Abbiamo visto “ L’uomo nero “ regia di Sergio Rubini.
Dopo aver viaggiato cinematograficamente per due mesi, dagli Stati Uniti alla Romania, dalla Svezia all’Iran, siamo tornati in Italia con la convinzione di incontrare quel senso di inadeguatezza che contraddistingue il nostro Cinema come il nostro Paese. Siamo andati a vedere “ L’uomo nero “ sapendo di trovare un cast tecnico tra i migliori; uno sceneggiatore tra più conosciuti come Domenico Starnone, un ottimo direttore della fotografia, Fabio Cianchetti, i costumi di Maurizio Millenotti, le musiche di Nicola Piovani. E un regista “ provinciale “ e semplice nelle intenzioni ma anche sincero e generoso. Come onesto e attrezzato è il cast artistico formato dallo stesso Rubini, bravo e maturo, come Valeria Golino ( utilizzata in un ruolo senza spessore ), Riccardo Scamarcio ( bravo nel ruolo di zio Pinuccio ), Fabrizio Gifuni ( un ottimo attore che in questo film ha un ruolo marginale e nessuna scena che richieda un’interpretazione ), Maurizio Micheli ( in un ruolo di contorno ma che dimostra che nel cinema italiano ci sono ottimi comprimari ), Mario Maranzana ( grande attore teatrale, che ci ricorda col suo ruolo la bravura di Michel Bouquet ), Anna Falchi ( una credibile “ signora bonazza “ di provincia ), la partecipazione amichevole e solare di Margherita Buy e un cast “ minore “ efficace e credibile. E il bambino di sette anni ( Guido Giaquinto ) che da un’interpretazione stranita e non sempre empatica.
Siamo andati a vedere questo film dopo aver ascoltato Rubini che tra l’altro ha detto “ Non volevo cadere nel bozzettismo e, allo stesso tempo, avevo paura di esagerare con una trama troppo complessa. E mi sono chiesto: se voglio frugare dentro me stesso, tornare alle radici, che cosa racconto? La provincia, che conosco bene. Sì, la provincia, la mia Puglia, mio padre e i miei ricordi di bambino ma conscio che quando fai autobiografismo inizi a mentire spudoratamente. Ecco, questo film è dunque una sincera menzogna “. Insomma stesso nelle intenzioni un film riuscito a metà. Senza il coraggio di osare o innovare. Si cerca di raccontare ambienti e atmosfere della memoria infantile, del nostro passato prossimo ( a proposito ma gli anni Sessanta dove sono ? Dov’è, anche solo da sfondo, la voglia di cambiamento ? ) ma non si ha lo spessore di un Amarcord né il coraggio di un Cinema Paradiso. E si rimane a mezza strada, come a mezza strada restano i personaggi, e il colpo di scena finale non può recuperare tutte le attese non mantenute. E la nostra paura infantile dell’uomo nero ( idea tenera e sincera ) non può rivelarsi quella del nostro padre egoista e un po’ infantile.
Il film inizia ai nostri giorni. Gabriele Rossetti, scienziato famoso che vive in Francia, ritorna dopo anni al suo paese, suo padre è ricoverato in ospedale in fin di vita. Giunge giusto in tempo al capezzale dell’uomo per sentirgli dire “… due stronzi… “ ( probabilmente ricorda ancora l’avvocato e il critico d’arte del paese che tanto hanno rovinato la sua vita ). Mentre organizza il funerale, Gabriele ricorda la sua infanzia e la vita dei genitori: il padre, capostazione ossessionato dalla pittura e dal suo mito Cézanne; la madre, insegnante di lettere e casalinga, paziente e remissiva come erano le donne del sud degli anni Sessanta. Gabriele cresce serenamente osservando le manie degli adulti ed ha come ‘padre’ lo zio Pinuccio, uno scapolone simpatico e fregnone che vive in casa e che gli dà insegnamenti sulle donne e sul sesso. Col padre ha un rapporto più ostico giacchè a lui, il genitore, preferisce le tele, mentre la madre gli parla delle conversazioni che ha con i cari defunti. Gabriele vive la sua fanciullezza e subisce apparentemente in modo apatico le frustrazioni artistiche del padre umiliate da un critico d’arte locale presuntuoso e trombone. L’unica vera avventura del bambino sono I viaggi col genitore verso Bari, lungo questi binari la sua vita chiarisce e riconosce padre e uomo nero ( L’uomo della locomotiva ) per quello che sono e non per quello che fino ad allora aveva creduto che fossero.
Il film termina col funerale e con lo svelamento dell’imbroglio fatto dal padre con un quadro di Cezanne per punire il critico trombone. Molto tenera e commovente la scena finale, quando Gabriele “ rivede “ il padre e di lontano la madre che gli sorride felice.
Questo è un altro film italiano ( come Bàaria,, come Il Grande Sogno, come Il Cosmonauta ) che si potrebbe definire “ con le migliori intenzioni “. Ma che purtroppo sono la manifesta condizione del cinema italiano di oggi.

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