Un pomeriggio di quasi dieci anni fa camminavo per Venezia quando mi telefonò Andrea Segre. Voleva propormi di lavorare insieme al suo primo film, la storia di una barista cinese e un pescatore di Chioggia. Era un film da girare in cinese e dialetto chioggiotto, pieno di vecchi, immigrati e bazzicatori del porto econ un finale malinconico,. Lessi le pagine che aveva scritto e gli dissi di sì, che ci avrei lavorato volentieri. “Occhio però”, aggiunsi un po’ per scherzo, “stai prendendo una strada difficile”. Lui rispose: “Sì lo so, ma è la mia strada”.

Una sera di sette anni dopo, verso mezzanotte, io e Andrea camminavamo per Palermo. Eravamo lì per documentarci per il nostro terzo film insieme. Eravamo sulla soglia di un bar quando ad Andrea squillò il telefono. Era un poliziotto della Questura di Siracusa che ci informava che la mattina dopo alle sette ci sarebbe stato un grosso sbarco di migranti al porto di Augusta. Da Palermo ad Augusta ci vogliono tre ore di macchina. “Che sfiga”, ho detto io. “Come che sfiga? Ce la possiamo fare”.

Niente bar. Tre ore di sonno. E alle sei e mezza della mattina dopo siamo in un bar del porto di Augusta a fare colazione con i poliziotti delegati allo sbarco. Buon umore, battute, chiacchiere di calcio, figli e ristoranti. “Tu il militare dove l’hai fatto?” “Io servizio civile”. Mi guardano storto.

Però ci rispettano. Ci considerano gente seria che tiene al proprio lavoro. E anche noi a loro, devo dire. È da qualche giorno che li frequentiamo perché stiamo scrivendo un film su un poliziotto italiano dell’immigrazione e vogliamo capire come sono fatti davvero.

Poco dopo siamo sul molo di Augusta a guardare una grande nave militare manovrare nel porto. Corde, attracchi, grida, ordini in gergo da marinai, poi la nave cala il ponte e un po’ per volta i militari cominciano a far uscire le persone che hanno raccolto in mezzo al mare.

Sono una folla multietnica di siriani, centroafricani, maghrebini, sub-sahariani, gente del Corno d’Africa e del Golfo di Guinea, e noi italiani ad aspettarli sulla banchina.I militari li fanno mettere in fila per quattro e poi avanzare insieme in ordine geometrico. Ricordano in questo gli uccelli migratori.

Sulla banchina ci sono polizia, guardia costiera, finanza, pompieri, croce rossa, volontari delle ong, un giornalista locale col sigaro, anche una macchina dei vigili urbani. E poi noi del cinema col quadernino in mano che guardiamo e avviciniamo tutti. Anche gli sbarcati, non appena ci viene permesso.

C’è una famiglia siriana con padre, madre e tre figli, gli aloni bianchi dell’acqua di mare sui vestiti. Il padre, un ragioniere di Homs, parla un po’ d’inglese. Ci resta un po’ male quando capisce che non c’entriamo niente, ma ha voglia lo stesso di chiacchierare. Tenendo il figlio più piccolo in braccio mi dice che stanno andando in Germania, dove hanno dei parenti. Se ne sono andati dopo che la casa gli è saltata in aria in un bombardamento. “C’era dentro mia madre”, aggiunge. Si fa spiegare dove ci troviamo. “Sicilia”. Non ha capito. “È una grande isola a sud dell’Italia, a forma di triangolo…”. Adesso ha capito, dice che l’ha studiata a scuola. “Ma quando siete partiti dove avevano detto che vi portavano?” “Ci avevano detto Europa”. Ha una scarpa sola, una bella scarpa di cuoio. L’altra l’ha persa nel viaggio, non ricorda bene quando.

C’è una ragazza marocchina sui vent’anni in compagnia della madre, col piumino Moncler e un trolley bello gonfio. Mi chiede l’i-phone per scrivere su facebook che sono arrivate. Glielo do, lei fa il post, io butto l’occhio. È una frase in arabo con molti punti esclamativi. Poi esce dal profilo e mi ridà il telefono. “Thank you”. “You’re welcome”, dico io, poi le chiedo dove sono dirette. Lei capisce ma non risponde, sorride e basta. Forse non si fida.

Ci sono molti bambini e delle signore di Catania dall’aria distinta, credo della Caritas, li cercano uno a uno per dargli degli orsetti di pelouche. Loro li prendono e sono contenti. Ci giocano o li usano per scaldarsi. “Ringrazia”, dice il padre siriano al figlio, e lui ringrazia in arabo.

C’è un gruppo di somali molto sgarruppati, tutti uomini, con le camice a maniche corte e le coperte delle Ong sulle spalle. Il più vecchio dice di essere un medico e ci chiede dove li manderemo adesso. Gli spieghiamo quello che sappiamo ma gli diciamo anche che siamo del cinema e non c’entriamo niente. “Peccato”, dice lui, “siete gli unici che sanno l’inglese”. “Però c’è un interprete dall’arabo”. “Sì ma è uno solo, noi quanti siamo?” Sono quattrocento.

Siamo nel 2015, è l’epoca di Mare Nostrum e di sbarchi così nel sud della Sicilia ce ne sono quasi ogni giorno. Non c’è altro modo per queste persone di andarsene dai loro paesi. Non è una questione di soldi, perché i documenti per entrare legalmente non te li danno neanche se sei ricco. Devi arrivare in Libia o in Egitto e lì pagare dei trafficanti che ti portino in Europa. Chiedono intorno ai mille dollari a persona, spesso di più. Nei mesi successivi si allenteranno anche le maglie della frontiera tra Turchia e Grecia, ma adesso no, adesso questo è il collo di bottiglia dove passa la storia del mondo, la grande diaspora dal sud al nord.

Intanto viene la notte e c’è stanchezza, hanno tutti sonno, ma c’è in giro anche un grande buon umore. Guardingo magari, ma buon umore. Nessuno ha capito bene cosa li aspetta, ma sanno che fino a lì ci sono arrivati e tutti pensano che il peggio è passato.

Oltre al buon umore c’è un fortissimo odore di mare. Ci sono corde bagnate, odore di pesce, acqua salata sui vestiti della gente. Il vento spinge carte e bicchieri di plastica contro gli angoli dei muri.

Il pensiero “E adesso dove li mettiamo?”è invece del tutto assente. Completamente inconcepibile davanti a tutte quelle facce, tutti quegli esseri umani con la loro ricerca di felicità.

“Welcome” dico a tutti, sentendomi un po’ idiota perché di lì a poco andrò a dormire e li mollerò al loro destino. Li porteranno in dei centri dove aspettare i documenti. Quelli che otterranno lo status di rifugiato se la caveranno in qualche mese, per gli altri sarà più dura.

Mentre mi aggiro da solo sul molo mi si avvicina un poliziotto dall’aria poco esperta, il più giovane di tutti. “Ma questo film che fate su che canale va?” “Va al cinema”. Sguardo poco convinto. “E che attori ci mettete?” “Non lo sappiamo ancora, si vedrà”. Sguardo deluso. “Lo sai chi mi piace a me? La Lodovini. La conosci?” “Sì”. Sguardo scettico, non ci crede. Allora prendo il cellulare, scorro la rubrica e gli faccio vedere il numero della Lodovini. Ci resta secco. “E conosci anche Fiorello?” “Fiorello no”. Ma ormai l’ho conquistato.

Per ricambiare mi racconta una cosa successa a uno sbarco di qualche giorno prima. Stavano ancora smistando la gente quandosi è fermato un taxi sulla banchina, è sceso un signore distinto, si è avvicinato al gruppo degli sbarcati e ha indicato un’anziana coppia di siriani. Erano i suoi genitori, era venuto a prenderli dalla Germania, dove viveva da anni. Aveva preso l’aereo fino a Catania e da lì il taxi. “E voi cos’avete fatto?” “Li abbiamo lasciati andare col taxi, che dovevamo fare?”

Sorrido. Lui capisce che la storia mi è piaciuta: “Bella questa, eh? Ce la mettete nel film?”

Alla fine ce l’abbiamo messa.

Insomma siamo al porto di Augusta, è quasi l’alba e c’è un confine. C’è chi cerca di passarlo e chi lo difende, poi ci siamo noi che dobbiamo raccontare la storia.E anche se in questo momento sembra un po’ poco, è l’unica cosa che sappiamo fare. E l’unico modo possibile per non sentirci dei pagliacci in mezzo a tanta verità è andare a casa, accendere il computer e raccontarla bene.

“Andiamo a casa?” “Tra poco”, dice Segre.

Il padre siriano se ne deve andare, i poliziotti lo chiamano. Mi viene e a cercare e ci abbracciamo, lui col figlio addormentato in braccio. “Good luck” gli dico. “Good luck with your film”,fa lui come se davvero gli interessasse, “maybe we’ll see it when we get to Germany”. Lo guardo salire con la sua famiglia su una vecchia corriera siciliana che li porta non so dove, spero in un posto decente. Un passo più avanti lungo la loro strada. Difficile magari, ma la loro strada.

 

Questo pezzo è apparso sul numero di novembre della rivista Gli Asini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *