Abbiamo visto Vallanzasca – Gli angeli del male regia di Michele Placido.
Michele Placido negli anni è diventato un buon artigiano del cinema italiano, sa essere un ottimo direttore di attori, un discreto regista e tratta argomenti dell’Italia del Secolo Scorso cercando di capire misteri e tragedie spesso senza un finale chiaro nella realtà di quei tempi. Devono essere stati anche anni fondamentali per Placido, perché in genere un regista fa al massimo un paio di film ‘storici’ sugli stessi anni (eccezione Luigi Magni che ha fatto quasi solo film sul Risorgimento e sulla Roma papalina), invece lui prima di questo non riuscitissimo Vallanzasca ha realizzato Il grande sogno (2009), Romanzo criminale (2005) e andando rapidamente all’indietro Del perduto amore (1998) e Un eroe borghese (1995). Placido si è ritagliato uno spazio nel panorama del cinema italiano, inserendosi in parte in quello “civile”, e questo è un suo indiscutibile merito non essendoci più un filone del genere in Italia e i solitari tentativi spesso sono risultati afasici, satolli e inconcludenti. Ma Placido come persona e come sceneggiatore ci sembra molto istintivo, con un carattere fiammiferino che condiziona quel lato delle storie che richiederebbero più freddezza ideologica e razionalità espressiva. Errore che non capitava a maestri del cinema italiano come. in primis, Francesco Rosi, ma anche Elio Petri o Giuliano Montaldo. E anche in quest’ultimo film c’è un istinto a indugiare sui protagonisti, sinceramente troppo simpatici e piacioni come Vallanzasca e soprattutto Turatello (che probabilmente saranno stati anche quello ma soprattutto “degli angeli del male” che hanno provocato morte e non solo si sono trovati in mezzo alla morte casualmente). E poi, per noi, “l’idea” del film collima spesso con un’analisi, se non ideologica, politica dei personaggi e del tempo in cui vivono, non si può raccontare un’epoca solo cronologicamente; perché chi l’ha vissuto ne sente la mancanza e chi non ha vissuto quegli anni vede solo dei banditi che sparano e ammazzano per una vita migliore. Se vogliamo fare un paragone, citiamo un non eccelso ma efficace Banditi a Milano di Carlo Lizzani.

Il film inizia quando Renato Vallanzasca ha otto anni, fa parte (siamo alla fine degli Anni Cinquanta) di quel mondo ancora primordiale e quasi preindustriale che cantava Celentano con Il ragazzo della via Gluck, lui però è di zona Lambrate dove la madre aveva un negozio d’abbigliamento. il padre invece era sposato con un’altra donna (ma nel film tutto questo non c’è, anzi appare una gentile coppia di genitori silente e affezionata). E’ già un bimbetto carismatico ed ha una piccola banda, con loro prova a liberare una tigre dalla gabbia di un circo e viene in contatto per la prima volta con la polizia. C’è un salto temporale e ritroviamo Renato adulto e già con il soprannome di “Bel Renè”, è un bulletto di periferia, protervo, carismatico, pronto a tutto e con una facile presa sulle belle ragazze di night. Prima rapina a un portavalori cercando di non far male a nessuno. Tutto fila liscio, ma la polizia lo incastra e subisce una condanna a sei anni di carcere. Ma oltre a non fare “la spia” a non piegarsi ai soprusi in carcere, a essere un capo, è anche autolesionista, si taglia con una lametta sul corpo, sanguina copiosamente, trangugia chiodi per protestare. Evade, accetta che la sua donna con cui ha un figlio ha deciso di non aspettarlo, ritorna “alla grande” nella malavita milanese, con il solito armamentario di rapine, bella vita notturna, giocate a poker e bische clandestine; poi inizia lo scontro con il ras delle bische Francesco Turatello. Un blocco del film corposo e “troppo simpatico” in cui i due si scontrano e si incontrano dalla strada al carcere inizialmente con morti reciproci e poi diventando amici per la pelle. Altre rapine, carcere ed evasione da una nave durante un trasferimento. Assistiamo a un processo dall’atmosfera da spettacolo leggero e poi con la condanna a vita tutti diventano seri. Renato Vallanzasca sarà condannato complessivamente a quattro ergastoli e a 262 anni di prigione. La scena finale e la conferma dell’idea centrale del film di Placido, Vallanzasca viene fermato ad un autogrill da un giovane poliziotto inesperto di vent’anni, Renato ha la pistola, potrebbe reagire, ma non vuole uccidere un ragazzino, sorride e si fa arrestare.

Sappiamo bene che il cinema non è la realtà, che ci sono tante licenze narrative (ed è anche giusto) ma in questo film onestamente non si comprende chi sia stato Vallanzasca. Facendo un bilancio sembra che sia stato un ribelle, simpatico, amato dai suoi compari, rispettato anche dalla camorra di Cutolo, desiderato da migliaia di donne e in fondo un malavitoso che non voleva arrecare morte e danni ma solo vivere sulle spalle della società. In realtà anche un fatto veramente grave come far insorgere un carcere intero, sequestrare dei poliziotti, bruciare e distruggere suppellettili e celle soltanto per poter ammazzare un suo amico pentito sembra un fatto come un altro e non che lui sia veramente un criminale pericoloso; risulta quasi un personaggio romantico shakespeariano.

Un film che si vede con facilità e leggerezza, con una buona regia, un ottimo montaggio, uno splendido cast d’attori e da segnalare l’ottimo Filippo Timi.

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