Abbiamo visto Terraferma regia di Emanuele Crialese.
Nel 1948 in Italia uscì il film di Visconti La Terra trema ispirato a I Malavoglia, di Giovanni Verga, che tutti conosciamo, tra povertà vera, rivolte individuali riadattate alla società postfascista e di classe, grossisti disonesti e la dissoluzione di una famiglia. Oggi Crialese realizza Terraferma e, scherzando un po’, potremmo dire che sta nei due titoli la differenza sostanziale.
Entrambi i film sono ambientati in Sicilia, entrambi parlano del mondo dei pescatori – lì Bastianazzo muore naufragando e qui il figlio maggiore è morto da tre anni, immaginiamo in mare – il vecchio dovrebbe andare in ospedale ma non vuole, ne I Malavoglia Padron Toni ci va veramente. Per il resto sono naturalmente due trame differenti per spessore e valore. Vedendo il film di Crialese, scritto in modo corretto, diretto con sicurezza, con un cast d’attori bravi ma forse non ben amalgamati e con una fotografia efficace di Fabio Cianchetti ci saremmo dovuti entusiasmare come ha fatto parte della critica italiana eppure ci ronzava in testa un qualcosa che non andava fino in fondo e alla fine degli 88 minuti di film abbiamo realizzato cosa fosse – oltre a una regia troppo “poetica” e gentile, una scrittura troppo “buonista” e con vari buchi drammaturgici, una fotografia un po’ troppo splendente e senza sbavature -. Per prima cosa ci è venuto in mente il sindaco di Lampedusa De Rubeis con una mazza sulla scrivania pronta ad usarla, gli abitanti (giustamente stanchi) alla caccia dell’extracomunitario, gli immigrati al loro volta stanchi di soprusi pronti a scontrarsi con una polizia che fa solo la polizia, con trecento tunisini che hanno marciato per le stradine gridando “Libertà, libertà”. E allora vedendo questo film così blando e poetico abbiamo pensato che sarebbe stato un film anche di denuncia se fosse stato realizzato una ventina di anni fa e oltre (vi invitiamo a confrontarlo con Welcome). Poi abbiamo pensato allo sviluppo della storia e alla sua consistenza emotiva e politica e ci è sembrato un film “veltroniano” dopo Veltroni. Una vita di poveri che non sentono veramente la povertà, lo ‘scontro’ tra vecchi e giovani – quelli legati alle sane tradizioni del passato contro i cinici che cercano solo di fare soldi – qualcosa che ricorda più un episodio di Don Matteo che una rivisitazione del neorealismo di Visconti e Rossellini, i rapporti interpersonali tra una giovane vedova giustamente insoddisfatta e un figlio bimbone di vent’anni non hanno nulla di veramente conflittuale o sofferto ma un che da commedia e anche il “cattivo” Nino (un Beppe Fiorello credibile ma non convincente) è una pasta di giovane uomo sia come figlio di un nonno tradizionalista che come zio di un nipote un po’ tontolone. Insomma un buon film in prima battuta, un film forse che non dice nulla di più anzi, riflettendoci su.

Terraferma inizia con un’inquadratura da National Geographic, la carena di una nave solca la superficie dell’acqua, una rete scende e si allarga nel blu del mare di Sicilia e riempie lo schermo. La storia parte un po’ lenta e al centro c’è una famiglia di pescatori di un’isoletta che non sta nemmeno sul mappamondo (forse perché troppo piccola, forse perché la Brambilla quando ha fatto la carta dell’Italia per il turismo l’ha dimenticata) formata da Ernesto, un vecchio saggio dal barbone bianco che continua a lavorare con la sua barchetta, il giovane Filippo, suo nipote, buono e un po’ troppo semplice di carattere anche per quei luoghi e la nuora vedova, Giulietta, madre del giovanotto, che vorrebbe cambiare vita ma non ne ha la forza. A questa micro famiglia si aggiungono il figlio Nino, un uomo buono e pratico ma un po’ cinico pur di guadagnare e sua moglie di cui non sappiamo nulla. Siamo nella stagione turistica, arrivano i primi vacanzieri e un po’ di soldi per tutti ma iniziano a giungere anche i primi migranti disperati dall’Africa. Mentre Ernesto continua a lavorare sul barchino, Giulietta rimette a posto la casa malandata per affittarla ai turisti e il cognato Nino, fa affari affittando sedie a sdraio, preparando cocktail e organizzando gite in barca di massa (la foto del film – che troviamo forviante ). Tutto prosegue placidamente fino all’arrivo sempre più numeroso di migranti e al sequestro della barca di Ernesto che ha salvato cinque di loro da morte certa: la legge italiana li definisce “clandestini” e illegali e vieta ai motopescherecci di raccoglierli. E a questo si aggiunga che Ernesto ha portato a casa l’etiope Sara, una migrante pronta per partorire e la nasconde alla polizia. Niente più pesca e Filippo è costretto a lavorare con lo zio Nino come bagnino e tuttofare nello stabilimento ma sembra controvoglia. I migranti aumentano anche con i respingimenti e le deportazioni, fino ad arrivare moribondi sulla spiaggia di Nino e davanti ai turisti che si stanno bagnando. Nonno e nipote caratterialmente vanno contro Giulietta e Nino e decidono di aiutare Sara e il suo piccolo figlio, fino in fondo… con un finale ‘aperto’ e bonariamente di rivolta.

Con una cinematografia flebile come quella italiana di questi anni (nel bene e nel male i migliori film italiani come Baaria, Noi credevamo o Habemus Papam, sono dei prodotti non del tutto riusciti e forse anche modesti) dispiace non dare un giudizio positivo ad un film come Terraferma. Il nostro timore è che gli ultimi trent’anni abbiano creato un genocidio culturale così profondo da rendere flebili anche le migliori intenzioni. E forse si salvano solo dei piccoli film senza pretese di capolavoro. E questo ricade anche sugli attori, su una brava Finocchiaro ma un po’ evanescente nel suo dramma personale (pensiamo al confronto con una Magnani), o Beppe Fiorello attore ‘preciso’ e gentile ma monocorde e da versione televisiva. Si salva per una sua ‘identificazione’ Filippo Pucillo (Filippo) che ha recitato in tutti e tre i film di Crialese.

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