È il mese di novembre del 1958; Maria Luisa Spaziani si adopera a presentare una rubrica decisamente originale, intitolata Umor nero, che sarebbe andata in onda sul terzo canale radiofonico. In questo spazio, ad alcune tra le maggiori personalità letterarie del tempo era stato chiesto di “confessarsi”, tirando fuori eventuali antipatie nei confronti di qualche “grande” del nostro passato letterario. Tra i partecipanti alla rubrica, spiccano i nomi di autori come Anna Banti, Mario Praz, Emilio Cecchi e Carlo Emilio Gadda. È proprio quest’ultimo, ad offrire lo spettacolo più memorabile di tutta la rubrica: se gli interventi degli altri autori si attestano su tempi che variano tra i cinque e i quindici minuti, quello di Gadda batte tutti i record, con i suoi 70 minuti. La vittima designata? Nientemeno che Niccolò Ugo Foscolo, il poeta esule, il guerriero, l’amatore. La durata, però, non è l’unica cosa atipica dell’intervento di Gadda; se i suoi colleghi si sono limitati alla scrittura di una breve pensiero, lo scrittore brianzolo si è spinto ben oltre, creando un vero e proprio dramma radiofonico a tre voci.

La scena si svolge nel salotto di tale donna Quirina Frinelli, signora la cui passione per la poesia non va di pari passo con la sua preparazione letteraria; insieme a lei, troviamo l’avvocato Carlo De’ Linguagi, il “doppio” dell’autore, e il professore Manfredo Bodoni Tacchi, a cui spetta invece il ruolo di rappresentante e difensore dell’Accademia. Nella miglior tradizione gaddiana, ci troviamo davanti a nomi parlanti: il cognome “Frinelli” richiama alla famosa etera Frine, ma pure al “frinire” delle cicale, in entrambi i casi, siamo di fronte a un chiaro riferimento alla natura frivola e civettuola della donna; l’avvocato porta lo stesso nome del suo “creatore”, ed il cognome indica la spregiudicatezza della sua parlantina (Bodoni Tacchi storpierà volutamente il cognome in “Linguacci”); il professore, invece, presenta un particolare doppio cognome, che se invertito da un esito dialettale traducibile con “attaccabottoni” (Tacchi Bodoni, è lo stesso De’ Linguagi a farlo presente nel corso della rappresentazione).

Il pezzo, dopo la sua esecuzione radiofonica, fu poi rimaneggiato da Gadda e pubblicato nel 1959 sulla rivista «Paragone», con il roboante titolo Il Guerriero, l’Amazzone, lo Spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo. Per coglierne la sprezzante ironia, non si deve attendere molto, dato che, solo alla battuta numero sette, De’ Linguagi paragona Foscolo a una bertuccia. Gli attacchi al poeta, infatti, arrivano su tutti i fronti: quello fisico (più volte Foscolo viene paragonato a un gorilla, o a un primate generico), quello poetico (più volte si ironizza su alcuni suoi tic linguistici, come l’uso spasmodico della parola “vergine”), quello politico (in particolare, il suo rapporto con Napoleone, ribattezzato per l’occasione “il nano”), addirittura quello sentimentale (la proverbiale promiscuità del Foscolo sarebbe ricondotta non tanto al suo fascino e alla discontinuità delle sue passioni, quanto all’instabilità economica, dovuta alla sua vita dissoluta, che non gli avrebbe permesso di mantenere una moglie stabilmente). Insomma, il ricco ed espressivo linguaggio di Gadda si abbatte con furia iconoclasta sul povero Ugo, con il chiaro intento di demolirlo completamente e definitivamente. Ci troviamo, insomma, di fronte a qualcosa che va oltre una semplice insofferenza scolastica, e pure al di là della semplice stroncatura; quella di Gadda è una vera e propria dichiarazione di odio. Si badi bene, però, che non si tratta di uno sfogo: quello dell’autore brianzolo è un odio meditato, ben radicato. Gli insulti rivolti a Foscolo non sono campati in aria, e la natura dialogica dell’opera serve proprio a evidenziare questo fatto: l’Avvocato De’ Linguagi risponde punto per punto alla difesa ad oltranza perpetrata da Bodoni Tacchi e Frinelli, dimostrando ottima conoscenza dell’opera e della biografia foscoliana.

Ora, sia chiaro, non si ha l’intenzione né di suggerire una svalutazione critica dell’opera foscoliana, né tantomeno di polemizzare con le posizioni di Gadda; è interessante, invece, cercare di comprendere le origini di questo odio così radicato, così limpido nella sua purezza.

Molti critici hanno rintracciato, non a torto, delle analogie col D’Annunzio, autore parimenti inviso al nostro brianzolo. In pratica, Gadda vedrebbe in Foscolo una sorta di “doppio”, di “antenato” del Vate; questo sarebbe confermato anche dai punti su cui più si sofferma l’iconoclastia di Gadda, ovvero il lato erotico e quello guerriero. Ma tutta questa furia può essere spiegata con un semplice “transfert”? Al più ci permetterebbe di modificare il nome della vittima, operazione che appare alquanto sterile. Proviamo dunque a ipotizzare, tanto per cambiare, che l’autore abbia attaccato Foscolo proprio perché voleva attaccare Foscolo, che a infastidirlo fosse non tanto il D’Annunzio in Foscolo, ma proprio Foscolo: questo strano tipo di operazione potrebbe dare risultati esegetici insperati.

Mettendo, per il momento, da parte gli insulti personali e fisici, poniamo l’attenzione sul lato della critica squisitamente letteraria, presente nel dialogo. All’interno della produzione foscoliana, ad essere messa sotto processo con particolare vigore, inizialmente, sono i versi dell’ode A Bonaparte liberatore. Ciò che sembra urtare, principalmente, De’ Linguagi/Gadda, è la totale mistificazione della realtà operata da Foscolo nei suoi versi, volta a una glorificazione fine a sé stessa. Per questo, nell’ode, i versi «Ma tu dell’Alpe dall’eccelse cime, / al ritornar di trombe e di timballi, Ausonia guati…» sono da De’ Linguagi così commentati: «Eccelse cime, a parte la cacofonia, va bene per il Gran Bernardone: andava meno bene per la bocchetta di Altare, o collo di Cadibona che sia, metri 435 sul livello». Ad essere presa maggiormente di mira, però, è l’iconica immagine di Napoleone, nella battaglia di Arcole, che stringe tra le mani l’asta col tricolore e sprona i suoi a combattere: «Un dipinto lo raffigura a piedi, con l’asta del tricolore in pugno, granatiere fra i granatieri. Ma quel dipinto è una balla…» De’ Linguagi ricorda che tale immagine è immortalata anche nell’ode del Foscolo: «E la ricolorata alta bandiera / in man del Duce, che in feral conflitto / rampogna, incalza, invita, e in mille modi / passa e vola, qual dio, di schiera in schiera. / Pur dubbio è marte. Ei dove / più dei cavalli l’ugna / nel sangue pesta, e sangue innalza e piove…». Oltre a far notare l’assurdità di un corpo di granatieri a cavallo, De’ Linguagi insiste sulla totale falsità del fatto:

«Una bella balla. Primo: perché il Nano [Napoleone, n.d.a.], quel giorno, non aveva cessato di essere un nano, e non era diventato affatto un granatiere. Secondo: perché trotterellò verso il ponte d’Ercole, come lo chiama Lei, a cavallo, e non a piedi. Terzo: perché i granatieri della divisione Augereau, per quanto eroi, non ce la fecero: il ponticello preso d’infilata dal fuoco austriaco era largo tre metri: i superstiti rifluirono in disordine. Quarto: perché nel “sauve qui peut” generale il Nano fu travolto, a ritroso beninteso, lui, la bandiera, il cappello e il cavallo: e caddero in acqua tutti e quattro, donde lo ripescarono con molti sforzi dopo un bel bagno gelato…»

Ora, è chiaro che l’adesione alla realtà non sia uno dei punti di forza della produzione foscoliana, ma sarebbe errato pensare che l’idiosincrasia di Gadda per lui sia riassumibile solo in questo. A infastidire l’autore brianzolo, è più la natura della mistificazione. Per comprendere meglio, è bene fare riferimento ai punti in cui si concentra sulle descrizioni femminili. Ad urtare i nervi di De’ Linguagi, oltre all’uso spropositato della parola “vergine”, è la patina greca ed ellenizzante che ricopre ogni cosa:

«Nella cosiddetta “poesia del Foscolo” tutto si riduce a una ricerca onomastica ellenizzante o comunque classica, a un macchinoso ed inutile vocabolario: a una sequenza d’imagini ritenute greche o marmorine, a un vagheggiamento di donne di marmo in camicia, o preferibilmente senza, da lui dette “vergini”. Mi sa che gli piacessero di quattordicianni: anche se in pratica, a scanso di grane, le sue amanti ultraconiugate ne ebbero un po’ di più…». «No, stia comoda. Ci sono più vergini nei millenovecento versi del Foscolo che in tutta la storia di Roma antica. Nelle “Grazie” poi, sono vergini anche i quadrupedi». «Vergini gli uomini, vergini le donne, vergini i cavalli, vergini le cavalle, vergine la cerva di Diana. E Diana stessa. E le Muse. E Minerva. Nessuno si salva dalla verginità».

A questo punto pare chiaro che a muovere l’odio di Gadda non sia tanto la mancata aderenza alla realtà in sé, ma la rimozione sistematica del “comico” (inteso in senso dantesco) che Foscolo opera in tutta la sua produzione. È in reazione a questa mancanza, che Gadda calca pesantemente la mano sull’autore a 360 gradi, accentuando qualsiasi dettaglio irregolare, anche fisico, per rivelare il grottesco che si cela dietro il velo ellenisteggiante innalzato dal poeta.

Per Gadda, la produzione foscoliana vive sospesa tra una solennità inventata (l’episodio di Napoleone) e una bellezza irreale (il falso mondo ellenico delle “vergini”), entrambi strumenti inadeguati per una corretta e vasta rappresentazione del mondo. Anche i principi morali che dovrebbero animarne la scrittura, dunque, non possono che rivelarsi falsi, velleitari, poiché sorretti in buona sostanza dal nulla. Come poter accettare, dunque, il nome di Ugo Foscolo tra i grandi della nostra letteratura? Per Gadda, questo rimane un mistero insoluto, come l’amore del Foscolo per la verginità.

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