Abbiamo visto This must be the place regia di Paolo Sorrentino.
Giunge dopo molta attesa il film di Sorrentino, un’attesa come non si vedeva da molti anni. Qualcuno è partito da Genova o da Imperia per andare a vedere This must be the place a Nizza, il film lì è uscito con qualche settimana d’anticipo, qualcun altro, trovandosi a Parigi, lo è andato a vedere in inglese con i sottotitoli. Un’attesa particolare, forse perché il suo precedente film Il Divo è stato un film innovativo per scelta stilistica e originalità formale, rinnovando il genere “politico” che è stato in passato uno dei nostri cavalli di battaglia ma a volte ampolloso e nel tempo criptico. La critica invece che lo ha potuto vedere al Festival di Cannes si è divisa, quella straniera è stata piuttosto dura e fredda, qualcuno è arrivato a scrivere “Un tacchino che si crede un pavone”, quella italiana a sua volta si è divisa tra chi lo ha reputato un film importante, tra chi ha avuto delle riserve e chi, come Goffredo Fofi, lo ha stroncato assieme al Cinema italiano. Poi ci sono quelli che dicono la fesseria “Tenendo conto del Cinema italiano di oggi è un buon film”. In realtà analizzando il film dobbiamo fare dei distinguo sia narrativi che estetici, come in parte sono stati fatti per i quattro precedenti film del regista napoletano: L’uomo in più (2001), Le conseguenze dell’amore (2004); L’amico di famiglia (2006); Il divo (2008). A un talento registico indubbio e a una ricerca formale intensa (l’autore ha dichiarato – tra l’altro – che è più interessato a raccontare persone piuttosto che storie) si sovrappone a volte un’originalità in seconda battuta (l’arrivo estetico di alcune inquadrature o di alcuni personaggi minori ci ricordano Kaurismaki, i fratelli Coen e in questo film specifico anche qualcosa del Wenders anni Ottanta – l’attrice Frances McDormand, moglie a interprete di alcuni film di Joel Coen; Harry Dean Stanton è stato il protagonista di Paris Texas di Wenders), un eccesso un po’ provinciale (compaiono improvvise frasi complesse, troppo articolate, quasi dei massimi sistemi) e un girare a volte a vuoto quasi per narcisismo (il semivideoclip di David Byrne, interessante ma inutile) fino a sfiorare il parodismo e il caricaturale (per esempio il protagonista è conciato sì come Robert Smith, leader dei Cure o vagamente assomiglia a Ozzy Osbourne, ma nell’indossare quelle ‘forme’ il fisico e il volto di Penn si trasforma in caricatura e non in ‘omaggio’). Insomma ci troviamo davanti ad un ottimo regista – di cui non riusciamo tuttavia a capire veramente cosa ci voglia dire – e che adesso, dopo premi, riconoscimenti, e all’età della ragione, dovrebbe contenere gli effluvi e certi eccessi continuando nella sua ricerca stilistica alta.

Il film è diviso sostanzialmente in due parti in sé, la prima parte è ambientata in Irlanda, la seconda negli Stati Uniti. Cheyenne è un cantante-mito degli Anni Ottanta, un po’ punk e un po’ rock, da una ventina d’anni si è ritirato con la moglie in una villa algida ed enorme di Dublino e passa il tempo tra centri commerciali, giocando nella piscina vuota di casa e cercando di far fidanzare una giovane amica dark triste con qualcuno. Ha cinquant’anni, un cervello un po’ fuso a causa dell’eroina e dell’alcool che ha consumato in gioventù, una risatina un po’ da castrato, una voce querula e soffia sul capello che gli scende quando è nervoso: è sicuramente depresso. Da cosa? Forse perché non è riuscito a crescere, forse perché non ha stima in se stesso, forse perché non vede il padre da trentacinque anni e si sente mal giudicato dal vecchio; probabilmente per le tre cose messe insieme giacché fanno parte della stesso habitat emotivo. In questa prima parte – forse la più interessante, un po’ ad un Antonioni d’oggi – Cheyenne gira a vuoto, si mette il rossetto rosso e spiega in un ascensore a quattro donne blateranti come farlo durare un giorno intero sulle labbra. In queste giornate vuote, frequenta un amico ciccione che gli fa da broker ed è anche un incredibile seduttore, si ritrova in casa qualche cantante che vorrebbe farsi produrre un disco ed ha qualche specie di rapporto sessuale che però soddisfa solo la donna, una pompiera sempre allegra e ottimista. Dovrà succedere qualcosa nella vita di Cheyenne e infatti gli giunge una telefonata: suo padre sta morendo, ma lui ha paura dell’aereo e prende una nave giungendo troppo tardi al capezzale. Un breve rito ebraico e la funzione termina e forse solo adesso viene a sapere che suo padre ha trascorso la vita alla ricerca dell’aguzzino che ad Auschwitz lo ha fatto soffrire. Cheyenne invece di ripartire decide di mettersi alla ricerca dell’ex nazista e quindi di riconciliarsi con il padre e con se stesso (purtroppo banale che alla fine la rock star cambi look perché è maturato e si trasformi nel viso sgualcito di Penn). Trova un signore che gli presta un monovolume per raggiungere il lontano Ovest, e inizia il viaggio nella provincia americana, mostrando niente di nuovo ma una serie di foto da turista per caso (infatti Sorrentino fa dire a Cheyenne che gli stanno sulle palle i viaggiatori) ma questo non giustifica che quello che si vede siano il pistacchio più grande del mondo, qualche casetta di legno colorato, una birra gigante al bordo della strada, il solito orizzonte sconfinato e i motel solitari e di terz’ordine. In questo si capisce quale sia la differenza tra un autore internazionale come Wenders e un Sorrentino che va a fare un film in America: è il come raccontare le emozioni, la presa di coscienza di una rock star scoppiata, il viaggio come ignoto che trova una mèta e un costruire un crescendo emotivo che qui non c’è. Cheyenne è sempre uguale a se stesso, risatina, risposta che sembra un aforisma fiacco (“Oggi nessuno lavora. Ognuno fa qualcosa di artistico”), e anche quando incontra colui che gli permetterà di trovare l’ex nazista nascosto nell’immenso vuoto della natura, il solito bravo e tenero Harry Dean Stanton, la conversazione sarà sui trolley (non che sia sbagliata la scelta, ma quando osi devi osare fino in fondo).
Interessante invece la vendetta che Cheyenne trova e attraverso la quale mostra di trovare se stesso, la sua età e il suo passato.
Un’ultima considerazione, ma è possibile mai che per raccontare un icona rock bisogna mettere sullo sfondo argomenti di una certa importanza come l’Olocausto, il diritto all’odio come sopravvivenza, il bilancio di una vita di un cacciatore di nazisti, la provincia americana dolente e solitaria, il rapporto padre-figlio, un tipo di musica che può portare anche alla morte di giovani che scovano il loro lato oscuro?

Andando per sintesi, una regia originale ma che a volte va a vuoto, una sceneggiatura con buone intenzioni ma che rifugge dalla drammaturgia, dei mostri sacri della recitazione – Penn, Frances McDormand, Dean Stanton – che svolgono con diligenza il loro ruolo senza tuttavia impegnarsi veramente, una colonna sonora deludente che sembra girare intorno solo al pezzo che ha dato il titolo al film.

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