Dopo la scomparsa di Anna Karina nel dicembre 2019, con Jean-Paul Belmondo se ne va un’altra parte della Nouvelle Vague. Certo, per fortuna ci rimane Jean-Pierre Léaud, che insieme a loro – e a Jean-Claude Brialy, morto ormai da alcuni anni e oggi un po’ dimenticato – è stato uno degli interpreti-simbolo della Nouvelle Vague.

Belmondo ha lavorato con François Truffaut nel capolavoro La Sirène du Mississippi (La mia droga si chiama Julie, 1969) e con Claude Chabrol in uno dei suoi film meno belli, Docteur Popaul (Trappola per un lupo, 1972). Ma il sodalizio più importante è stato quello con Jean-Luc Godard: senza Godard, Belmondo non sarebbe diventato quel che è diventato. Dopo averlo diretto nel corto Charlotte et son Jules (dove è lo stesso regista a prestargli la voce, al doppiaggio), nel 1960 Godard lo sceglie come protagonista del suo primo lungometraggio, À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro).

Una scena di questo film mi colpisce ancora oggi. A tre minuti dall’inizio, Belmondo, nel ruolo di Michel Poiccard, è al volante di un’auto rubata e sta fuggendo da Marsiglia verso Parigi. L’inquadratura è complessa, senza stacchi, quasi un piano sequenza. Raoul Coutard, geniale direttore della fotografia, riprende dall’interno dell’abitacolo, assecondando con la macchina da presa il movimento da sinistra a destra della vettura. Al centro c’è Belmondo, che all’improvviso compie un movimento contrario, girandosi verso l’obiettivo. Ci guarda, guarda noi spettatori: «Si vous n’aimez pas la mer…», dice, tenendo le mani sempre sul volante, «Si vous n’aimez pas la montagne… Si vous n’aimez pas la ville… Allez vous faire foutre!». Ovvero: se non vi piace il mare, se non vi piace la montagna, se non vi piace la città… andate a farvi fottere (che nel doppiaggio italiano hanno tradotto, edulcorandolo, in “andate a quel paese”).

Ecco: in questa scena, tutta l’innovazione linguistica introdotta dalla Nouvelle Vague – e da Godard in particolare – viene affidata a Belmondo. Il suo Michel Poiccard dovrebbe essere un bandito, un ladro d’auto, addirittura un assassino (per quanto fortuito). Ma À bout de souffle è un noir e al tempo stesso non lo è: è un film sul cinema, sul suo linguaggio. E allora Belmondo diventa il trait d’union fra questa nuova concezione del cinema e una nuova concezione dell’attore: un personaggio atipico, completamente deviante, che trasgredisce tutte le regole rivolgendosi direttamente allo spettatore. Un gesto che, con la sua strafottenza, mi sembra la sintesi della recitazione di Belmondo.

In molti hanno paragonato questa recitazione a quella di Jean Gabin – ed è giusto, anche se ai tempi di À bout de souffle Belmondo era davvero un ragazzo, e non si può non accorgersene. Ma qui si vede, secondo me, soprattutto la mano del cinefilo Godard. E non solo all’inizio, quando Belmondo-Poiccard si atteggia esplicitamente a Humphrey Bogart; penso soprattutto al finale, nel quale muore in un modo che a me ricorda quello di James Cagney in The Roaring Twenties (I ruggenti anni Venti, 1939) del grande Raoul Walsh, ripreso però da un’angolazione diversa. Provate ad accostarli: Cagney recita in una maniera per molti versi diametralmente opposta a quella Belmondo; eppure la carica deviante, non allineata, “fuori norma” è la stessa. Una carica che Godard fa letteralmente esplodere cinque anni dopo nel fantastico Pierrot le fou (Il bandito delle undici, 1965), dove Belmondo recita al fianco di Anna Karina e fa in tempo a scambiare due parole con il mitico Samuel Fuller: «Il cinema è come un campo di battaglia: amore, odio, azione, violenza, morte. In una parola: emozione».

Belmondo è stato un attore poliedrico, sempre al servizio del film. Malgrado quella faccia da pugile, così scolpita dalla violenza e al tempo stesso così simpatica, così attraente nonostante tutto – Miro Silvera lo ha paragonato a «un dio greco che abbia preso troppi pugni» – al cinema non è stato soltanto un duro, un macho. Per esempio, nello stesso periodo in cui gira i primi film con Godard (nel 1961, appena un anno dopo À bout de souffle, recita nel musical Une femme est une femme, in italiano La donna è donna), interpreta per De Sica La ciociara (1960), nel quale dà vita a un personaggio molto diverso, quello di un intellettuale antifascista che viene catturato dai nazisti.

 

Leon Morin, prêtre

 

E così per Jean-Pierre Melville, che lo dirige tre volte. In Leon Morin, prêtre (Leon Morin, prete, 1961), dove interpreta un sacerdote che fa innamorare la vedova Emmanuelle Riva, Belmondo adotta una recitazione sottotono, trattenuta, tanto da apparirci quasi timido, assalito; mentre in L’aîné des Ferchaux (Lo sciacallo, 1962) e soprattutto in Le doulos (Lo spione, 1963) è un personaggio negativo, per lui atipico. In questi giorni, Giulio Sangiorgio ha ricordato su “Film TV” una dichiarazione di Melville: «È facile insegnare a un attore, su venti maniere di interpretare un gesto o una frase, le diciannove giuste e quella sbagliata. È invece difficile far fare a un attore venti maniere, tutte giuste, e tutte diverse l’una dall’altra. Belmondo è in grado di fare questo». Sono assolutamente d’accordo.

Ancora diverso, poi, è il Belmondo diretto da Truffaut, a fianco di Catherine Deneuve, in La Sirène du Mississippi, tratto da un romanzo di Cornell Woolrich (firmato con lo pseudonimo di William Irish). Il film è una classica storia d’amour fou, dove Belmondo interpreta l’archetipo dell’uomo follemente innamorato; ed è bello vederlo a confronto con il detective privato interpretato da Michel Bouquet: una situazione quasi rovesciata rispetto alle aspettative, con Belmondo che dovrebbe uccidere l’avversario ma esita… Insomma, è un interprete in grado di lasciare che la parte prenda il sopravvento, pur avendone sempre il controllo; e capace all’occorrenza di sfoderare una sfumatura di humour, o addirittura comica, che ha giocato e gioca a favore della simpatia che abbiamo sempre provato per lui, persino nei personaggi più negativi. Comico, ma anche tragico, naturalmente. Riguardatevi, nella Sirène, il momento in cui si rende conto che Catherine Deneuve lo sta pian piano avvelenando: «Fai in fretta ad uccidermi», le dice. È questo suo modo di porsi, apparentemente inatteso, che lo rende sempre eccezionale. Penso anche a Stavisky… (Stavisky il grande truffatore, 1974), di Alain Resnais, dove è bravissimo in una parte per cui, sulle prime, non penseresti minimamente a lui.

Abbiamo a che fare, insomma, con un attore estremamente intelligente, consapevole dei propri limiti e al tempo stesso capace di oltrepassarli. Un aspetto messo un po’ in ombra dal successo di Borsalino (1970) e, prima ancora, dei film diretti da Philippe De Broca (Cartouche, L’homme de Rio, Les tribulations d’un chinois en Chine), in cui è comunque efficace nell’interpretare personaggi eccessivi, recitati volutamente sopra le righe. O anche nell’ambito del cosiddetto polar, che attraversa un po’ tutta la sua carriera; e sarebbe interessante mettere a confronto il Belmondo quasi agli esordi di Un nommé La Rocca (Quello che spara per primo, 1961) di Jean Becker, con quello del suo remake La scoumoune (Il clan dei marsigliesi, 1972), diretto più di dieci anni dopo da José Giovanni, anche autore del romanzo di partenza.

Ma per quanto mi riguarda Belmondo resterà sempre là, alla guida di quell’auto in À bout de souffle. A provocarmi, a provocare lo spettatore guardando nell’obiettivo della macchina da presa: Allez vous faire foutre!

(Testo raccolto da Gabriele Gimmelli)

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