L’edizione numero 69 del festival di Locarno si è da poco conclusa. Anno segnato dal forte slancio verso il futuro della manifestazione, con un mandato rinnovato fino al 2020 per il direttore Carlo Chatrian, e l’arrivo nel 2017 del tanto atteso Palazzo del Cinema. Chatrian in questi primi quattro anni alla direzione ha saputo posizionare in modo perfetto il suo festival fra lo strapotere (strabordante) di Cannes e lo storico prestigio di Venezia, lavorando su una mediazione fra le esigenze del pubblico e delle istituzioni locali e la necessità di collocare il profilo artistico della manifestazione in modo molto netto rispetto ai grandi festival generalisti. Il risultato è una manifestazione che, in continuità con quanto fatto in passato ad esempio da direttori come Marco Müller, ha sfruttato a pieno le potenzialità di una struttura di programmazione che guarda al grande pubblico delle proiezioni serali della Piazza Grande ma che non rinuncia a una ricerca profonda sulle forme del cinema contemporaneo.

E così fra concorsi, retrospettive e sezioni più sperimentali, nel programma di Locarno pare rivivere quel laboratorio utopico che a inizio Novecento animava artisti e intellettuali radunatisi nel vicino Monte Verità. Il desiderio di un altro mondo possibile certo è ormai lontano ma fra le mille mediazioni che oggi vive il cinema e il suo apparato culturale ed economico è ancora possibile trovare sguardi e pratiche che non si accontentano di ciò che è dato e che sanno radunare a Locarno per alcuni intensissimi giorni almeno un paio di generazioni di cinefili globali che si spostano in Ticino proprio perché alla ricerca di stimoli e visioni. Il fatto che un festival delle proporzioni di Locarno dedichi uno spazio così consistente alla ricerca e all’innovazione è certamente il frutto di un percorso virtuoso che dice molto sull’importanza (anche strategica) di un rapporto di mutualità fra il cinema d’autore e d’intrattenimento e percorsi più arditi e sperimentali.

 

Cineasti nel presente

In mezzo a queste dinamiche che incrociano economia, politiche culturali e grandi o piccole competizioni fra festival, continua a persistere il corpo cangiante del cinema, che pur vivendo consapevolmente immerso in questa molteplicità di vettori, riesce ancora a esprimere la vitalità e le contraddizioni del presente. In questo la selezione locarnese ha saputo regalare alcuni ottimi esempi di un cinema sempre pronto a reinventare se stesso, con alcuni film collocati nel Concorso internazionale ma in particolar modo con i titoli della selezione di Cineasti del presente, opere prime (e seconde) che, insieme alla ricchissima retrospettiva monstre “Beloved and rejected” dedicata al cinema della Repubblica Federale Tedesca fra il 1949 e il 1963, sono state a nostro avviso il vero cuore pulsante di questa edizione. È qui infatti, nella porzione di programma in cui si misura il rischio di puntare su autori e forme protese verso il futuro, che il festival crea uno spazio “maggiore” per opere che altrimenti resterebbero appannaggio di festival specializzati o di settore. In Cineasti del presente l’apertura alla libertà formale e l’esplorazione di marginalità narrative e geografiche sono lo status quo e non lo scarto dalla norma. Questa attitudine ci è parso di vederla anche in alcuni dei titoli più significativi del Concorso Internazionale. Nel segno della fisicità cangiante del cinema, entità al contempo vecchia e sempre in perenne rinascita, intraprendiamo un percorso fra alcuni dei film del festival.

 

Corpo fra storia e leggenda

João Pedro Rodrigues lavorava da tempo a un film su Sant’Antonio: figura amatissima in Portogallo, alla quale aveva già dedicato lo splendido cortometraggio Manhã de Santo António, in O Ornitólogo diventa la chiave di volta per aprire al mito un film che inizia come un mélange fra Western e documentario. Fernando è un ornitologo che sta percorrendo in canoa un fiume del nord del Portogallo in cerca di una rara specie di cicogna nera. In seguito a un incidente si ritroverà a dover attraversare una foresta piena di minacce (travestite da aiuti) e di figure leggendarie. Il percorso di Fernando e la crisi profonda in cui vive all’inizio il personaggio, fatto di rime e richiami con la vita e il mito di Sant’Antonio, sono uno smaccato tradimento a ogni tipo di agiografia, in nome di una riappropriazione profonda della figura del Santo. Non c’è nulla di laico in questa paradossale biopic, quanto piuttosto il desiderio di fare della forma racconto lo strumento con il quale rielaborare e ridefinire la santità come una grande avventura morale e di rivelazione. Anche gli aspetti più palesemente trasgressivi rappresentano in realtà una forma di rispetto assoluto per il francescano morto in quel di Padova, che diventa così lo specchio nel quale il regista riflette se stesso, prolungando il proprio universo interiore, le proprie ossessioni, la propria sete di verità. Film programaticamente e giocosamente eccessivo, in cui convivono kitsch, ironia e ricerca del sublime, O Ornitólogo si è giustamente aggiudicato il premio per la miglior regia ed è certamente un punto di svolta nella carriera di uno dei più significativi registi europei contemporanei.

O’ ornitologo di João Pedro Rodrigues.

Inimi cicatrizate segna il ritorno di Radu Jude – Orso d’argento a Berlino nel 2015 per Aferim! – ed è un adattamento dell’omonimo romanzo autobiografico dello scrittore Max Blecher. E’ il 1937 e un giovane poeta e scrittore di vent’anni, chiaro doppio di Blecher, si ritrova ad affrontate un soggiorno forzato in un sanatorio sul Mar Nero. Con una messa in scena precisa ed elegante, che nella fissità del quadro 1:33 lavora su profondità, specchi, movimenti interni, Jude ferma il tempo e lo spazio lavorando su un (impossibile) equilibrio fra l’incedere scanzonato quasi da vacanza estiva del soggiorno del giovane Emanuel e la pesantezza della costrizione fisica legata alla malattia. In questa dicotomia vive anche il tempo del film, apparentemente statico ma sul quale incombe in realtà il futuro della Romania, la tragedia della seconda guerra mondiale e la morte prematura del protagonista. A puntellare il tutto un collage di citazioni, fulgide in bianco su campo nero, come brandelli di luce che scolpiscono l’oscurità. Un film letterario in realtà molto fisico (l’ossessione per i cibo, il sesso, il bisogno d’amare). Un dramma in costume originale e “consapevole” che conferma l’eccellente stato di salute della cinematografia rumena e che ha ricevuto meritatamente il Premio speciale della giuria.

Inimi Cicatrizate. 

 

Dao Khanong è l’attesa opera seconda di Anocha Suwichakornpong, ottima regista thailandese distintasi con il precedente Mundane History. Qui con un meccanismo di film nel film la regista tenta di mettere a fuoco le rivolte studentesche che scossero il paese a partire dal 1976, con la ferma volontà di farne tesoro per una nuova generazione di giovani del proprio paese che oggi si confrontano con una situazione sociale e politica molto difficile. Al centro del film c’è la narrazione e la sua possibilità, il suo valore a livello tanto testimoniale quanto intimo e personale. Di qui una struttura temporale a scatole cinesi, che moltiplica le piste e i percorsi in modo labirintico lavorando più per associazioni che per linearità. Questo è certamente un bellissimo esempio di cinema politico, che lavora sulla materia viva della Storia e della società rimettendo in discussione le possibilità della memoria e della sua narrazione. Si tratta poi anche di uno splendido racconto corale al femminile, una grande carrellata intergenerazionale che moltiplica il ruolo dell’anziana attivista da cui parte la narrazione delle rivolte nei volti e nelle storie di donne e ragazze che vivono tutte le contraddizioni della contemporaneità thailandese.

Dao Khanong di Anocha Suwichakornpong, 2016.

Corpo fra passato e futuro

Dopo un piccolo gruppo di cortometraggi che hanno riscosso un ottimo successo nel circuito dei festival, l’argentino Eduardo Williams approda a Locarno con la sua opera prima El auge del humano, certamente uno dei film più interessanti del festival. Cinema transnazionale il suo, deriva di una gioventù globale (e marginale) 2.0 dove uno schermo e una chat di Youtube possono diventare la porta magica con la quale collegare il Sud America, l’Africa, le Filippine. Sono ragazzi esclusi dai processi sociali quelli di Williams, che pur vivendo condizioni di profonda povertà non rinunciano alla possibilità di vivere piccole grandi avventure. Il gioco diventa dunque l’elemento centrale di una possibile fuga come unico atto di rivolta: Williams li segue e li pedina, ne orienta i percorsi e i tempi morti con immagini dove il confine fra pellicola e digitale low file si confonde, così come quello fra realtà e invenzione. Ma c’è una tipologia di immagine che sembra dominare questo intero sogno a tratti prischedelico: è l’HD scintillante con il quale viene filmata la fabbrica di tablet e telefonini che chiude il film. Nei meccanismi di produzione di oggetti che sanno riprendere e filmare con definizioni che superano le possibilità dell’umano, nel loro sfavillare asettico, si nasconde la trappola in cui incappa un’intera generazione di millennials, sottoproletari inconsapevoli privati di ogni forma di coscienza di classe.

El auge del umano di Eduardo Williams, 2016. 

Per The Challenge, suo primo lungometraggio, Yuri Ancarani si è spinto fino in Qatar per seguire le gare di caccia col falco, passione e per certi versi ossessione dell’aristocrazia saudita. In un contesto di ricchezza fuori scala Ancarani filma con precisione e apparente distacco la normalità di un fine settimana di svago in una delle zone più ricche del pianeta. Nel vuoto del deserto sfrecciano chopper placcati d’oro e auto di grossa cilindrata con leopardi seduti al posto del passeggero in un cortocircuito fra tradizione e visioni da estremo occidente. “It’s normal” è il concetto espresso dai sauditi quando il pubblico sembra sbigottito di fronte a quelli che all’occidentale comune paiono eccessi usciti da un video clip hip hop. Anche questo è un pezzo di realtà, che nel suo essere a queste latitudini la norma nasconde molti dei paradossi della contemporaneità. L’animalità e la fisicità istintiva del falco nella sua gara contro picconi velocissimi e spesso imprendibili – costretto nella gara ma libero nel volo, libero di riuscire come di fallire – sembra essere l’unico spazio di azzardo e di incertezza in un mondo che porta alle estreme conseguenze la propria ossessione per un tempo che si vuole libero ma che è ingombro (pur nel deserto) di un senso del possesso che dice molto più dell’occidente di quanto non dica di questa élite mediorientale.

The challenge.

 

Corpo fra reificazione e redenzione

Viejo Calavera di Kiro Russo è stato certamente una delle visioni più potenti e suggestive del festival. Nell’oscurità dei cunicoli della miniera di Huanuni in Bolivia va in scena il dramma di Elder, giovane alla deriva perso fra alcol e droghe, minatore suo malgrado che torna nella città dove risiede la madre dopo la morte del padre. La comunità di questi lavoratori lo accoglierà fra le proprie braccia e i propri riti. Russo gioca tutto il film sulla ricerca di piccolissimi spazi di luce dentro un nero che domina tanto la miniera quanto le notti fra le montagne. Sono corpi risucchiati dal lavoro quelli di Viejo Calavera, corpi che si stagliano nel buio e che dimenticano il dolore e la stanchezza grazie all’alcol ma che non rinunciano a rivendicare con forza il proprio essere non solo individui ma anche e soprattutto corpo sociale che pur in condizioni disumane vive ancora con fierezza la propria condizione di lavoratori.

Viejo Calavera di Kiro Russo.

È proverbiale la violenza che caratterizza molto cinema giapponese che approda nei festival e Destruction babies di Mariko Tetsuya di certo non tradisce lo schema. Ma in questa storia dolente di due fratelli abbandonati dai genitori, uno timido e introverso, l’altro agito dall’unico istinto di picchiare a sangue chiunque gli si pari di fronte, si ritrova quella urgenza politica di alcuni film di Wakamatsu Kōji. Concepire un film come una lunga interminabile rissa è certamente un’idea che ha una sua radicalità, ma in questo percorso spesso grottesco e non privo di momenti comici è possibile intravedere un abisso esistenziale che caratterizza un’intera generazione di giovani giapponesi. La violenza a mani nude priva di qualunque tipo di movente diventa così il cortocircuito con cui questi due drop out finiscono per mettere in crisi un intero sistema che di loro non si cura in nessun modo e che può solo sublimare la tensione che percorre tutta la società giapponese nei riti della tradizione. Ma questi bambini della distruzione quella violenza la palesano, lasciando che diventi l’unica loro ragione di vita, l’unica possibilità per gridare al mondo che loro sono vivi, oltre ogni possibile colpo inferto da chiunque possa incrociare il loro cammino.

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