tutto quello che gli abbiamo distrutto?

Ho scritto un libro che parla soprattutto a noi, italiani, occidentali. Ho voluto raccontare le storie dei popoli indigeni perché mi hanno toccato profondamente. Sono popoli spesso totalmente inermi che non hanno la capacità né di difendersi né di raccontarsi. È stato un racconto necessario, secondo me. Una piccola forma di risarcimento. Io mi sono occupato tanto anche di storie del lavoro e una volta ero a casa di un uomo vittima di mobbing, in Abruzzo. Una persona devastata, che dopo essersi licenziata aveva tentato il suicidio. C’era anche sua moglie, che a un tratto in lacrime ha detto al marito: “Hai visto? Lo sapevo che un giorno qualcuno avrebbe raccontato la nostra storia!”. Mi colpì. Raccontare una storia non significa poterne cambiare le sorti. Le offre però un risarcimento morale. Dandole forma le dà diritto di esistenza.

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