Ha un che di simbolico il fatto che il Festival del Cinema di Cannes di quest’anno sia caduto proprio nei giorni in cui tutto il mondo stava parlando dell’ottava stagione di Game of Thrones. Mentre sulla Croisette si vedevano i film dei mostri sacri del cinema d’autore come Pedro Almodovar, i fratelli Dardenne o Terrence Malick, ovunque sui social network si discuteva dell’epilogo della serie tv più seguita degli ultimi anni. Ed è ormai un fatto – basta lavorare nella scuola o nell’università per rendersene conto – che per le nuove generazioni l’esperienza cinematografica sia ormai un’esperienza residuale, che viene fatta raramente e solo da una minoranza già predisposta per via di un capitale culturale pregresso. L’impressione insomma, è che il più grande festival del cinema del mondo, parli ormai sempre più dai margini dell’immaginario contemporaneo (e il che è, beninteso, sia un bene che un male). Mentre le sale sono riempite da prequel, sequel, reboot di film del passato, da film con comici delle TV, o da blockbuster con supereroi e film d’animazione, l’esperienza della visione casalinga attraverso gli streaming service sta penetrando lentamente ma inesorabilmente nel nostro modo di vedere le immagini. Non è questa la sede per  affrontare un argomento tanto complesso e spinoso – i cambiamenti che Netflix e gli streaming service stanno portando all’intero comparto dell’industria cinematografica mondiale – ma è interessante notare che oltre ai processi materiali e produttivi, questo cambiamento negli ultimi tempi si sta riverberando anche sulla forma cinematografica stessa.

 

A hidden life.

È la forma cinematografica – l’idea cioè, di poter creare una storia per immagini conchiusa di una durata di un’ora e mezza o due, e che venga possibilmente vista in un luogo pubblico – che è ormai sempre più in crisi. È come se spodestato del suo ruolo di massa per ragioni storiche ed economiche, il cinema stia iniziando ad assorbire questo cambiamento anche nella sua forma. In questa edizione del Festival di Cannes si sono viste diverse opere che lavorano esplicitamente in direzione di una forzatura dei limiti della “forma film”: da Quentin Tarantino (di cui già abbiamo parlato nella scorsa puntata), che ha fatto un film di due ore e quaranta dove sono ci sono almeno un paio d’ore costituite unicamente da tempi morti, divagazioni, elementi marginali, a Abdellatif Kechiche, che ha fatto un film di tre ore e mezza formato quasi esclusivamente da un’unica lunghissima sequenza in discoteca. Un altro esempio è Terrence Malick che con A Hidden Life nel raccontare un evento storico europeo della Seconda Guerra Mondiale – la storia di Franz Jägerstätter, contadino povero della campagna austriaca che rifiutò di prestare giuramento a Hitler –utilizza tutto il prontuario di associazioni libere visive e voci off che avevano caratterizzato i suoi eterodossi ultimi lavori.

Ma a Cannes quest’anno è passata anche la serie TV di Nicholas Nicolas Winding Refn – che con Too Old to Die Young ha provato a espandere in forma seriale l’immaginario che già aveva sperimentato con Neon Demon – così come due anni fa proprio a Cannes venne presentata in prima mondiale la terza stagione di Twin Peaks di David Lynch. Ma si potrebbero fare molti altri nomi: come il filippino Lav Diaz (i cui film hanno una durata talmente estesa, a volte addirittura di otto e più ore, da essere impensabili se non all’interno di una produzione digitale) che quest’anno ha presentato il suo ultimo film alla Quinzaine des Réalisateurs, o Bruno Dumont che nella sezione Un Certain Regard ha presentato Jeanne, la seconda parte di uno strano quasi-musical sulla vita di Giovanna d’Arco tratto da Charles Péguy, che costituisce un oggetto cinematografico difficilmente inquadrabile.

 

Jeanne 2019 Bruno Dumont.

All’interno di questo scenario di crisi e transizione, di rivisitazioni di forme del passato e di ibridazioni del cinema con altre arti, Cannes ha riproposto anche quest’anno la consueta retorica della superiorità della sala cinematografica e ha deciso ancora una volta di escludere le produzioni Netflix e Amazon dalla competizione ufficiale. Tuttavia è in quello che doveva sembrare un concorso improntato esplicitamente su un’atmosfera di conservazione e su grandi autori del passato, che ci sono state le maggiori sorprese. A partire da quello che a molti – e anche a chi scrive – è parso il film più bello di quest’anno e che ieri nella cerimonia di premiazione ha però ricevuto soltanto un premio per la Migliore Interpretazioni Maschile con Antonio Banderas.

Si tratta di Dolor y Gloria di Pedro Almodovar, che è già in sala in Italia dalla scorsa settimana, e che rappresenta una tappa fondamentale e di straordinaria complessità nella riflessione ormai pluridecennale del regista spagnolo sul tema del desiderio.

 

Dolor y gloria.

Il desiderio è stato probabilmente uno dei grandi temi del Festival di Cannes di quest’anno, che è ritornato in diverse opere in diverse sezioni. La cosa è tutt’altro che scontata perché il desiderio al cinema è stato spesso rappresentato come una forza insondabile, una specie di volontà assoluta del soggetto a cui non è possibile rinunciare, e a cui nemmeno la morale o la legge dello stato sono in grado di porre dei limiti (tra i tanti esempi che si potrebbero fare, Mommy di Xavier Dolan). Abusato, tirato per la giacchetta, convocato a sproposito per progetti politici e culturali dei più ambigui, il desiderio sembra essere uno di quei termini di cui ci si riempie sempre la bocca ma in realtà si conosce poco. E non si tratta di studiarlo o di leggerne sui libri, perché del desiderio è il soggetto stesso a non saperne alcunché: per ragioni di struttura, per così dire, e non perché non se lo è studiato abbastanza. Non basterebbe infatti tutto il sapere del mondo per dirci che cos’è il desiderio, che è semmai il buco nell’edificio del sapere: è là dove c’è un punto cieco.

Ci è voluta la psicoanalisi per dirci come il desiderio sia un enigma e una domanda senza risposta, ma è stato il cinema che spesso è stato in grado di mostrarne la struttura e la fenomenologia in modo incredibilmente efficace. Dolor y Gloria rappresenta a questo proposito una riflessione davvero straordinaria. Tutto in questo film inizia dal corpo e dal modo con cui normalmente ne facciamo esperienza: ovvero tramite il dolore. Il corpo vecchio e stanco di un regista in declino – plateale alter-ego dello stesso Almodovar – che non riesce più ad amare il cinema e che non è più in grado di scrivere, girare, lavorare, è quello da cui parte un’interrogazione su se stessi in tarda età. Perché non è mai troppo tardi per provare a far parlare il proprio desiderio a partire da un corpo.

Dolor y gloria.

Gli acciacchi alla schiena l’hanno reso dipendente dai farmaci; l’insonnia dai sonniferi; ma è il dolore più grande e più difficile da curare – quello della depressione – che faranno sì che questo corpo inizi una strana e tarda esperienza di eroina. Tutto è possibile per far sì che qualcosa possa ancora essere provato, ma il corpo non lo si può lenire in questo modo, perché quello che definiamo come corpo non è mai solo la sede di un dolore meramente fisiologico, ma anche il luogo di una domanda verso se stessi (che la psicoanalisi chiama sintomo). Almodovar costruisce un intreccio in cui attraverso il ritorno a due rapporti passati – quello con un attore con cui il protagonista/regista aveva litigato anni prima e quello con un amore passato e mai dimenticato – un’interrogazione sulla propria soggettività di rara intensità. Fino alla splendida ricostruzione di una scena primaria infantile: quella in cui il protagonista da bambino, vedendo un muratore in casa propria semi-nudo, provò per la prima volta l’esperienza vertiginosa del desiderio sessuale. E infatti cadde per terra svenuto. È solo ritornando a quel punto cieco della propria soggettività – là dove il proprio desiderio per la prima volta ha trovato forma – che è possibile ritornare a vivere e a desiderare anche nell’oggi. L’attenzione e la profondità attraverso cui Almodovar ricostruisce i sentieri tortuosi del proprio desiderio e gli enigmi della propria interiorità danno un’immagine complessa della soggettività che raramente si è vista al cinema.

Tra i premiati della cerimonia di ieri – oltre a un po’ incomprensibile riconoscimento ai fratelli Dardenne alla regia, al Premio della Giuria a Les Misérables di Ladj Ly (di cui abbiamo ampiamente parlato nella prima puntata) e a Bacurau di Kleber Mendonça Filho e J. Dornelles – vanno senz’altro anche ricordati i premi dati a due registe che hanno fatto due opere di straordinario interesse: il Premio come migliore Sceneggiatura a Céline Sciamma, e poi il Gran Premio della Giuria alla regista franco-senegalese Mati Diop.

La prima è stata premiata per Portrait de la jeune fille en feu, una storia ambientata a fine Settecento che narra della giovane pittrice Marianne e del suo tentativo di fare un ritratto a Héloïse, giovane ragazza di una famiglia ricca che ha appena lasciato il convento e che è stata promessa in sposa a un nobile di Milano. Il ritratto è in questo film il tramite per accedere alla vita matrimoniale, e la sua negazione lo strumento per rifiutarlo e per porre una domanda sul proprio desiderio e la propria sessualità. Tutti i pittori che si sono cimentati in questo arduo compito hanno fallito, perché Héloïse si rifiuta di mettersi in posa e di farsi ritrarre fino a che non arriva Marianne.

Portrait de la jeune fille en feu.

Marianne, Héloïse e la serva Sophie iniziano così a passare diversi giorni insieme, in questa grande proprietà in riva al mare, e a conoscersi sempre di più, fino a che una sera parlando del mito di Orfeo ed Euridice si pongono la domanda che sta alla base del mito fondativo della riflessione visiva Occidentale: che rapporto c’è tra la visione e la vita? E la risposta che si danno è inequivocabile: Orfeo quando sta per uscire dall’Ade, si volta a guardare Euridice contravvenendo al patto stretto con gli Dei e provocandone così la morte, perchè fa la scelta del poeta, quella di guardare al posto di vivere. Le due cose non possono convivere. O si guarda o si vive (torneremo sullo stesso tema anche a proposito del film di Kechiche).

Portrait de la jeune fille en feu è una riflessione di grande intensità sul rapporto tra il desiderio e la visione. «È davvero così che mi vedi?» – chiede Héloïse alla pittrice Marianne. «Quell’immagine che sta di fronte a me, sono proprio io?» È infatti proprio attraverso l’immagine che la donna storicamente è diventata oggetto da poter essere contemplato e quindi “appropriato” con il contratto matrimoniale. Eppure, dice la protagonista del film interpretata da Adèle Haenel, «tutto scorre»: com’è possibile quindi che tutto questo che io sono venga “stabilizzato” dalla permanenza di un’immagine? Nel visivo però non c’è solo un processo di reificazione dell’identità fluida e inafferrabile del soggetto, ma c’è anche l’enigma del desiderio dell’altro. Nella domanda «allora è così che tu mi vedi?» non vi è solo l’obiezione dell’ «io non sono come tu credi», ma c’è anche il baratro che si apre sul desiderio dell’altro. Héloïse, nel chiedere a Marianne «com’è che tu mi vedi?», si chiede anche: «che cosa io sono per te?», «qual è il tuo desiderio per me?», «che cosa vuoi tu da me?». Un amore che si costituisce tramite un’immagine potrà emanciparsi da quella che è inevitabilmente una minima reificazione?

 

Atlantique.

Mati Diop invece, che è anche la prima donna nera che ha mai partecipato al concorso di Cannes, con Atlantique costruisce un film sul controcampo delle migrazioni del Mediterraneo, adottando un registro a metà tra il sovrannaturale e la descrizione realistica e politica di una generazione di giovani senegalesi, tagliata in due dall’esperienza del trauma della migrazione verso l’Europa. È abbastanza stupefacente in effetti constatare come uno degli eventi politici più cruciali degli ultimi decenni – i movimenti migratori che dall’Africa vanno verso l’Europa, con tutte le conseguenze politiche e sociali che questo ha comportato in entrambi i continenti – non abbiano avuto modalità collettive di rappresentazione simbolica ed estetica. Il trauma delle morti del Mediterraneo rimangono un evento muto, che difficilmente riesce a singolarizzarsi in modo diverso dal vittimismo o dalla speculazione politica. È proprio questo il grande interesse di un film come Atlantique, che riesce a mostrare come un evento che non ha un modo per essere simbolizzato non possa che finire per ritornare in una forma rimossa. In questo caso attraverso una maledizione che andrà a colpire tutti quelli – caporali e padroncini locali – che hanno costretto questi giovani a partire per un viaggio pieni di insidie e rischi verso l’Europa.

Per quanto riguardo il premio più importante, cioè la Palma d’Oro, la giuria ha deciso di premiare Parasite del regista sud-coreano Bong Joon-Ho: una commedia venata da sfumature tragiche (quello che nella serialità televisiva si chiamerebbe dramedy) che mette a tema le diseguaglianze sociali in una Seul contemporanea dove i poveri vivono in condizioni da indigenza emergenziale, sbarcando il lunario con lavoretti precari  e espedienti di ogni tipo, e dove i ricchi godono di un tenore di vita altissimo in ville meravigliose sulle colline della città. Il tentativo di una famiglia povera di penetrare in una villa di una famiglia benestante fingendosi come cuochi, insegnanti domestici di inglese, autisti, donne delle pulizie etc. genererà una serie di effetti comici da commedia degli equivoci sui cui il film imbastisce una trama efficace e brillante. Tuttavia il retrogusto dell’opera di Bong Joon-Ho è amaro, perché i poveri non potranno che mettersi a lottare contro altri poveri mettendo a repentaglio i pochi privilegi che sono riusciti a guadagnarsi, e finendo per essere capaci di pensare alla propria emancipazione solo nella forma della proiezione immaginaria.

 

Metkoub My Love: Intermezzo.

Tuttavia nonostante sia rimasto a bocca asciutta durante la cerimonia di premiazione di ieri e nonostante le polemiche per via di una scena di sesso esplicito che pare aver scandalizzato la platea cannoise (e soprattutto il sindaco dell’UMP David Lisnard), ci sembra valga la pena spendere qualche parola per una delle esperienze cinematografiche più interessanti (e in un certo senso estreme di questa edizione del Festival.

Si tratta di Metkoub My Love: Intermezzo di Abdellatif Kechiche, una sorta di spin-off di Metkoub My Love: Canto Uno, ed incentrato quasi esclusivamente su una lunghissima sequenza di ballo in discoteca. Al termine del primo capitolo del film avevamo lasciato il protagonista Amin – il ragazzo parigino che d’estate era tornato nella città natale di Sète, e che era stato letteralmente invaso dal desiderio e della vitalità del suo gruppo di amici – andarsene via per la spiaggia con Charlotte, l’altra ragazza che non era riuscita a integrarsi nel gruppo durante quell’estate, respinta da una delusione d’amore. Amin aveva passato l’intero film a osservare, più che a partecipare a quell’orgia di vita, di corpi, di sensazioni che scorrevano di fronte ai suoi occhi, in una specie di raddoppiamento sullo schermo del ruolo passivo dello spettatore. Munito della sua macchina fotografica, della sua cultura metropolitana parigina, della sua passione per il cinema, Amin sembrava mettere in scena il classico dualismo che ha da sempre caratterizzato il cinema di Abdellatif Kechiche: quello del rapporto escludente tra la vita e lo sguardo.

 

Metkoub My Love: Intermezzo.

Viene detto anche in una scena di Metkoub My Love: Intermezzo: “non guardare! Vivi”. Perché la vita nel cinema di Abdellatif Kechiche è sempre in un rapporto di opposizione al desiderio di guardarla. Amin desidera i corpi che la sua macchina fotografica scruta da lontano, ma non fa mai il passo ulteriore di superare la soglia di separazione della visione. Non riesce a mettersi a ballare e a godere dei corpi che pure si trovano di fronte a lui. Il suo desiderio è quello di guardare senza entrare nel quadro, nonostante le ragazze che vorrebbero sedurlo e gettarlo nell’orgia dionisiaca di quei corpi, in questa seconda parte, siano ancora più della prima. Nella lunghissima sequenza di più di due ore in discoteca, vi è una scena in cui Amin viene sedotto da Marie, una ragazza parigina che è stata appena conosciuta dal gruppo in spiaggia: lei si mette davanti a lui, gli accarezza i capelli, gli bacia il collo, gli lecca le orecchie. La sua risposta è quella di rimanere rigido e fermo, senza mai incrociare il suo sguardo, e semmai guardare oltre dove ci sono le altre ragazze che ballano sul cubo. Il suo desiderio insomma è chiaro: non sta dalla parte del corpo e del reale, ma in quello della visione e dell’immaginario.

Questo film, che è appunto un lungo intermezzo, è però costituito di fatto da una sola, lunghissima, sequenza in discoteca che è racchiusa tra due brevissime scene che vedono Amin insieme a Charlotte: nella prima Amin guarda Charlotte attraverso una macchina fotografica: lei è nuda, e lui la “possiede” solo attraverso lo sguardo. Nella seconda i due sono a letto nudi, come se avessero appena fatto l’amore. Quello che sta in mezzo – dal punto di vista strutturale più che diegetico: il loro rapporto sessuale – è invece una lunghissima scena, prima al mare e poi in discoteca, dove Kechiche radicalizza ancora di più la sua idea di erotizzazione dello sguardo. In una specie di esercizio libero di movimento di uno sguardo desiderante sui corpi femminili delle protagoniste del film – e lo sguardo, ci dispiace per i molti, troppi, moralisti di oggi, ma non può che essere caratterizzato dalla dimensione “parzializzata” del corpo – vediamo messo in scena una sorta di amplesso della visione. D’altra parte per Amin la scelta è chiara: è lo sguardo che prevale sull’esperienza. Esattamente come avviene anche per Héloïse e Marianne nel film di Céline Sciamma. Il desiderio non è sempre a servizio della vita: a volte è il desiderio che nega la vita, separandola da se stessa. E non è certo facile per il soggetto guardare in faccia questa dimensione così perturbante e anti-vitale del desiderio. Quest’anno in una delle più belle edizioni del Festival di Cannes degli ultimi anni, diversi film hanno dimostrato di essere capaci di essere all’altezza di questo tema così difficile (e purtroppo per ragioni di spazio non possiamo parlare di due autentici capolavori passati nella sezione Un Certain Regard: A Vida Invisível de Eurídice Gusmão di Karim Aïnouz, e Beanpole di Kantemir Balagov.

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