( FULVIO ABBATE CONTRO LA “NUOVA PLEBE” CHE CONTESTA CAROLA RACKETE: “MOSTRA IL PROPRIO RIFIUTO DI OGNI COMPLESSITÀ CULTURALE, QUASI CHE ABBIA SCELTO DI RISPONDERE A OGNI OBIEZIONE DIALETTICA CON UN “E ‘STI CAZZI?”. È ASSENTE A OGNI COSCIENZA INDIVIDUALE, SEGNATA DA UN RIFLESSO PARANOIDE, ASSIMILABILE AL BRANCO DI NUTRIE, ALL’ISTINTO GREGARIO, POSSEDUTO DALLA PROPAGANDA POPULISTA, MOSTRANDO COSÌ UN BACKGROUND BRUCIATO DA DECENNI DI ESPOSIZIONE ALLA TV COMMERCIALE” )

Alla fine, forte del proprio analfabetismo conseguito e testato sui social, ciò che potremmo chiamare la nuova plebe, scacciò dalla memoria l’antica, quella che in certe pitture barocche mostra soprattutto Napoli, la sua storia secolare tribolata, pronta a soffocare nel sangue le idee ordite da generosi nobili infatuati di rivoluzione, di più, dalle “élite”, disprezzate in quanto tali.

Pensate al duca Gennaro Serra di Cassano nel 1799, poi al conte Carlo Pisacane nel 1857, la cui sciabola dimora adesso al Museo del Risorgimento, nel ventre del Vittoriano. Meglio ancora se portatrici – le immonde “élite” non certo la plebe, sia chiaro – di un pensiero ora illuministico ora proto-socialista.

Dunque non era una prerogativa unica del mondo all’ombra del Vesuvio, forte dei Masaniello o Agostino ‘o Pazzo, per chi di quest’ultimo ha memoria, quel certo modus di reagire alla Vandea subculturale; il duca Gennaro, colpevole di sognare la repubblica, finirà decapitato, da allora il portone del palazzo di famiglia è rimasto doverosamente sbarrato in faccia alla plebe, monito a una coscienza mai raggiunta, calpestata.

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Uscendo dai sussidiari di storia per ficcarci nel greve reality post-berlusconiano odierno, va detto che la plebe remix appare sempre più un fenomeno metropolitano globale, pronto a mostrare innanzitutto il proprio rifiuto di ogni complessità culturale, fosse anche il semplice “carissimo amico” della democrazia, quasi che il nuovo soggetto prevalente abbia scelto di rispondere a ogni obiezione dialettica con un “E ‘sti cazzi?”.

Miserie accompagnate da un repertorio di altre citazioni degno delle “più belle frasi di Osho”, il romanesco come lingua globale del qualunquistico cinismo, cioè ‘sti cazzi e ancora ‘sti cazzi in luogo, che so, del Michel Foucault dei “radical chic”.

Scendendo nello specifico, si tratta di un soggetto sociale cresciuto nel grottino-tavernetta di un paese che da “terribilmente sporco”, suggeriva Pasolini, ha completato la propria transizione verso lo stato acefalo, e questo, così pensano i gretti, ritenendo che le conquiste civili siano una profanazione quasi anale dell’orgoglio patrio, un’imposizione giunta dai “comunisti”, dai “sinistri”, dalle “zecche rosse”.

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Propellente per un Sessantotto della destra che strega la nuova plebe con le sirene spiegate della Lega di Salvini e del M5S di Luigi Di Maio, forze politiche che, in verità, mostrano un effetto-Niagara, cioè stura water, circa un sentire ultimo diffuso e profondo razzista che stava solo in sonno.

Questa nuova irresistibile plebe, assente a ogni coscienza individuale, segnata da un riflesso paranoide, come si evince dalla prosa sui social, è assimilabile al branco di nutrie, all’istinto gregario, posseduto dalla narrazione e dalla propaganda populista, mostrando così un background bruciato da decenni di esposizione alla televisione commerciale.

Per intenderci, prima di concedersi quasi eroticamente al fascino casual di Salvini, gli stessi soggetti sono rimasti stregati dal fard di Berlusconi. Occorre pensare che decenni di “Uomini e donne” e “Paperissima” e “Ciao Darwin” abbiano lasciato lesioni permanenti sull’encefalo di un paese sostanzialmente illetterato.

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È accaduto soprattutto a detrimento d’ogni sapere che non corrispondesse al gretto egoismo piccolo-borghese. Si sappia infatti che la nuova plebe ama innanzitutto i propri luoghi comuni, così tanto che quasi quasi vorrebbe recintarli, di più, farli custodire da un bel muro tempestato di punte di lancia, di modo che nessun altro, peggio se straniero, possa giungere, presentarsi – toc toc – magari per bisogno materiale; la nuova plebe infatti ha rimosso, in assenza d’ogni coscienza civile, la memoria di un paese già con le pezze al culo, gli antenati costretti a emigrare e talvolta addirittura pronti a farsi mafia fuori dai propri confini, la plebe remix si sente rassicurata da chi garantisce di innalzare staccionate, come quel leghista che promette un muro di 243 km che corra sul confine est d’Italia: «È un’ipotesi che si sta valutando col Viminale», proclama il governatore del Friuli-Venezia, Massimiliano Fedriga, appunto. E questo «Perché noi dobbiamo dare sicurezza ai nostri cittadini. Tranquillità nelle case, decoro nelle pubbliche vie. Ladri, delinquenti di piccolo o grande calibro non ne vogliamo»

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Avrà costui coscienza che il racconto dell’umanità è storia di esodi e migrazioni? Con Fedriga dobbiamo immaginare un cervello unicamente abitato da sistemi d’allarme, porte corazzate, bloster, taser e dal “suo” muro? Servirebbe a qualcosa ricordargli che tra i versi di Prévert ce n’è uno, definitivo, che così inquadra certa umana meschinità: «Quelli che in sogno piantano cocci di bottiglia sulla grande muraglia della Cina».

E ancora, ci scommetto che nella mente dei nostri dirimpettai razzisti in nome dell’orgoglio identitario, c’è il proposito ulteriore di una narrazione che serva a trasformare il nostro quotidiano in film poliziottesco permanente, con il Capitano, il commissario, l’ispettore, il questore, il questurino, il piantone, un Salvini, pronto a vestire tutti questi ruoli, pronto a ordinare a gazzelle e cellulari di sguinzagliarsi, così come alle motovedette, le pilotine, i cacciatorpediniere laggiù in mare, magari in attesa di fare finalmente fuoco sui barconi, sugli “stranieri”, sulle ragazze con i dread, figlie “viziate” delle solite infami “élite”.

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Se trent’anni fa, a Berlino, si festeggiava la cancellazione di un confine, adesso, nel sentire, di più, in pugno ai leghisti e ai loro alleati grillini sembra di vedere pronta la cazzuola, micragnosa idea di libertà e di controllo, nella convinzione che, sebbene meschini nella loro bassezza morale, i nostri cognati, perfino i peggiori, sono da preferire ai poveri, neri di pelle, che vengono verso di noi con i barconi, posto che la miseria va ritenuta un crimine in sé, non per nulla la nuova plebe riporta in vita tra una pizzata e l’altra un repertorio di barzellette dove brilla Bongo, “re del Bongo, e “nel culo te lo pongo” (sic), così nei conciliaboli da Ku Klux Klan sezione di Formello o di Trigoria o di Appiano Gentile, o perfino di Lampedusa.

Nella convinzione che le semplici aste dalla democrazia siano roba superata – l’ha detto anche Putin, no? – dunque resta da presidiare il mondo, i quartieri, i bar sotto casa con occhio torvo, forte com’è d’avere riconosciuto il nemico nei “sinistri”, negli “intellettualoidi”, i “professorini”, dove Salvini, con cantilena minacciosa, rosario della grettezza securitaria, è il loro Orso Yoghi; neppure Maurizio Merli, nei panni del commissario Tanzi dei succitati poliziotteschi, aveva ottenuto tanta fidelizzazione, pensate.

CAROLA RACKETE - MATTEO ORFINI - GRAZIANO DELRIO CAROLA RACKETE – MATTEO ORFINI – GRAZIANO DELRIO

Alla fine, in assenza di opposizioni, posto che il Pd mostra nient’altro che una pietosa afasia, se non talvolta perfino contiguità con il pensiero da mattinale di questura, proprio alle vituperate “élite” è spettata la soddisfazione della risposta individuale, singola, giunta direttamente dal cuore, risposte da “sinistri”, e tuttavia finalmente reattive rispetto alla tracotanza del ministro degli Interni, risposte addirittura aspre che replicano all’insulto con la medesima sostanza, e così frutto di doveroso amor proprio, necessario narcisismo politico ritrovato di fronte alla sensazione, appunto, di una sinistra assente, vedi Adriano Sofri, vedi Oliviero Toscani, vedi Chef Rubio, vedi Saviano, vedi altri che l’arroganza di Salvini ha convinto ad abbandonare ogni galateo per salire sulle barricate. Alla fine, hanno dovuto provvedere le “élite”, di più, proprio duca o il conte a ristabilire una chiarezza resistenziale, dichiarando, come avrebbe detto qualcuno, cioè un “professorone”, guerra all’ovvio e all’ottuso.

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