In una delle proposizioni più note del suo Tractatus Logico-Philosophicus, la 5.6, Ludwig Wittgenstein sosteneva che “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Wittgenstein, che era celebre per l’accuratezza con cui sceglieva i modi della propria espressione linguistica, non poteva aver scelto quel verbo – “significano” – a caso, e tantomeno quel “significano” può essere interpretato, semplicemente, come un sinonimo di “sono” (il verbo “essere” è quello che di solito viene maggiormente, ed erroneamente, utilizzato nel riportare la proposizione wittgensteiniana): non si tratta, infatti, qui, di posizionarsi, per il filosofo austriaco, sul campo dell’ontologia, quanto su quello della teoria del significato.

Il problema che gli sta a cuore non è, quindi, tanto quello dell’esistenza di realtà irriducibili allo spettro linguistico, quanto quello del rapporto tra linguaggio e mondo, che viene indagato a partire dalla possibilità del primo di dare significato al secondo. Il linguaggio porta ad espressione un mondo che senza di esso sarebbe comunque lì, ma che sarebbe muto, rendendolo quindi, per noi, significativo, o meglio, significante. Questa proposizione fa il paio con quella – se possibile ancora più celebre – che conclude l’opera wittgensteiniana: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Come a dire che ci sono delle faglie esterne, delle zone di asignificanza, che il linguaggio non riesce a portare ad espressione: su quelle faglie, zone oscure, coni d’ombra non è possibile esprimersi con dei giudizi logicamente fondati, e quindi – ci dice il pensatore viennese – bisogna tacersi.

Se questo può essere vero per quel che riguarda la possibilità di esprimere proposizioni logicamente fondate, bisogna pure tener conto del fatto che, nel corso di tutta la storia della cultura, mistici, poeti e artisti di ogni genere hanno cercato, ciascuno a modo proprio, di portare ad espressione – di significare – proprio quelle zone apparentemente inaccessibili alle facoltà espressive del linguaggio (sia del linguaggio comune che di quello filosofico) di cui parlava Wittgenstein. Se nella musica, nel cinema, in alcuni dei punti più elevati della poesia e della teologia negativa si è cercato di esprimere l’inesprimibile, malgrado l’interdetto wittgensteiniano, anche il pensiero filosofico ha cercato a suo modo di avvicinare quello che apparentemente è linguisticamente insignificabile: soprattutto nel periodo tra Ottocento e Novecento abbiamo a che fare con autori che si sperimentano sia con la forma di espressione concettuale del trattato, sia con forme linguistiche altre: dagli aforismi e composizioni musicali di Nietzsche ai romanzi di Canetti ed Eco, fino ad arrivare alle pièces teatrali di Sartre e Camus, filosofi eminenti si sono confrontati con i limiti del linguaggio in quanto strumento denotativo e hanno tentato di mostrare, più che di dimostrare, le faglie esterne di quel mondo i cui confini erano stati rigidamente segnati dalla proposizione wittgensteiniana.

Un passo in avanti in questa direzione è stato fatto, negli ultimi anni, negli Stati Uniti da Eugene Thacker con la sua trilogia The Horror of Philosophy (2011-15) di cui NERO edizioni ha recentemente (2018) fatto tradurre il primo volume in italiano, con il titolo evocativo Tra le ceneri di questo pianeta (e si spera che l’operazione di diffusione del lavoro di Thacker continui con la traduzione e pubblicazione anche degli altri due volumi della trilogia, Starry Speculative Corpse del 2014 e Tentacles Longer Than Night del 2015).

C’è da dire che il libro, curiosamente, era già diventato un caso editoriale negli Stati Uniti qualche tempo dopo la sua uscita. “Curiosamente” non per la qualità del libro stesso, che è indiscutibile, quanto per il suo contenuto e i modi in cui la notorietà è venuta. Il libro non ha uno degli argomenti più user-friendly, va detto: si tratta di un libro sul nulla, sul nichilismo, sui demoni e sulla morte. Un libro che, tra l’altro, per quanto ben scritto, è anche pieno di citazioni colte e di riferimenti bibliografici (che però, inspiegabilmente, sono spariti dall’edizione italiana, così come i numeri di pagina citati in nota), e che quindi potrebbe scoraggiare il lettore non specialista.

Sembra che però il mondo angloamericano della cultura e anche della filosofia, in controtendenza rispetto alla predominanza del discorso filosofico-analitico, abbia cominciato sempre di più, negli ultimi tempi, a interessarsi ad argomenti di carattere esistenziale, e ad approcci lontani dal metodo scientifico vicino alla matematizzazione delle scienze esatte proposto proprio dagli analitici. Temi e problemi che vanno sotto le denominazioni di Radical Pessimism, Antinatalism, Dark Enlightment, così come autori quali Friedrich Nietzsche e Arthur Schopenhauer sono sempre più letti e più dibattuti oltreoceano. Quindi, il successo di Thacker nella sua nicchia filosofica di riferimento può essere ascritto a questi fattori. Ma c’è una cornice più amplia entro cui inserire questo dibattito, che coinvolge altri media e altri settori della società americana. I libri di Thacker, infatti, sarebbero impensabili senza fare almeno altri due nomi: quello dello scrittore Thomas Ligotti e dell’autore di serie televisive Nic Pizzolatto. Ligotti è forse lo scrittore americano che più di tutti ha raccolto l’eredità di H. P. Lovecraft e dei suoi racconti dell’orrore puro. Lovecraft, tra l’altro, è stato uno degli scrittori horror che più si è confrontato con i limiti del linguaggio, cercando spesso di descrivere situazioni ed entità che sfuggissero alle categorie conoscitive, linguistiche e percettive proprie dell’umano: Chtulhu, Nyarlatotep, “il colore venuto dallo spazio” e le entità inframondane del racconto breve Da Altrove (1934) sono solo alcuni tra gli esempi più riusciti di questo tentativo, non a caso cari anche allo stesso Thacker. Uno dei punti fissi di Lovecraft era quello di descrivere l’anumano e l’inumano senza ridurlo a caratteristiche antropomorfe o teriomorfe, come spesso accade quando ci si immagina esseri alieni o mostruosi: vale a dire di descrivere le frange esterne del percepibile e dell’immaginabile, nonché del descrivibile.

 

Ligotti si è posto sulla scia del grande solitario di Providence fin dal suo libro più famoso, Teatro grottesco (2007), diventando uno scrittore di culto, anche se per una nicchia ben specifica, e pubblicando di seguito un testo dal titolo La cospirazione contro la razza umana (2010) che unisce in una logica narrativa da incubo il trattato filosofico e la narrazione horror. Qui Ligotti, con una logica terribilmente semplice quanto stringente, ci dice che non esiste nessun valore intrinseco nella vita umana, che anzi siamo solo marionette stolide in preda a una cieca volontà di vivere (à la Schopenhauer), che vanno avanti solo perché non si pongono le domande fondamentali sull’esistenza. Ce le ponessimo, ne trarremmo le logiche, semplici e ineluttabili conseguenze: ossia che sarebbe meglio non esser mai nati. E che per la razza umana, la cosa migliore, sarebbe estinguersi.

A chi avesse visto la prima stagione della famosa e pluripremiata serie televisiva True Detective (HBO 2014) non sarà sfuggito che questo argomento ricorda da vicino quelli che spesso vengono portati ad espressione da Rust Cohle, il geniale detective nichilista uscito dalla penna di Nic Pizzolatto, il secondo degli autori che ho precedentemente nominato, senza di cui il successo di Thacker non sarebbe pensabile. Pizzolatto, infatti, interrogato sulle sue fonti per la creazione del personaggio di Rust ha risposto senza esitare: “Eugene Thacker”. Il successo di True Detective ha funzionato da specchio rifrattivo sia per Thacker e Ligotti, quanto pure per gli argomenti da essi trattati: il nichilismo, l’oscurità dell’esistenza, l’insopportabilità della vita. Quei territori-limite del linguaggio che non a caso sono stati portati all’attenzione del grande pubblico non tanto da un filosofo, quanto da uno scrittore (Ligotti) e da uno sceneggiatore (Pizzolatto), ossia da autori che – pur non rinunciando a comunicare contenuti profondi – hanno imparato a farlo tramite strumenti narrativi diversi rispetto alla forma classica del trattato di filosofia.

Da ultimo è stato il titolo – In the Dust of This Planet – a fare il successo del libro di Thacker: immagine affascinante ed evocativa, quella della “polvere (o cenere) di questo pianeta”, ha suscitato l’interesse anche di designer di moda, diventando un brand di successo mondializzato dal video di Jay-Z e Beyoncé “Run”, in cui il rapper americano indossa una giacca di pelle con il titolo del libro di Thacker.

Queste sono le coordinate entro cui i libri di Thacker si posizionano. Andando ad analizzare nel dettaglio la struttura del primo dei volumi della sua trilogia sull’orrore della filosofia, va innanzitutto notato come ci sia – caso ormai raro in un libro di filosofia contemporanea – una distinzione cosmologica alla base di Tra le ceneri di questo pianeta: quella tra mondo-per-noi (Mondo), mondo-in-sé (Terra) e mondo-senza-di-noi (Pianeta). Il primo è quel mondo quale “totalità di significanti” entro cui siamo inseriti, e che malgrado – sempre – in qualche modo ci “resista” è per noi comprensibile, assimilabile e (per quanto parzialmente) assimilato. Il mondo-in-sé ne è solo l’altra faccia: la faccia “inappropriabile”, vale a dire il mondo preso nella sua disumanità (che prevede la morte, il caso, la malattia, i disastri naturali, ecc.), ossia nel suo non essere riducibile a un ambiente umano. Il mondo-senza-di-noi, il Pianeta, è invece un concetto-limite, pensabile solo per astrazione o tramite modelli predittivi, che ci indicano cosa sarebbe, a livello geologico e concettuale, il pianeta Terra senza l’essere umano. È a quest’ultimo concetto che il libro è dedicato: a un pianeta senza di noi, un astro silenzioso, non toccato da piede umano, non turbato da rumori di questo mondo, vicino al concetto di sublime kantiano, ma più a quello di un sublime astratto, matematico, che a quello che viene evocato dalle classiche immagini di vulcani in eruzione e maremoti associati al termine.

Sono le indagini della teologia negativa, il cinema e la letteratura horror, la musica metal ad aver avvicinato questo concetto con strumenti non speculativi, quanto piuttosto narrativi. E sono questi generi, proprio per la loro capacità di avvicinarsi ai limiti significativi del linguaggio, a interessare Thacker.

Dopo la divisione “cosmologica” iniziale il libro è diviso in tre parti, che riprendono – in un afflato ironico tutto postmoderno – le strutture della trattatistica filosofica e teologica medievale (richiamata dalla divisione del libro in quaestiones, lectiones e disputationes) declinandole però nei campi sopra riportati. Abbiamo così un’analisi approfondita, ad esempio, sul significato di “nero” nel black metal, che indica sia il satanismo che il paganesimo, per Thacker, ma anche e soprattutto il pessimismo cosmico à la Schopenhauer, l’unica declinazione del “nero” che si emancipa da una visione “umanocentrica” (p. 25) per toccare la dimensione estranea del “Pianeta”: a chi volesse avere un assaggio di musica black metal che tocchi i limiti dell’umano, Thacker (e chi scrive) consiglia di ascoltare un pezzo come So, Black is Myself di Keiji Haino. Le analisi di Thacker continuano toccando dei concetti-limite quali quello di demone, ad esempio, la cui definizione mette in crisi la dicotomia classica tra uno e molti (i demoni sono sempre molti, ma si danno sempre in manifestazioni singole) con cui siamo abituati a categorizzare il mondo-per-noi, e di conseguenza il sottile – ma imprescindibile – confine tra essere e nulla.

Tramite la demonologia – che Thacker declina in “demontologia” – possiamo porci la domanda cruciale al fine di comprendere il concetto di “Pianeta”: «come si può ripensare il mondo in quanto impensabile, sarebbe a dire in assenza di un punto di vista umanocentrico, e senza troppo dipendere dalla metafisica dell’essere?» (p. 58). La “filosofia occulta” di Agrippa da Nettesheim, il diavolo e i cerchi demonologici nella storia della cultura medievale e rinascimentale, Blob, le nebbie di Stephen King, entità vischiose e mostruose di B-Movies quali Caltiki il mostro immortale (1959) del nostro Mario Bava, manga, mostri gotici, i racconti di Lovecraft funzionano da esempio e struttura narrativa per le analisi filosofiche di Thacker. Questi, pur non disdegnando, come visto, i riferimenti all’immaginario pop né l’uso di immagini nel suo libro, non fa, però, neanche concessioni al rigore argomentativo nell’analisi di queste sue fonti e riferimenti, come pure non disdegna l’analisi di temi filosofici più “classici” (come dimostra l’excursus sulla teologia politica del filosofo e giurista tedesco Carl Schmitt riportato alle pp. 108-111).  La terza parte del libro è costituita da nove saggetti (disputationes) che si pongono la semplice, ma angosciante questione: «cosa accadrebbe “se l’orrore” riguardasse meno la paura della morte che l’angoscia della vita?» (p. 113), ed è il tentativo di applicare l’idea di estraneità radicale che il concetto di Pianeta veicola a ciò che dovrebbe esserci più vicino: la nostra vita.

Tramite l’analisi di forme-limite della vita (dalla salma al mostruoso essere né vivo né morto del racconto “antartico” di Lovecraft Le montagne della follia, lo Shoggoth, per arrivare al corpo glorioso della teologia dei Padri cappadoci dei primi secoli del Cristianesimo e agli zombie) Thacker arriva infine a porsi in maniera esplicita la domanda che serpeggia per tutto il suo libro: come pensare l’uomo a partire dalla sua fine, l’umano e insieme la sua (ormai neppure troppo inverosimile) estinzione? Come immaginare la “vita come non-essere” (pp. 145-147)? Alla fine delle sue analisi Thacker cerca di porre – da una prospettiva innovativa, come quella sviluppata fino a questo punto – la questione del cambiamento climatico, ossia dell’uomo come attore principale dei cambiamenti nella biosfera: in una parola di tutto quello che al giorno d’oggi viene chiamato “Antropocene”.

Senza voler rivelare al lettore interessato ulteriori dettagli (né tantomeno le conclusioni) di un libro denso, ma godibile, a metà tra lo studio di letteratura, di filosofia e di mediologia, credo valga la pena concludere queste riflessioni sull’idea forse più coraggiosa di Thacker, “coraggiosa” perché unisce una Stimmung tutta contemporanea a un tema ormai considerato polveroso nel nostro mondo postmoderno, ossia quello della vita spirituale: il filosofo americano conclude il suo lavoro, infatti, con delle riflessioni profonde sull’idea di un “misticismo inumano”, al di là di ogni orizzonte teologico e teleologico. L’ambasciata per un misticismo “inumano” o “planetario”, le cui coordinate lasciamo al lettore il piacere di scoprire, è forse il messaggio più potente del libro di Thacker: un concetto, quello di “misticismo” (inumano), che vale la pena di pensare in tutta la sua portata, mentre si continua a vivere in the dust of this planet.

Eugene Thacker, Tra le ceneri di questo pianeta. L’orrore della filosofia, la filosofia dell’orrore (Nero, 2018).

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