Abbiamo visto “ Solo dio perdona “ diretto da Nicholas Winding Refn.

Winding Refn è diventato un regista di culto a soli 40 anni ( con film come “ Pusher “ 1, 2, 3, “ Bronson “, “ Valhalla Rising “ e l’ultimo “ Drive “ ), amato dalla critica e, con gli ultimi due film, anche dal pubblico.  Iperviolenza stilizzata, dolcezza nei confronti dei più deboli, protagonisti solitari, silenti, alla ricerca del padre o dell’utero materno, con una regia autorale radicale e affascinante, un lavoro ostinato sul linguaggio cinematografico.  Nel quale il pubblico può rischiare di fraintendere le psicologie dei protagonisti ed anche lo svolgimento della trama.   I suoi debiti narrativi dichiarati sono con Jodorowsky ( “ El topo “, “ La montagna sacra “ ), ma anche con quel surrealismo e substrato psicologico  degli spaghetti western italiani e con Gualtiero Jacopetti ( “ Mondo cane “ 1 e 2, “ Africa addio “ ).  Mentre i suoi debiti narrativi non dichiarati sono con il Lynch di “ Velluto blu “, con il solito Tarantino e perché no, con le pause e gli improvvisi scatti di violenza pura del grande Takeshi Kitano.  Adesso gira questo “ Solo Dio perdona “ ( citazione dichiarata del titolo “ Dio perdona, io no “ di Colizzi ), una Crime Story cristallizzata, ambientata nelle viscere del mondo, nei vicoli di Bangkok, tra partite clandestine di box thai, una malavita estrema e il traffico di droga: un mondo che supera l’umano ma anche affascinante in quanto pericoloso e subumano; un terreno di gioco adatto per ambientare un film che parla di amore filiale, onore e vendetta.  Ma questa volta – forse perché da Refn ci si aspetta sempre molto o perché questo film è molto distante in tutti i sensi dagli ultimi film – ha deluso una parte della critica e il pubblico si è trovato spiazzato da un’opera quasi shakespeariana che ripercorre gli stilemi  classici di un certo cinema asiatico.  Scene apparentemente immobili in cui non accade quasi nulla e poi d’un tratto la violenza si manifesta lucida, diretta e senza mediazioni di clemenza.  Tuttavia coniugare l’alto con il basso è spesso complicato, e in questo film ciò che stride un po’ sono dei dialoghi un po’ loffi e  forse involontariamente banali all’interno di silenzi estremi; come ad esempio quando la madre a tavola parla a Julian del pene dei due fratelli e precisa che quello del figlio morto aveva delle dimensioni non paragonabile a quelle dell’altro.  Oppure quando rivolta alla pseudo fidanzata del figlio che dichoara di essere una cantante le chiede quanti pompini deve fare per poi cantare.

Julian ( un Ryan Gosling in un ruolo ostico ) vive rifugiato a Bangkok perché ha ucciso suo padre negli Stati Uniti probabilmente su istigazione dlla madre con cui ha un rapporto edipico.  Con il fratello maggiore lavora come manager e allenatore di giovani pugili di thai boxe negli slum della capitale, ma l’attività vera è il traffico di eroina su scala industriale perché la madre ( La bravissima Kristin Scott Thomas ) è a capo di un’organizzazione criminale negli Stati Uniti.  Suo fratello è un tipo inquieto, fragile e violento, quando ha voglia paga delle prostitute per massacrarle e quando ne ammazza una finisce all’obitorio.  La madre allora viene a Bangkok per portare a casa la salma del suo figlio preferito e per assistere alla vendetta che dovrà compiere Julian, ma il giovane sempre più immobile e silenzioso ( dirà una ventina di battute in tutto il film ) nella sua impotenza personale ed esistenziale si rifiuta perché chi ha ucciso il fratello aveva ragione nel farlo.  Allora sua madre furiosa commissiona ad un suo trafficante la vendetta, compresa l’uccisione di un poliziotto coinvolto più eticamente che non direttamente ( Vithaya Pansringarm ).  Ma le regole in Thailandia non sono quelle americane e la vendetta si interrompe subito, e il poliziotto che è un uomo duro e abile nel maneggiare la spada reagisce con ancora maggiore violenza.  E sarà un’ecatombe…

Una storia ‘ classica ‘ di serie B ma diretta da un regista che è un autore vero, sempre alla ricerca di nuovi stili e storie fuori dal comune.   Confermando il suo registro estetico, asciuga la narrazione più che può, neanche fossimo in un’opera Kabuki del teatro giapponese; elimina ogni orpello, ogni didascalia e ogni approfondimento, per lasciare solo al gesto una possibile spiegazione, e per il regista è sufficiente un movimento appena accennato per dare fatti e sviluppi drammaturgici.  Tuttavia non riesce sempre a tenere alta la ricerca visiva e forse il modo in cui viene presentata la purezza del bene e del male, attraverso la violenza, non    riesce a concretizzarsi davvero.

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