Abbiamo visto “ Senza nessuna pietà “ regia di Michele Alhaique.

Per adesso questo settembre cinematografico risulta a dir poco sconfortante, siamo in tempi di vacche magre, con storie da tempi di deflazione.  Aspettando tempi migliori e qualche film che venga dall’Asia o dall’America Latina gironzoliamo in sale vuote e con film che non lasceranno alcun segno.  Anche questo debutto alla regia dell’attore trentenne Michele Alhaique rientra in questo panorama desolato e asfittico; già dal titolo un po’ forviante e generico possiamo dire che il regista – pur sentendo la necessità di raccontare una storia – non sapeva bene quale linea drammaturgica scegliere.  Un po’ di genere non classificabile, un po’ autorale all’italiana.  Infatti la storia non si iscrive ad alcun genere cinematografico specifico e definirla noir o thriller o commedia drammatica sembra poco corretta.  Storia che potenzialmente ha punti di contatto con il piccolo capolavoro Mona Lisa ( Neil Jordan, 1986 ) o Danny the dog ( Louis Leterrier, 2005 ), ma tolta l’assonanza con i protagonisti, senza importanza e senza personalità,  e il loro triste destino non resta altro.  Un protagonista uomo-orso e solitario ( Un Favino bravo ma senza impennate ), una ragazzetta di Latina carina che vive con la mamma e fa la mignotta-escort ai nostri giorni ( La poco conosciuta Greta Scarano, dalle buone potenzialità ), un malavitoso che costruisce palazzi, presta soldi ad usura e chissà cos’altro ( Un Ninetto Davoli poco più che in un cameo ), un figlio bambaggione che passa il tempo in piscina e con prostitute di lusso ( Adriano Giannini ), il tutto con lo sfondo di una periferia metropolitana e di case di extracomunitarie che ricordano l’idroscafo pasoliniano. Cosa ci aspettiamo da un regista esordiente ?  Qualche idea oriìginale e qualche imperfezione stilistica.  Invece ci troviamo davanti ad un compitino ben girato,  con una buona fotografia ( Ivan Casalgrandi ), ma dal taglio quasi televisivo; con una sceneggiatura che vuole rispettare dei canoni senza che vengano richiesti e con una psicologia dei personaggi che è data senza essere motivata.  Anche il finale piuttosto prevedibile, incomprensibile per quello che riguarda la donna, lo ascrive ad un film dimenticabile, senza infamia ma anche senza lode.  Ci dispiace per il bravo Pierfrancesco Favino che deve aver creduto molto in questa storia tanto da diventarne produttore e di sottomettersi ad un ingrasso per sembrare un orso buono ma anche pericoloso.

Siamo nella  periferia romana di oggi, tra palazzi che vengono costruiti e vite solitarie.  C’è una famiglia patriarcale comandata da Santilli ( Ninetto Davoli ), malavitoso, costruttore, strozzino e altro ancora,  vive in una villa con il figlio Manuel ( Adriano Giannini ), bamboccione viziato e violento.   Ha cresciuto negli anni il figlio di un suo cugino morto ammazzato, Mimmo ( Pierfrancesco Favino ), uomo dal carattere completamente all’opposto di Manuel: lui lavora sui cantieri, pesta chi non paga i debiti a Santilli, fa un po’ tutto per la famiglia che lo ha adottato, anche il tassista.   Parla poco, non ha amici se si eccettua il Roscio ( un bravo Claudio Gioè che però cade nello stereotipo del personaggio ) e sembra che da un momento all’altro possa esplodere.  Infatti è insofferente della vita che fa e detesta senza mostrarlo il ‘ fratellastro  ‘.    Un giorno, dopo il lavoro, deve andare a prendere in un bar una giovane escort e portarla ad una festa a casa di Manuel, ma sbaglia il giorno e la prende con ventiquattr’ore d’anticipo e allora Mimmo è costretto a passare con lei un giorno intero: lei è carina, allegra, disponibile anche a fargli una sega.  Il giorno passa e Mimmo accompagna la donna a casa di Manuel, la lascia lì ma torna indietro e ‘ scoppia ‘, pesta a morte il ‘ fratellastro ‘ e trascina via la donna.  Da ora inizia per i due un’attesa, nascosti da qualche parte, quindi un conoscersi, un affezionarsi e un tentativo di fuga assieme da alba tragica..

Un buon cast ma non ben utilizzato, una bella fotografia, una discreta colonna sonora, una storia però convenzionale nella scrittura, diretta quasi per dimostrare che si conoscono le regole del genere e le si esegue da bravo scolaretto e volendo anche inserire qui e là un punto di vista autoriale all’italiana non necessario.

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