Una volta Tiziano Scarpa disse che sarebbe stato imbarazzato a iniziare un romanzo che prevedesse programmaticamente un morto ammazzato. E magari, aggiungiamo noi, in un punto preciso del testo, magari doppiato dopo un certo numero di pagine da un secondo cadavere. E tuttavia tra Suburra e Gomorra, Camilleri e Lucarelli, Alligatore e Gorilla, anche il luogo nel noir è diventato altrettanto obbligatorio del delitto. Amici, nel suo saggio all’interno di Scritture di resistenza (Carocci 2014), inserisce tra i motivi che hanno portato giallo e noir a un incremento, tra 1994 e 2003, del 450% relativamente al mercato (e degli autori del 700%), la vocazione sociologica e la linea nazional-regionalistica. Tale legame assicura quanto gli autori cantano e ricantano, ovvero il romanzo di genere quale strumento d’elezione, o pretesto, proprio per raccontare la società contemporanea. Data la fluviale produzione e spesso la voluminosità dei testi, tanto vale affidarsi a una verifica casuale e su piccola porzione: un libro preso in bancarella di stazione per ingannare il tempo del viaggio. Crimini italiani, un’antologia Einaudi del 2008, da cui Neve sporca di Giancarlo De Cataldo, un campione della tendenza da farne appunto un campione.

Cominciamo con l’esaminare la trama: due giovani balordi sottraggono per caso un grosso quantitativo di droga e cercano di venderla facendo il colpo della vita; il legittimo proprietario però è sulle loro tracce, come pure i carabinieri. Una situazione lungamente formalizzata dalla letteratura, quasi iperletteraria. Il boss affida a un paio di commercianti, improvvisati almeno quanto i sottrattori, il recupero del grande quantitativo di droga; nel pieno della vicenda si scatena una tormenta di neve che blocca tutti i collegamenti alpini, compresi i mezzi dei carabinieri, ma non la Panda di Manuela, una dei ladri, che a lungo vagherà a piedi nella neve fino a imbattersi in una lupa che pare difenderla più che aggredirla. La trama denuncia il suo bisogno del luogo, che non è qui quello domestico e ripetitivo degli investigatori seriali, ma Courmayeur, sito di prestigio vacanziero presentato tramite l’accenno agli alberghi e alla neve, ma per il resto assolutamente vacuo e identico a qualsiasi altro. Il finale, quando Patrice e Manuela stanno varcando in fuga il confine con la Francia, si apre però al sublime montano, un idillio e una promessa albale di futuro che ogni buon turista della pagina vorrebbe trovare, e in cui non manca nulla, animale compreso, seppur all’apparenza impagliato: “Avevano trascorso la notte in una grotta naturale, c’erano ancora i resti del bivacco. Patrice la condusse su un costone di roccia. Davanti a lei si apriva lo spettacolo delle montagne baciate dal sole. Uno stambecco si stagliava immobile sulla punta di un picco innevato” (p. 49).

 

Veniamo ai personaggi. Il ragazzo che lavora in albergo e che trova per caso la droga in una delle stanze è un debole dominato dalla fidanzata sempre sul punto di lasciarlo. Ecco l’ammiccante ritratto che ne fa l’autore: “Il tipo biondo, dal volto angelico, con grandi occhi azzurri sognanti nei quali gli uomini provano l’istintivo desiderio di perdersi. Sì, era proprio una bellezza, la piccola Manuela” (p. 14). Da notare che per rendere credibile, forse ai suoi stessi occhi, la presentazione della femme fatale, De Cataldo sente il bisogno di quell’irritante “sì” asseverativo, tipico di certa confidenza pseudo-dialogante con il lettore. I due, per usare espressioni adatte alla trama, si sono messi in un affare più grande di loro; a salvarli, a salvare Manuela, ci penserà un nuovo personaggio, Patrice. La battuta riassuntiva di questo salvatore potrebbe essere: “Il destino nient’altro che il destino” (p. 18): vive nella valle sradicato dagli altri, in una baita costruita vicino al bosco, dove dà da mangiare a una lupa. E però, come qualche migliaio di eroi tardoromantici del noir, ha sulle spalle un pesante passato da espiare e che sfiora pure la schietta sfiga: “Prima era un bravo ragazzo, magari un po’ rozzo. Poi glien’è capitata una dietro l’altra. Prima la moglie muore in un incidente, poi la figlia prende una malattia incurabile… ha cominciato a bere […] Si è fatto dodici anni per omicidio a scopo di rapina” (p. 42).

 

Ed ecco la controparte: Don Saro che, dopo esser stato evocato, appare in “una macelleria di Buccinasco che fungeva da attività di copertura” (p. 24). Qui, dove di solito stavano “appesi ai ganci quarti di bue” (ib.), tiene qualche ora due ex-commercianti, rei della disattenzione nella custodia della coca. Poi, mentre “si stava pulendo le unghie con una lunga limetta” (ib.), così li minaccia: “Avete sette giorni di tempo a partire da oggi. Poi… sapete quello che vi aspetta” (p. 25). Questo boss, ci assicura il narratore, è “astuto e crudele” (p. 38), “non sopportava gli errori” (p. 36).

 

Così dialogano i due commercianti: “– Mi sono rotto di litigare. Vado a farmi una botta. – Un’altra? Vacci piano con quella roba. –” (p. 7). Don Saro e il suo avversario, il Maggiore Mancuso, sono accomunati dall’inserimento nel discorso di termini dialettali che anch’essi dovrebbero ancorare al luogo. Giunti per altro a perfetta conoscenza di massa proprio attraverso il genere in declinazione televisiva: “Parlami di questa figghiola, Carmelino” (p. 32), dice il primo; e il poliziotto che la sa lunga sulla criminalità organizzata, almeno quanto un ospite di Bruno Vespa: “Così si colpirebbero davvero i mafiosi in ciò che più a loro sta a cuore: i piccioli. I soldi” (p. 22). Si va arditamente oltre frontiera con un personaggio secondario che mostra qualche difficoltà nello spiegarsi (“ma come si dice… locos”), ma che trova quel forestierismo fulminante poiché ha fatto “sette anni di carcere dura a Valencia” (p. 27). Don Saro, vecchio capomafia ieratico e temuto come il Padrino, “si esprime attraverso modi di dire leggendari in tutto l’hinterland”; ecco quali sono: “Solo i morti non parlano. Perché perdere tempo a chiedere gentilmente un favore quando con un calcio ‘nta li cugghiuna puoi ottenerlo in pochi secondi ” (p. 33).

 

A volte, per esempio nell’incipit del racconto, il tono generalmente colloquiale con inserti gergali (“andarci giù duro”) inciampa in elementi estranei come quel “intatto”, isolato tra i punti, che conferisce al brano la sgradevolezza dell’ibrido e la scarsa credibilità di un parlato con incisi più elevati provenienti dallo scritto: “Vammi a controllare la 319, – aveva ordinato il direttore a Fabrizio – la cameriera al piano dice che il vassoio della colazione è ancora fuori dalla porta. Intatto […] Fammi questo piacere, Fabri, magari non è niente, magari ieri sera quello c’è andato giù duro con le grolle”.

 

Il linguaggio insomma, laddove vorrebbe essere una marca del luogo reale, scivola costantemente nel luogo comune. Spesso il romanzo di genere non brilla per la cura formale poiché non è questa la sua mission. e tuttavia c’è anche un limite di sopportazione per il lettore. Possiamo citare cinque attacchi consecutivi di capitolo, più altri cinque, che presentano tutti, dico tutti, il personaggio agente nel capitolo medesimo. Qui il linguaggio diventa allora, insieme alla struttura, clamorosa denuncia della stanca finzionalità letteraria, intendendo corrivamente letteraria:

Il Maggiore Mancuso della Direzione investigativa antimafia […] (p. 21). Marenghi e Tornesi se ne stettero quattro giorni a bagnomaria […] (p. 23). Carmelo Mandarà fece il suo ingresso […] (p. 26).

Tornesi e Marenghi avevano preso due stanze […] (p. 30). Don Saro fece assaggiare la roba a Ciccio Mezzanotte […] (p. 32). Quando si trovò faccia a faccia con il cameriere Fabrizio, Tornesi […] (p. 33). Mandarà, alla guida di una BMW […] (p. 36). C’erano tre piani nella palazzina. Tornesi […] (p. 39). Il Maggiore Mancuso piombò sul luogo del delitto […] (p. 40). Manuela li aveva visti andar via […] (p. 43). Da quella notte Manuela […] (p. 48).

 

Se poi il genere ha il merito di cogliere la verità sociale si vedano un paio di schizzi tipologici che fanno al caso. Un ex fidanzato di Manuela è “di Brescia, erede di una dinastia di fabbricanti di tondini di ferro” (p. 14); e come non poteva un industriale bresciano produrre altro che tondini! Nell’albergo imprenditori o commercianti sono resi con l’aggettivazione appiattente relativa al denaro e al potere: “c’era un congresso, o roba del genere. Molti uomini dall’aria rapace vestiti di scuro e poche donne dal portamento arrogante in tailleur” (ib.); gli stessi recuperatori ed ex-concessionari di auto sono battezzati, al modo dei personaggi piatti dell’Ottocento, con un nomen-omen: Tornesi, e Marenghi. Difficile per il lettore intravedere uno spiraglio di ciò che ci circonda tra le spire del genere, una salvifica via di fuga come per i protagonisti nella tormenta del luogo comune.

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