Il rischio déjà-vu con i film del regista di Grand Budapest Hotel negli ultimi anni si è trasformato in certezza, e il suo nuovo film appena presentato a Cannes e dal 29 al cinema non fa eccezione.
Basta la prima inquadratura de La Trama Fenicia per capire che siamo davanti a (l’ennesimo) film di Wes Anderson. L’estetica raffinata studiata nei dettagli, le simmetrie e la palette cromatiche, gli outfit impeccabili (c’è la mano della costumista italiana premio Oscar Milena Canonero), il cast corale stellare, i mobili vintage, l’ironia surreale che pervade la storia, insomma ormai conosciamo a menadito il cinema di Anderson. Il problema è esattamente questo: e se ne fossimo saturi? Ogni nuovo film si rivela da anni molto, troppo simile ai precedenti, lasciando a chi guarda la sensazione di essere sempre davanti allo stesso film.
Il nuovo La Trama Fenicia, in concorso a Cannes e dal 29 maggio al cinema, non fa eccezione e non esce neanche di poco dagli schemi. Occhio alle scatole di scarpe, fondamentali in quest’opera che ha per protagonista il buffo tycoon Anatole Zsa-zsa Korda, interpretato da Benicio del Toro, l’uomo più ricco di Europa negli anni 50, intento a sopravvivere ai mille attentati orditi contro di lui (un po’ alla Pattinson di Mickey 17, per intenderci). Le musiche di Desplat incorniciano scene clou come i disastri aerei, messi in scena sempre secondo l’inconfondibile stile narrativo di Anderson, intriso di umorismo.
I titoli di testa arrivano mentre Del Toro fa il bagno in vasca, con un libro, un uovo e un bicchiere di vino. Scopriremo a breve che ha nove figli che tratta duramente, ma la sua preferita a cui lasciare l’eredità è l’unica figlia femmina che non vede da sei anni, aspirante suora e fumatrice di pipa (Mia Threapleton). È sul rapporto padre figlia che vorrebbe incentrarsi la storia, attraversata dal personaggio chiave del tutore super nerd imprevedibile ed esperto di insetti interpretato da Michael Cera, che ruba la scena agli altri e strappa più di un sorriso. Cosi come fa simpatia l’Al di là secondo Wes Anderson, con Willem Dafoe mattatore. Ma il cast di Anderson è sempre ricco di nomi altisonanti in piccoli ruoli, qui si va da Scarlett Johansson a Bill Murray, da Bryan Cranston a Riz Ahmed, da Jeffrey Wright a Charlotte Gainsbourg, passando per Benedict Cumberbatch versione villain pronto a battersi con qualsiasi cosa gli capiti a tiro, lampadari compresi.
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Detto questo, potremmo benissimo essere ancora dentro Grand Budapest Hotel o The French Dispatch, non cambierebbe granché. La trama (fenicia e non) sembra ormai solo un pretesto per sfoggiare l’ennesima opera esteticamente impeccabile ma, spiace ammetterlo, senz’anima. Vale la pena arrivare al finale per vedere che fine fanno i sogni, e i soldi, se i piani – anche quelli di un miliardario – dovessero fallire miseramente. A quel punto, tolte maschere e orpelli, non restano che le persone, con la loro deliziosa e assurda unicità.