Cinquant’anni senza Elio Vittorini: l’intellettuale siciliano morì a Milano il 12 febbraio 1966. In questo pezzo ricordiamo la sua avventura, non priva di travagli, alla guida del Politecnico.

È il dicembre del 1947 quando esce il numero 39 del Politecnico, la “rivista di cultura contemporanea” diretta da Elio Vittorini per Einaudi. Il pezzo di copertina è di Vasco Pratolini, un’inchiesta-reportage sulla città di Firenze. “I fiorentini sono faziosi, beceri, geniali. Il loro spirito è bizzarro perché è composito, sincero soltanto quando è cinico”, scrive[1].

Nella rubrica delle lettere, un tale G.C. da Biella chiede conto al direttore “delle critiche della Pravda a Pablo Picasso con la sua conseguente espulsione”. Vittorini risponde: «Non mi risulta che Picasso sia stato espulso dal P.C. Un’espulsione, per ragioni simili, sarebbe una novità sensazionale nei metodi del P.C. e non saprei assolutamente spiegarmela. Non sarebbe giustificata da nessun punto di vista». Poco sotto, un riquadro invita i lettori a regalare un abbonamento al giornale per le feste in arrivo. Dono non azzeccatissimo, se non altro perché proprio con il numero 39 l’esperienza del Politecnico – nato settimanale nel settembre ’45 e diventato mensile un anno e mezzo dopo – giunge al capolinea.

Se Picasso ha i suoi grattacapi con la Pravda[2], la grana di Vittorini assumerà le severe sembianze di Palmiro Togliatti. Fin dagli esordi, il Politecnico avrebbe dovuto decisamente agganciarsi alla linea rivoluzionaria del Pci. O almeno queste erano le intenzioni di Vittorini, che non esita a definirsi comunista; d’altro canto, Togliatti e compagnia guardano con attenzione al nucleo di intellettuali che gravita intorno alla redazione di viale Tunisia, a Milano.

Ma bastano pochi numeri della rivista per chiarire a entrambi le parti che, insomma, dev’esserci stato un equivoco. La visione politico-culturale di Vittorini è tutt’altro che ortodossa, e il suo lavoro al Politecnico – generoso, appassionato, a volte persino caotico – ne è uno specchio.  Che riflette, ad esempio, la grande fascinazione per la letteratura e il mondo americano. Uno dei suoi primi colpi è la pubblicazione a puntate di Per chi suona la campana di Ernest Hemingway[3]. Racconta: «Era il 1942 quando riuscii ad avere, via Svizzera, una copia di For whous the bells tolls. Cominciai allora io stesso a tradurlo, sapevo che presto non ci sarebbe più stato Mussolini ad impedire di pubblicarlo. Ma poco tempo dopo venni arrestato, e la mia traduzione andò perduta col testo». Poco male: la prima puntata del romanzo di Hemingway campeggia sulla rivista, accompagnata da un disegno di Renato Guttuso.

politecnico_vittorini

Non solo Hemingway, però. Sul primo numero del Politecnico, nell’elegantissimo formato ideato da Albe Steiner, c’è un pezzo di Henry Miller (titolo sibillino: L’America non è sempre il paradiso). Più avanti troveranno spazio opere o interventi di Charlie Chaplin, Walt Withman e persino di un altro zio Walt d’America, Disney in persona. Accade sul numero 20: l’articolo firmato dal creatore di Mickey Mouse («Walt Disney: la mia officina») è corredato con disegni di Paperino – definito nella didascalia un papero furente – e Topolino («Il topo ragazzo Mickey Mouse è uno dei personaggi più sconsolanti di Disney: euforico, furbo ma non troppo. Un uomo che non sa di essere un topo[4]»).

E insomma se è vero che fu il Politecnico a pubblicare le prime lettere dal carcere di Antonio Gramsci, e che in copertina figuravano pezzi come «Principio di carattere e principio di casta[5]», e all’interno saggi di Georg Luckás, d’altro canto l’ortodossia filo-Pci era ben altra cosa. La tentazione è quella di immaginare lì a Botteghe Oscure una sequela di alzatine di spalle a ogni numero del Politecnico.

Ad esempio: sin dal secondo numero Vittorini affida a Oreste Del Buono (e ad altri collaboratori) il compito di “sdoganare” il fumetto[6], con l’obiettivo di illustrare la dignità del nuovo formato: ecco i balloons con Braccio di Ferro, Barnaby o il signor O’Malley. Passano pochi giorni e Nilde Iotti censura su Rinascita la “sottoletteratura dei fumetti”, incapace di veicolare contenuti ideologici, formativi o culturali. Anni dopo, intervistato da Umberto Eco su Linus, Vittorini dirà candidamente: «Avevamo cercato di servirci dei fumetti come mezzo di divulgazione letteraria, ma si trattava più che altro di un divertimento per noi stessi. Del resto uno spirito di fumetto c’era anche nel tipo di impaginazione che usavamo per il Politecnico».

Ma la dialettica, al Politecnico, era piuttosto vivace anche dall’interno. Franco Fortini, al fianco di Vittorini dalla prima uscita della rivista[7], tiene una rubrica intitolata Diario di un giovane borghese intellettuale. Ecco quello che compare sotto la voce 13 settembre: «Vittorini mi scrive, indignato per il mio “Kafka” “astruso e inutile”. Dice che è contro lo spirito del Politecnico. Ho telefonato, molto di malumore, a Milano, ma Vittorini non c’era […] Può darsi che sia davvero astruso e inutile, letterario e sbagliato. La buona volontà non basta, è noto. Ed effettivamente, scrivendolo, sentivo di non aver risolto quasi nulla. Ma è possibile oggi parlare altrimenti di Kafka? Non si corre il rischio, parlandone, di riprendere il tono degli innumerevoli articoli che compaiono dovunque sulla sua opera, articoli psicologico critici, mistico letterari, e francamente insopportabili?». La polemica si riferisce al numero 37: il servizio di copertina presenta “cinque inediti di Kafka”, accompagnati da due pezzi critici, uno di Carlo Bo e uno di Fortini.

La verità è che di carne al fuoco, nella cucina di viale Tunisia, ce n’era davvero tanta. È come se Vittorini – e i suoi collaboratori – non vedesse l’ora di rovesciare sulla nazione tutte le istanze represse da vent’anni di dittatura, con una miscela di curiosità intellettuale e zelo pedagogico. La rivista considera ogni linguaggio una tecnica, ma non vuole eccedere negli specialismi. Parla ai lettori in modo rigoroso ma non accademico; invita a uscire «dai compartimenti stagni dei tecnicismi e a rendere traducibili i diversi linguaggi, riconducendoli ai concreti motivi umani da cui hanno avuto origine».

Anche in questo caso, l’accavallarsi di idee e spunti rischia di generare disarmonia – e alzatine di spalle a Botteghe Oscure – eppure le intenzioni sono decisamente moderne. Ecco quanto scrive Vittorini a un suo redattore, Marcello Venturi[8], sulla struttura e sulla direzione che avrebbe dovuto seguire per scrivere i suoi reportage: «Vorrei ora impegnarti in un lavoro nuovo. […] Prendendo come esempio l’articolo sulle Puglie, desidererei che qualcosa di simile tu mi facessi su qualche paese tipico della tua zona. politecnico Come lavorano, come mangiano, come amano gli uomini e le donne di famiglie di diversi ceti sociali, le condizioni della donna e dei giovani, le abitazioni di uomini ricchi e poveri. Questo lo schema, ma tutto deve essere raccontato, vivo». E reportage del genere compariranno via via sui numeri del giornale. Italo Calvino ne firma due (Liguria magra e ossuta e Riviera di Ponente), Giorgio Caproni uno (Viaggio tra gli esiliati di Roma).

(Da rivedere la sezione dedicata alla critica musicale: con un pezzo siglato “Firmus”, il Politecnico intona il funerale del jazz, perché «appare chiaro che artisticamente parlando è stato un fenomeno assai circoscritto e di modesta portata[9]»).

Dopo tanto abbozzare e far grossomodo finta di nulla, la prima vera cannonata per il Politecnico arriva per mezzo di un articolo su Rinascita, firmato da Mario Alicata. Dirigente del Pci, intellettuale raffinato – lavorò con Giaime Pintor e Luchino Visconti – Alicata scrisse: «Bisognava lavorare a una cultura nuova, e lavorare per una cultura nuova significa riuscire a creare e diffondere un linguaggio nuovo. Orbene, il linguaggio col quale essi vogliono parlare è risultato quanto mai astratto ed esteriore: intellettualistico, insomma. Mi si chiederà che cosa intendo per intellettualismo. Ecco, per esempio secondo me è intellettualismo giudicare “rivoluzionario” e “utile” uno scrittore come Hemingway, le cui doti non vanno al di là d’una sensibilità da “frammento”, da “elzeviro”, e “rivoluzionario” e “utile” un romanzo come Per chi suona la campana,che rappresenta la riprova estrema dell’incapacità dell’Hemingway a comprendere e a giudicare (cioè, poi, a narrare) qualcosa che vada al di là d’uno suo quadro di sensazioni elementari e immediate: egoistiche».

Ora, si capisce che per Vittorini le parole “Hemingway” e “incapace” non possono comparire nella stessa frase, eppure il direttore del Politecnico prova a non cadere nella provocazione e a rispondere nel merito. E quindi, risponde: «Qui si incorre in una serie di errori. Si vede in Alicata il Partito comunista stesso».

E: «L’errore principale è di ritenere il Politecnico comunista per il fatto di essere diretto da un comunista».

E: «La politica agisce sul piano della cronaca, la cultura sul piano diretto della storia».

In un crescendo wagneriano la polemica giunge al culmine. A scrivere al Politecnico è stavolta il segretario del Pci in persona, Palmiro Togliatti. La lettera, come riferisce nel sommario Vittorini, arriva quando il giornale era “già pronto per andare in macchina”, e viene pubblicata nella sua versione integrale. L’immagine che mi viene in mente di Togliatti si sovrappone a quella di un gatto. «Ma davvero si può arrivare a un punto tale per cui una rivista comunista non potrà esprimersi criticamente a proposito di una pubblicazione culturale fatta da comunisti, senza che s’apra la ridicolissima campagna sulla nostra intolleranza, sul soffocante controllo che noi pretenderemmo esercitare sopra le attività intellettuali?».

E: «La politica, tu dici, è cronaca; la cultura è storia. Falsa generalizzazione!».

E: «Quando il Politecnico è sorto, l’abbiamo tutti salutato con gioia […] Ma a un certo punto ci è parso che le promesse non venissero mantenute. L’indirizzo annunciato non veniva seguito con coerenza, veniva anzi sostituito, a poco a poco, da una strana tendenza a una specie di cultura enciclopedica, a una astratta ricerca del nuovo, del diverso, del sorprendente».

E: «A noi rincrescerebbe che il Politecnico non riuscisse a fare opera di rinnovamento. Il nostro voleva essere più che altro un richiamo alla serietà del compito che vi sta davanti».

E il punto che preferisco, dove sul finire della frase Togliatti incontra Edgar Allan Poe: «Negli ultimi tempi del fascismo, ci furono tentativi di reazione al cretinismo ufficiale; ma anch’essi scarsamente efficaci, perché mancanti di unità e anche di serietà, tanto che si esaurirono nell’attività intermittente, come un fenomeno di fuggevole fosforescenza sopra un corpo in decomposizione, di piccoli gruppi slegati l’uno dall’altro».

Vittorini scrive sul numero 35 un’accorata risposta al segretario del Pci, Suonare il piffero per la rivoluzione?, il cui culmine arriva in questi due passaggi, a): «Se Hemingway, mettiamo, si compromette politicamente, noi potremo considerare nemica la sua persona, ma i suoi libri non sono nemici, sono ancora nostri amici[10], e io ho molto in contrario a vederli rifiutati come letteratura della borghesia reazionaria»; e b): «Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell’uomo ch’egli soltanto sa scorgere nell’uomo, che è proprio di lui scrittore scorgere e che è proprio di lui scrittore rivoluzionario porre».

Ma a quel punto il destino del Politecnico, che già non era in una fase diciamo espansiva, è segnato. In una lettera inviata a Italo Calvino nel 1956, Vittorini scrisse: «Se qualcosa di pubblico mi piacerebbe di fare, di questi tempi, non sarebbe di dirigere un Politecnico, ma di tornarmene in Sicilia e mettere in piedi un quotidiano[11]». Eppure, Vittorini, che impeto, e quanta libertà, possiamo ancora ritrovare sulle pagine di quella tua rivista.

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