Abbiamo visto “ Moebius “ diretto da Kim Ki-Duk.

Delle cinematografie asiatiche, quella più vibrante e interessante è certamente quella coreana, e anche da parecchi anni.  Abbiamo già scritto che tra i molti registi da segnalare Kim Ki-duk è certamente quello più interessante, alcuni suoi film sono entrati nella Storia del Cinema, come “ Primavera, estate, autuno, inverno…  ” e “ Ferro 3 “.   La labilità tra amore e odio, la violenza inserita nello studio dell’animo umano, sono la sua ricerca ossessiva; film senza dialogo e un modo freddo e duro come un bisturi che affonda nella pelle sono le sue scelte stilistiche ed estetiche.  Anche se in una ricerca continua ed originale crediamo di trovare dei debiti narrativi, postantonioniani ( “ Ferro 3 “ ) o postbunueliani ( “ Moebius “ ).  Ma sempre con una sua strada originale, estrema, a volte insostenibile; perché bisogna dirlo il sesso, la violenza e la disperazione che ne consegue nei suoi personaggi sono un misto di follia, creatività estrema e di astrazione narrativa.   Scandaglia le profondità dell’animo fino ad affrontare in modo freddo, analitico, e per uno spettatore occidentale, insostenibile, argomenti come la pedofilia, l’incesto, lo stupro, l’evirazione…  Tematiche che – dopo un periodo di depressione e crisi creativa dell’autore – ha radicalizzato uteriormente, con il film “ Pietà “, vincitore a Venezia  del Leone d’Oro nel 2012 e soprattutto con quest’ultimo “ Moebius “ – in cui l’evirazione del figlio da parte di una madre e tutte le varianti di genere – sono al centro di un’interno borghese coreano.  Girato con la sua solita freddezza e analiticità riesce a rendere credibile quello che non sembra drammaturgicamente e convenzionalmente credibile, riesce a raccontare dei drammi familiari e personali senza nemmeno un dialogo e questa è la sua grande forza.  Come la sua forza – ma è anche la difficoltà dello spettatore di accettare alcune scene cruente e grottesche – sono le immagini forti, estreme, fino all’imbarazzo, al fastidio, allo stupore per chi assiste alla visione di questo autore radicale.

Un interno borghese metropolitano, una famiglia senza amore e ossessionata dal sesso.  Padre fedifrago, madre gelosa fino ad impazzire, figlio distaccato e indifferente dei litigi dei genitori.  All’ennesimo tradimento di lui, lei cerca di evirarlo, non ci riesce e allora evira il figlio, colpevole di sfrenato autoerotismo notturno, e si mangia il pene che il padre cerca di recuperare.  Lei sconvolta se ne va di casa e vaga per la città, il padre porta il figlio in ospedale e lo riporta a casa senza pene.  A questo punto l’uomo preoccupato e angosciato che suo figlio non potrà più fare sesso e non potrà avere orgasmi si mette a cercare su Internet se c’è la possibilità di trapiantarne uno e quasi pensa di dargli il suo.  Nel frattempo il ragazzo conosce una ragazza; viene deriso e denudato da dei coetani che hanno scoperto la sua mancanza; e per timore di essere scoperto da una banda di bulli partecipa ad uno stupro collettivo e finisce in carcere.  E in carcere né i poliziotti né gli altri detenuti sono teneri con lui.  Nel frattempo suo padre scopre che si può avere un orgasmo senza sesso diretto, basta stropicciare una pietra sul braccio fino ad avere un dolore estremo e a far sanguinare l’arto, sperimenta e verifica.  Porta quindi in carcere le foto di come si fa, e il figlio in isolamento si mette all’opera stropicciando con un pezzo di muro il piede fino a farlo sanguinare.  Quando esce dal carcere il padre gli regala una pietra levigata buona per l’uso, ma al ragazzo non basta e allora ritorna dalla giovane donna violentata e per avere un rapporto con lei si fa ferire con un coltello nella spalla che la ragazza gira e rigira nella carne per procurargli dolore e piacere allo stesso tempo.   Ma il giovane non riesce a superare questo suo dramma e allora il padre decide di farselo tagliare e donarlo al figlio.  Ma l’operazione non riesce e il pene resta moscio e insensibile fino a quando in casa non ritorna sua madre…

In questo film è evidente che Freud è presente, ma certamente non con i dettami occidentali.  Il regista si mostra sincero sulla dicotomia orgasmo/dolore, sesso/morte, all’interno dei confini della famiglia, sempre e comunque cellula primaria della società. Ma Kim Ki-duk non sembra scegliere il ‘ lato politico ‘ della questione bensì è interessato all’orgasmo e al piacere sessuale e va dritto alla radice della questione: l’organo genitale.   Tutta la famiglia è ossessionata dal pene per motivi evidentemente diversi ma il regista forse vuole dirci anche che l’amore estremo dei due genitori verso il figlio va  “ oltre ” al punto da procurargli solo danni.   Ma questo lo lasciamo a voi interpretare, perché potrebbero essere solo pensieri credibili.

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