«Il bosco gibboso degli amanti e dei conigli» evoca qualcosa di mitico.  Ci porta dritti a Llareggub, che forse è una cittadina gallese sul mare, ma è anche, se letta al contrario, un bugger all, espressione slang per esclamare in modo volgare un «nient’affatto» o «un c…!», sicuramente è uno dei più importanti luoghi fantastici nella mappa della letteratura novecentesca. All’ombra di questo bosco il mondo si ribalta: gli strambi appaiono sani di mente, i sogni indossano gli abiti della realtà e Capitan Gatto, uomo di mare, ormai cieco e addormentato nella cuccetta di una cabina, ci vede benissimo. Anche il giovane Robert Zimmerman, di fronte alla poesia di Dylan Thomas, rimase letteralmente stregato, tanto da presentarsi al suo pubblico, nel circuito di musica folk di Dinkytown, col nuovo nome di “Bob Dylan”.

Pubblicato da Einaudi, nella “Collezione di teatro”, è uscito da pochi mesi l’ultimo capolavoro di Dylan Thomas, Under Milk Wood con l’ottima traduzione di Enrico Testa, che segue la brillante, ma certo più datata, versione dell’anglista Carlo Izzo (edita da Guanda nel 1992, ma la traduzione è di una quarantina di anni precedente). La nuova traduzione di Testa è anche l’occasione per aggiornare il testo di Thomas alla versione considerata definitiva dai filologi inglesi, uscita nel 1995, che tiene conto degli ultimi manoscritti del poeta, oltre alle parziali apparizioni su rivista. Insomma, il testo presenta alcune novità, a partire dal titolo, adesso Milk Wood («preferiamo adottare per la nostra versione questo titolo in quanto il testo è incentrato su un toponimo che, seppur immaginario, non va, come tutti i nomi di luogo, tradotto»), da sempre problematico per i traduttori. La lingua nel complesso si presenta, nella traduzione, meno purgata dai doppi sensi e dai numerosi termini e riferimenti sessuali. E infine si restituisce anche con maestria metrica la molteplicità dei generi, come precisamente indicati nella prefazione di Testa, contenuti nell’opera di Thomas: filastrocche infantili, preghiere, canzoni, dialoghi fortemente ritmici, fino alla ironica e pietosa sticomitia, secondo la terminologia dell’antica Grecia, cioè quando due o più personaggi recitano una battuta ciascuno creando un unico discorso.

Milk Wood non è solo uno straordinario testo poetico (fu all’inizio pubblicato in alcune sue parti su rivista) o una forma drammatica simile a un oratorio laico (veniva recitato dallo stesso Thomas di fronte al pubblico, la prima a New York, pochi mesi avanti la sua scomparsa). Milk Wood è un vero e proprio radiodramma (o radio play, radio feature), perché è pensato espressamente per la messa in onda e soprattutto perché è un’opera che esalta le qualità specifiche della radio, cioè dell’ascolto. La lingua immaginifica di Thomas sembra il filo vibrante di uno strumento che la radio, come cassa armonica, fa risuonare in tutte le sue ricche onomatopee e allitterazioni. Ma non basta. Thomas utilizza forme, temi e soluzioni che si prestano perfettamente alla radio e sono riconducibili a un genere che, in Inghilterra, nel 1954, ha già trent’anni di storia.

Perciò quando l’opera fu presentata a Firenze, in occasione del più importante premio internazionale dedicato all’arte radiofonica, il Prix Italia 1954 – Thomas era scomparso da pochi mesi – la giuria internazionale rimase profondamente colpita e gli conferì il primo premio. «Vince Sotto la selva lattea», titolarono i giornali. Il salone dei Duecento in Palazzo Vecchio, gremito di autorità, tra cui anche il sindaco Giorgio La Pira, intellettuali e artisti internazionali, rivolse così il doveroso tributo di riconoscenza al poeta gallese che tra l’altro, nel 1947, aveva trascorso alcuni mesi proprio a Firenze, lasciando ricordi indelebili negli amici poeti del caffè “Giubbe Rosse” (Luigi Berti, Piero Bigongiari, Mario Luzi…), sbalorditi dalla sua vitalità lirica, dall’alcolica disperazione e dalla splendida capacità di leggere i versi poetici.

 

 

D’altronde Thomas aveva con la BBC rapporti continuativi e solidi che risalivano addirittura al 1932, quando aveva partecipato a una competizione letteraria, arrivando la sua poesia fra le prime trenta su undicimila giunte in redazione. Dagli anni Quaranta la collaborazione si era fatta intensa, con letture di poesie, conversazioni radiofoniche e anche qualche parte da attore, grazie pure alla sua «voce d’organo», come scrisse Louis MacNeice, altro poeta protagonista della produzione radiofonica inglese di quegli anni. Quite Early in the Morning (pubblicato da Einaudi nel 1964, Molto presto di mattina) raccoglie le sue conversazioni radiofoniche, che sono esemplari nella capacità di ricercare un’assoluta accessibilità comunicativa, senza rinunciare alla potenza verbale di un conversare tramutatosi all’improvviso in prosa poetica («un poeta è poeta soltanto per una minuscola parte della sua vita; per il resto è un essere umano, e uno dei suoi doveri è di conoscere e di sentire quanto più è possibile tutto ciò che si muove intorno e dentro di lui, così che la sua poesia possa essere il tentativo d’esprimere il culmine dell’esperienza umana in questa nostra strana terra che, in questo 1946, ha tutta l’aria di voler andare all’inferno»).

Milk Wood inizia nel silenzio di una notte di primavera senza stelle e senza luna, così nera da far spavento, mentre i bambini e i pensionati, il postino, l’oste, l’ubriacone, l’impresario delle pompe funebri, la prostituta dormono un sonno pesante. Gli occhi sono chiusi, le case sono cieche e cieco è anche Capitan Gatto. Il narratore invita il suo pubblico ad ascoltare e lo ripete più volte. Un invito a immergersi in questo strano paese, a entrare nelle case e nelle camere, come se i muri fossero trasparenti: «Ora da qui, dove siete ora, quei sogni potete sentirli». E il «qui» sembra riferirsi proprio allo sprofondamento provocato dalla stessa radio, quasi un incantamento che permette all’ascoltatore di percorrere le strade di ciottoli, di aprire una porta e di ritrovarsi nei sogni di Jack il ciabattino, alla ricerca di amanti nascosti nel bosco, o di Polly Garter, lussuriosa prostituta che rimpiange il suo unico vero amore, il piccolo Willy Wee, «nel suo letto di terra».

L’insistenza sulla cecità, tipico espediente radiofonico, spinge l’ascoltatore ad allestire nella propria mente un palcoscenico, dove prendono vita decine di personaggi, che compaiono e scompaiono con le loro voci, come i sogni o i fantasmi. I contorni si fanno porosi, confondendosi le differenze tra vivi e morti. Ogni voce è portatrice di un punto di vista e allo stesso tempo di un luogo specifico (la camera, la casa, la bottega, la barca dei pescatori…), e funziona come inquadratura per offrire primi piani su una stramba vita quotidiana, su rimpianti e desideri perduti. Il narratore scandice il tempo, come un orologio, per ventiquattro ore, partendo dal silenzio di una notte profonda, passando per la mattina e il pigro pomeriggio e terminando ancora con la notte. La cornice dunque misura cronologicamente il tempo, che però a Llareggub sembra scorrere in maniera differente, dilatandosi a dismisura o addirittura trovando la forma dei sessantasei orologi di Lord Cut-Glass, «orologi senza lancette che sbattono in eterno come tamburi, scacciando il tempo senza sapere mai che ora è».

La radio si dimostra il luogo migliore, più del teatro, più del cinema, per offrire una rappresentazione sonora di questa condizione tra la vita e la morte, tra il sogno e la veglia, tra astrazione e concretezza. Il luogo migliore per accogliere certe forme poetiche. E la BBC lo aveva capito prima di tutti coinvolgendo in maniera continuativa Dylan Thomas, Louis MacNeice e altri poeti. E da New York arrivavano i poemi radiofonici di Archibald MacLeish e da Parigi le opere di Robert Desnos. In Italia, se ne accorgono Giandomenico Giagni e Leonardo Sinisgalli che, con il Teatro dell’usignolo, nel 1947, pensando proprio a queste esperienze straniere, creano il primo programma dedicato interamente alla poesia, anche se il genere della poesia pensata appositamente per la radio o della ballata radiofonica in Italia avrà poca fortuna.

La versione italiana, intitolata All’ombra del bosco di latte (traduzione di Izzo), andò in onda il 15 giugno 1955. La produzione è imponente perché comprende un’ottantina di attori, tra cui Ubaldo Lay e Gastone Moschin. La regia è di Pietro Masserano Taricco. La sonorizzazione come previsto dal testo è minima (campane in lontananza, onde del mare e alcune parti cantate…), ma meno amalgamata dell’originale versione inglese, realizzata con le canzoni di Daniel Jones da Douglas Cleverdon, un maestro della regia radiofonica inglese, già segnalato al Prix Italia negli anni precedenti. Chi è all’ascolto ne rimane comunque profondamente colpito. Tra gli ascoltatori ci sono anche Luciano Berio e Bruno Maderna, che prendono ispirazione proprio da questo lavoro, per costruire il loro Ritratto di città, opera sperimentale che doveva convincere i dirigenti della Rai a investire sul futuro centro di fonologia, mostrando le straordinarie potenzialità della musica elettroacustica. La città è una Milano di fantasmi, rappresentata nell’arco di una giornata, a partire proprio da una notte «coperta di silenzio», descritta da una voce narrante che segue il ritmo di una prosa poetica, mentre la sonorizzazione mescola elementi concreti ed elettroacustici per creare atmosfere conturbanti e misteriose.

A distanza di quasi settant’anni il radiodramma di Thomas continua a sorprendere e a commuovere, per la capacità di creare un profondo sentimento di pietà umana verso personaggi disgraziati e folli, nei quali è difficile riflettersi, ma da cui è impossibile fuggire. Una comunanza di vivi e di morti, in quel luogo imprecisato che è il mondo della radio.

 

Dylan Thomas, Milk Wood, Einaudi 2021. Traduzione di Enrico Testa, pp. XVIII-94.

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