Quando si parla di qualcuno in attività da parecchi decenni diventa difficile presentarlo. Avendolo anche frequentato in diversi periodi di questi decenni diventa ancora più difficile. Enrico Deaglio è stato ed è un grande giornalista, ma l’etichetta non basta a spiegarlo. Infatti facendo il giornalista (e prima di diventare altro) non si è accontentato di descrivere la realtà, ci si è azzuffato, e ha diretto per molti anni un quotidiano come Lotta Continua. Lo ricordo mentre si aggirava con incredibile calma nel caos che ogni giorno si trasformava in giornale. Dirigeva con calma e ironia. Quando scoppiava una rissa sotto casa, a Trastevere, mentre io mi infuriavo e chiamavo i vigili lui, dal piano di sopra, guardava dall’alto la scena, come uno spettacolo alla fin fine per niente grave.

Questo sguardo lo segnalo perché è una sua cifra stilistica che ritroviamo intatta nel libro che ha appena scritto: La zia Irene e l’anarchico Tresca, Sellerio editore. Deaglio ha sempre scritto molto bene, e con apparente facilità. (Non era il solo in Lotta Continua a scrivere bene o addirittura molto bene, sarebbe interessante approfondire… e non solo sul versante barricadero, c’era anche Valentino Bompiani tra i collaboratori.) Infatti Deaglio ha scritto numerosi libri, e qui voglio ricordare almeno quello su Perlasca, La banalità del bene, 1991. Un gran bel libro, del quale si conserverà memoria. Da vero flaneur cosmopolita e metropolitano Deaglio entra in questo suo romanzo quasi in punta di piedi, con un registro quasi comico. La porta d’accesso è quella dello spionaggio, che essendo italiano ha subito qualcosa di grottesco. Un micro-ambiente dopolavoristico lungo il Tevere è sede di una cellula quasi dormiente ma dalla lunga memoria. In questa memoria si intrecciano le storie di tutti i soggetti politici e culturali che hanno portato il Paese alla ricostruzione ma anche al buco nero nel quale navighiamo. Nel libro si evocano gli scempi edilizi dell’epoca, che ora sono la realtà immodificabile del nostro paesaggio decadente. Del resto nel principio è sempre scritta la fine. Ma queste storie nazionali già abbastanza aggrovigliate si intrecciano a loro volta con la storia degli Stati Uniti, dell’URSS staliniana e del resto del mondo. Il romanzo di Deaglio si dà il non facile incarico di tenere tutto questo insieme.

La trama è solo apparentemente leggera, presto diventa labirintica. Un signore riceve una strana eredità da una zia battagliera e anticonformista passata a miglior vita: una valigia. Che gli viene consegnata dalla cellula dormiente ma non troppo. Essendo stata la zia, comunista di vecchia scuola terzinternazionalista, collaboratrice dei servizi segreti italiani la valigia sarà piena di segreti. Che spingeranno il romanzo indietro nel tempo (la fine della seconda guerra mondiale, che coincide anche con l’inizio della guerra fredda, che gli storici dovranno per forza retrodatare) e nello spazio, nella New York anni 30-40 dove il post-fascismo mafioso si fonde con alcune istituzioni centrali dello Stato americano. La guerra, l’espansione nazifascista, lo spettro di Stalin. Deaglio sposta il baricentro più indietro, nella guerra civile spagnola, e lo fa non a torto, anche se il gioco potrebbe essere spostato ancora più indietro, in Francia e prima ancora in Germania, dove le stesse forze destabilizzanti giocavano una partita molto simile: nazisti e comunisti staliniani si sfiorano in diverse occasioni, trovandosi ad avere gli stessi nemici, che si chiameranno via via Rosa Luxemburg o Andrés Nin, molto prima del patto Ribbentrop-Molotov. Tra le vittime dello stalinismo in Spagna anche l’anarchico Camillo Berneri, che giustamente Deaglio ricorda, giunto in Spagna con i militanti di Giustizia e Libertà di Carlo Rosselli, e ucciso per strada da uomini di Vidali o da Vidali stesso. Esattamente come Nin. “E fu a causa della Spagna che tutta la nostra storia viene a conclusione. È a causa della Spagna, prima ancora che dell’Italia, che Vidali, Tresca, Modotti, Togliatti, Trotsky, Mussolini, Hitler, Churchill e Roosevelt vengono a trovarsi sullo stesso palcoscenico”.

Prima di accennare alle implicazioni narrative di questi eterni snodi storico-politici mai chiariti fino in fondo, voglio insistere sullo stile di Deaglio. La parola sprezzatura ha un padre e una data di nascita, ma descrive uno stile noto da sempre.  Il suo contrario è la parola affettazione, che implica ostentazione dello sforzo creativo e sua continua esibizione virtuosistica. È Baldassarre Castiglione in Il cortigiano (ben evidenziato nella Crestomazia leopardiana) che accettando il neologismo lo definisce, “una certa sprezzatura, che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza pensarvi”. Con questo stile il libro di Deaglio ci condurrà verso liti familiari e amicali, perché se letto davvero questo romanzo farà litigare moltissimo.

Deaglio quasi per non sbilanciarsi (ma anche questa è sprezzatura) concede un certo fascino a un inquietante co-protagonista della storia, l’eroe-assassino Vidali, che ha introdotto la zia nei servizi segreti. Fascino che non fa presa su di me come lettore: lo consideravo persona spregevole prima e ancor più spregevole la trovo adesso dopo le tante utili prove presentate da Deaglio. In una storia di spie la verità esatta è difficile da scrivere. C’è una visione letteraria di questa attività (e cinematografica) completamente inventata e ai limiti del ridicolo. Le spie di cui si occupa Deaglio sono quelle vere. In tempi di guerra, quando diventano essenziali, sono la linea più esposta: le perdite superano quelle contate sul campo; una grande spia americana protagonista dell’immediato dopoguerra italiano, Peter Tompkins, parla di perdite con percentuali vicine all’80 per cento. Almeno venti dei fucilati alle Fosse Ardeatine erano informatori e collaboratori dell’OSS, organizzazione statunitense che prenderà successivamente il nome di CIA. Un libro che andrebbe letto in parallelo al romanzo di Deaglio è proprio quello di Tompkins, L’altra resistenza (ristampato dal Saggiatore anche nei tascabili), fondamentale per capire le origini della strana democrazia italiana sorta dalla Resistenza. Di questo libro trascrivo per intero la dedica: “a Raimondo Craveri, che ha ispirato questo libro e a tutti quei coraggiosi partigiani che hanno sacrificato liberamente la vita per ridare all’Italia una vera democrazia.” I comunisti italiani hanno certamente svolto un ruolo importante nella Resistenza italiana, ma erano anche parte di un impero che di comunista non aveva più nulla. Molti comunisti italiani sono stati nient’altro che esecutori di ordini dati da una struttura dittatoriale molto simile a quella del nemico che combattevano. Per non parlare della vittoria di Stalingrado: eroismo-gulag. La storia è piena di contraddizioni insanabili, ma anche di bivi. E il bivio dello stalinismo si manifesta in Germania già prima di Weimar, e poi in Spagna e in Francia. Il Comintern ha responsabilità enormi sulle origini del nazi-fascismo, le stesse che hanno uomini come Vidali e come Togliatti. Attraverso il personaggio della zia Irene Deaglio adombra un coinvolgimento diretto nello spionaggio italiano. Di questo il libro dà un’interpretazione diversa dalla mia: secondo me si è trattato di un coinvolgimento parziale, più burocratico che effettivo. La stessa obiezione interpretativa è possibile anche sul ruolo della mafia nell’Italia del dopoguerra, reale ma forse non determinante. Peter Tompkins liquida velocemente il capomafia incontrato a Palermo prima dello sbarco (non dimentichiamo che lui è la testa di ponte dell’OSS in Italia). Dice più o meno: gli ho dato un mucchio di soldi e lui non mi ha detto niente che non sapessi già. Il rapporto c’era, naturalmente, ed era nato esattamente a New York nei termini ben raccontati da Deaglio.

Ho detto del luogo, della tana spionistica in cui origina la storia. Il protagonista, Marcello Eucaliptus, riceve lì dalla piccola congrega la misteriosa valigia lasciata dalla zia proprio a lui. C’è una cerimonia di consegna, solenne il giusto. La compagnia è così composta: “Cirincione, compito e cerimonioso. Micioni, un po’ troppo simpatico. Martinez, uno che mette paura.
De Vitis, l’intellettuale di sinistra. Patrizia e Ada, così belle e misteriose.”

È una valigia particolare, a soffietto, e “contiene, per usare dei termini aulici, delle verità che – chissà? – forse andranno a cozzare con altre verità, o forse serviranno a formare, armoniosamente, una verità superiore, una verità migliore. E la ricerca della Migliore Verità è uno degli scopi per cui questo nostro club è stato fondato.” Nella valigia, in diversi strati, si nasconde infatti la verità, che apparirà come un’ombra più che come prova scientifica. Non svelerò altro della complessa trama, che a un certo punto non ha più bisogno di alcuna fiction e diventa Storia.

Nei capitoli americani emerge la figura centrale del libro, ed è una figura storica dimenticata: l’anarchico di origine italiana Carlo Tresca. È la figura chiave scelta da Deaglio, quella che ci consente di identificarci finalmente in qualcuno. “Carlo Tresca, pensò Marcello, affascinato dalle storie su di lui, dalle centinaia di aneddoti e ricordi che andava scoprendo, fece una brutta fine, ma ebbe davvero una vita meravigliosa. Invece di essere dimenticato, dovrebbe essere ricordato come padre della patria. È raro infatti trovare qualcuno le cui azioni, la cui sola presenza aiutarono di più a cambiare le cose. Il giovane avvocato di provincia, arrivato da una piccola e sonnacchiosa città italiana, fu l’agitatore sindacale che guidò centinaia di migliaia di lavoratori immigrati, provenienti da tutti gli angoli del mondo, soli, spersi e impauriti, a parlare l’uno con l’altro e ad organizzarsi per conquistare migliori paghe, coscienza, istruzione. Fu l’anarchico che si prese sulle spalle la difesa legale di Sacco e Vanzetti e portò il loro caso davanti al mondo.” È necessario ricordare ai più giovani che gli anarchici in America non erano quattro gatti. La rivista di Tresca, Il Martello, vendeva decine di migliaia di copie. Dall’attentato a Wall Street all’esecuzione di Sacco e Vanzetti ce ne sarebbero di storie da raccontare. L’ultimo pasto Tresca lo consuma con John Dos Passos al John’s, noto ristorante frequentato da antifascisti italiani, ma anche da mafiosi che invece fascisti lo erano, e come. Pronti a sganciarsi dal Duce appena sarà necessario. Tresca ha avuto uno scontro con uno di loro. Ma pensa che la mafia non oserà ucciderlo. Ha denunciato i mafiosi fascisti e le loro ramificazioni in America, è famoso e stimato. Ha lasciato a casa la compagna, Margaret, che  veniva da una famiglia patrizia ma era stata amica personale di Trotsky. “Tresca ha quasi 64 anni e non è più in buone condizioni di salute: mangia, beve, fuma troppo. Il suo corpo è stanco. La sua mente è ancora vivacissima, ma in essa cominciano a passare troppi sinistri presagi.”

 

I due parlano a lungo, entrambi delusi e offesi dal folle settarismo stalinista e consapevoli di essere entrambi su sponde sbagliate: l’anarchismo e il trotskismo sono i grandi sconfitti della sinistra internazionale, in fondo sono loro i veri nemici di tutti gli altri. Poco dopo, per strada, nel centro di Manhattan, Tresca viene ucciso con vari colpi di pistola. È l’11 gennaio 1943. L’assassinio è stato realizzato da uomini della mafia, ma Vidali non è lontano e l’ispiratore sembra essere lui. Difficile mettere al proprio posto le figure che si muovono in quel momento sulla scena. La mafia muta orientamento, abbandona Mussolini al suo inevitabile destino e stringe nuovi patti. Poco dopo, in Europa, avvengono altri cambiamenti di fronte, il Gattopardo è in azione. Tompkins racconta del patto che il SIM badogliano stringe in Svizzera con Dulles, capo dell’OSS (CIA) nel corso del 1944. A dirigere quel che sarà il cuore dei servizi segreti italiani nati dalla resistenza saranno fior di fascisti: tra loro gli assassini dei fratelli Rosselli. È in atto una delle più grandi sceneggiate storiche del novecento, che raggiungerà il suo apice nel 1946 con l’amnistia voluta da Togliatti, che non consultò neppure il suo partito. Marcello Eucaliptus si indigna, e riassume in poche battute il senso politico di queste pagine. ” Se ci pensi, Carlo Tresca era un po’ il Pasolini dell’epoca. Anche lui gridava “Io so!”. E per questo l’hanno ammazzato! Come Pasolini, che scrive l’articolo nel 1974 e viene ammazzato appena un anno dopo…” E impersonando Tresca continua: “Io so che l’industriale Generoso Pope, il più importante legame di Mussolini con l’America, è stato arruolato dal governo americano. Io so che Pope, i mafiosi, i comunisti italiani e gli americani si sono messi d’accordo per garantire che dopo Mussolini non ci sarà vendetta contro il fascismo, ma ordinaria amministrazione. E che i loro soldi non saranno toccati … io so che Generoso Pope è in combutta con i più grandi gangster di New York, da Lucky Luciano, a Frank Costello, a Frank Garofalo, a Vito Genovese, che adesso se ne sta in Italia e fornisce la droga a Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri.”

Tresca stava progettando il suo rientro in Italia, dove avrebbe partecipato attivamente alla vita politica. Deaglio si è innamorato dell’idea che il suo ritorno avrebbe modificato il corso della nostra storia. Che effetto avrebbero fatto le sue pesanti parole di verità sulle folle italiane, affamate di pane e di libertà? I comunisti staliniani americani e italiani parlarono con disprezzo, di Tresca, anche dopo l’omicidio, e sembrarono contenti d’essersene liberati. Non parteciparono ai suoi imponenti funerali. E non parteciparono neppure al famoso primo maggio di Portella della Ginestra nel 1947. Nessun dirigente staliniano (e Togliatti staliniano era fino al midollo) si presentò a quel comizio, varie testimonianze parlano di “avvertimenti”. Come ho detto questo libro susciterà liti e discussioni, almeno tra chi ancora in qualche modo si considera di sinistra. Saranno liti tra reduci sui tempi andati? Siamo sicuri che decifrare e conoscere davvero la nostra storia recente non serva più a niente?

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