L’ultimo frammento di Joseph Roth
La letteratura, come la vita, è fatta di premesse che non sempre hanno uno svolgimento riuscito. E, a meno di capolavori, quasi mai condivisibile da altri che non siano gli autori. Per cui, questa premessa vale a livello individuale ma è doverosa: Joseph Roth è il più grande di tutti. Non Philip, che pure è immenso. Joseph. Il più grande. Punto. Svolgimento. Anche se bisogna diffidare sempre di chi dice “ho appena riletto”, “sto rileggendo in questi giorni”, “mi è capitato di rileggere”, uno vorrebbe davvero avere il tempo di rileggere tutto Joseph Roth. Non si può vivere senza Fuga senza fine, non si può dire di conoscere l’animo umano se non si è condiviso il destino del tenente Tunda, uomo in caduta come il mondo che gli cadeva intorno. Allora l’impero austroungarico, oggi e sempre il nostro universo instabile. Nessuno può avere l’ambizione di parlare del proprio tempo né credere che esista una filosofia della storia se non ha attraversato La marcia di Radetsky.
Nel frattempo Adelphi pubblica un libricino che raccoglie due frammenti che avrebbero dovuto essere una cosa più grande. Ma Roth non riuscì a portarla a termine. Il primo è la storia di un borghese piccolo piccolo, una specie di zelig, un moderato che, come tutti i moderati non lo è in quanto saggio ma semplicemente in quanto sazio. Un piccolo affresco di umanità misera quanto posticcia. Il secondo è più inquietante. Si intitola Fragole, come il libro ed è l’inizio di un romanzo autobiografico che, parola di Roth, sarebbe dovuto diventare il suo lavoro più importante. Si comincia con un’inquadratura dall’alto di un piccolo paese, un figlio pieno di fratelli senza una madre e un padre che sarebbe meglio non ci fosse stato. Si prosegue parlando tra l’altro delle fragole che mangiavano i bambini. Passaggio che dà l’idea della grandezza di Roth, quelle luci che dissemina nella penombra del suo raccontare: “Qui crescevano le fragole più belle. Non si nascondevano modeste, come fanno di solito per natura. Si paravano davanti ai cercatori. Tremolavano su gambi esili ma forti. Erano carnose e se venivano su così basse non era umiltà, ma orgoglio. Bisognava chinarsi per raggiungerle. Per cogliere mele, ciliegie e pere bisogna allungarsi e arrampicarsi”.
Purtroppo il romanzo va avanti solo poche pagine, ma fa in tempo a farsi strada l’inizio del viaggio del protagonista verso un riscatto lontano viste le premesse. Sarebbe stato il solito romanzo di formazione alla Roth, formazione senza troppe illusioni sull’uomo. Come scrive nel racconto prima: “E certamente non è la virtù la guida più fidata di un uomo. L’intero edificio della moralità, costruito con arte e fatica, crolla in una sola ora. Stupisce soltanto la facilità con cui riesce a rimettersi in sesto e risorgere”.

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