L’impressione agghiacciante è che quello che si è visto ieri in senato è stato uno spettacolo che ha mostrato l’incredibile mediocrità della nostra classe politica, quella che abbiamo votato, quella che ci rappresenta. A un certo punto nemmeno il gusto del trash, dell’esibizione della rissa verbale da bar, è riuscita a essere più appassionante, l’odore del sangue si è velocemente rappreso, e ci ha consegnato una noia di retoriche così viete, sgrammaticate, usurate, da farci venir voglia non di cambiare governo, paese, politica, ma semplicemente canale.

Il discorso di Giuseppe Conte lì per lì è sembrato a tutti una boccata d’aria semplicemente perché era un discorso ordinato, preparato almeno, e ribadiva l’ovvio valore delle istituzioni di fronte a un bullo che per un anno e mezzo ha fatto il buono e cattivo tempo senza alcun argine politico, parlamentare, sociale; perché gli è stato permesso di farlo. Era la reprimenda che ognuno di noi voleva che qualcuno facesse, “a brigante brigante e mezzo” sento dire con un’espressione per me sgradevole da quando faccio politica, quaranta minuti che umiliassero in diretta per una volta l’arrogante che si permette di esibire faccette persino mentre qualcun altro lo sta riportando al principio di realtà dei suoi doveri platealmente mancati.
Quello di Conte è stato soltanto un mero sfogo, con le vesti certo non guadagnate per meriti del massimo rappresentante del governo, che avrebbe potuto in un anno e mezzo opporsi al degrado istituzionale evitando di essere l’utile idiota, la foglia di fico, il palo, o il complice consapevole; basta solo l’esempio per cui in questi quattordici mesi sono passati due decreti sicurezza che hanno svilito, infangato in modo orribile quello stato di diritto di cui ieri Conte si è erto a strenuo baluardo. La vergogna di quelle due leggi è ancora lì, con tutte le conseguenze, alla faccia di ogni dichiarazione da avvocato degli italiani.
Il resto del suo discorso è stato una misera rivendicazione dell’azione di governo, e dei progetti futuri, una retorica micronazionalista modulata sui “piccoli borghi e il folklore”, “dei nostri ragazzi che partono”, una visione delle questioni politiche così priva di un reale senso di responsabilità di cui lui stesso ha chiamato al saccheggio (“sarà un anno bellissimo”), né tantomeno delle ambizioni e delle sfide politiche che ci sono oggi da affrontare, e prima da comprendere. Docente di materie giuridiche, ha inscenato un discorsetto da piccolo barone universitario, inanellando una serie di citazioni pseudocolte per concedersi uno status da parvenu a colpi di belle parole. Habermas per dire che “è un tempo di passaggi” (poteva averlo detto anche Liedholm), Federico II per rispondere alla cultura del sovranismo e affermare che il sovrano deve avere la fiducia dei sudditi (poteva stare in bocca anche a Trump o a Vlad l’impalatore).
Non una parola sull’infamia di una crisi di governo gestita come un domino cinico in contemporanea alla crisi dell’Open Arms e della Ocean Viking. Non una parola sulla crisi della cultura istituzionale – questa sì, perpetrata, un cattivo esempio che resterà – che questa crisi dei migranti a agosto ha messo in evidenza, con una serie di avvocati e magistrati che con l’azione penale hanno dovuto supplire e contrastare la serie infinita di mancanze e infamie politiche.

Il discorso di Salvini è stato quello che è. Come si è visto più volte, senza i due cordoni sanitari delle telecamere e della polizia, Salvini è un ragazzone goffo che sbraita, che ringhia di essere una vittima. Ieri con la telecamera fissa che non poteva usare a proprio uso, una claque ridotta ai suoi leghisti ancora parzialmente incantati, il suo eloquio che mischia aggressività a passivo-aggressività era non solo rivoltante come al solito e più del solito, ma terribilmente noioso, inceppato, solo un affanno.
L’epifania della mediocrità assoluta del personaggio che si è costruito (la maschera ghignante era l’unica cosa che copriva l’inettitudine brutale di un politico incompetente, fannullone, confusionario, privo di cultura istituzionale e politica, privo proprio di quel buonsenso che rivendica come proprio oriente morale) ha gettato un fascio di luce accecante sulla viltà e la scarsezza oltre della classe politica per intero, anche dei contropoteri come quello dei giornalisti.
È possibile che la più dura interrogazione sulla Russia se la sia potuta permettere solo Conte nel cauda venenum del suo governo? Le infinite interviste e conferenze stampa che Salvini ha fatto in questi lunghi mesi – da febbraio in poi, da quando l’inchiesta di Giovanni Tizian e Stefano Vergine è stata pubblicata – sono state prese come verbo colato dalla maggior parte della classe giornalistica italiana, le sue deliranti dirette embeddate come nulla fosse, il suo disegno eversivo salutato come anticonformismo. A quando un’ammissione seria di colpa, di chi nemmeno un mese fa gli faceva interviste sdraiate da riportare a tutta pagina dalla spiaggia adriatica? “Che pensa dell’Europa?”

Anche il discorso di Renzi sembrava oro, perché siamo abituati a attraversare solo terre di ciechi, e un mezzo guercio ci appare un profeta. Pieno di preterizioni (quante volte dovremmo sentire che quello che sta facendo non lo sta facendo non per lui ma per la nazione?, dovendo convincerci del contrario come si fa con le excusationes non petitae), il suo affondo al governo è stato debolissimo, quello nei confronti di Salvini un’esibizione di una delle specialità in cui Renzi è più portato – bastonare il cane quando affoga. Anche qui la pars costruens sull’idea di comunità, di futuro, è ridotta a un minuscolo miracolo italiano per “le famiglie e i consumatori”.

E poi: le stilettate (volgari, è tutto sempre volgare) sulla religione, i rosari, i vangeli, tra tutti sono state la parte più penosa.
Perché hanno mostrato che la cultura cristianodemocratica è davvero morta, Dossetti, La Pira, Scoppola, oggi sono pensatori non solo inutilizzati ma inservibili. Le responsabilità in questo caso sono della mediocrissima classe politica, frutti ormai marci del berlusconismo, ma anche di chi nella chiesa negli anni a cavallo tra i due secoli ha pensato che incarnare un ruolo da protagonista diretto nel dibattito pubblico o legare la cultura politica cristiana solo ai temi etici, ha ridotto il pantheon valoriale cristiano a questo: Giovanni Paolo II contro Padre Pio, cuore immacolato di Maria contro citazioni pop del vangelo di Matteo, un minestrone di santini e scaramanzie in cui è facile far valere tutto. Il dibattito parlamentare su Eluana Englaro per tenere strumentalmente unita una maggioranza è stato l’inizio di questa simonia sconfinata.

Così, dopo metà pomeriggio semifarsesco, finita la dopamina per la botta da drammatizzazione del nulla (molto, molto meno di una catarsi), la tragedia degli uomini ridicoli di questo governo e della maggior parte di questo parlamento (e la Casellati, seconda carica dello stato, inadeguata come una villeggiante durante un terremoto), si rivela intensa, definitiva, quanto una scena muta di Ibsen. Qualunque governo o governicchio verrà fuori, nuove alleanze o nuove elezioni, la sola cosa che sappiamo è quanto abissalmente povero di cultura politica è quel novero di rappresentanti che hanno avuto o avranno la responsabilità di governarci.

Citazioni a caso, retorica tardo liceale, facile cinismo e facilissimo sarcasmo, tatticismi da fantacalcio, complusione da social, viltà. L’assenza di coraggio, su questo si è basata la nostra educazione sentimentale alla politica. E in questa condizione nulla fa sperare che cambi qualcosa.

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