Javier Marías è un romanziere inconfondibile, non c’è niente da fare: anche in Berta Isla (in questi giorni in uscita in economica per Einaudi, a un anno dalla pubblicazione, tradotto da Maria Nicola) ritrova, intessendoli in una nuova storia con nuovi contorni e confini, i suoi temi.

Sì, perché nei romanzi dello scrittore spagnolo nulla è mai come sembra: identità, realtà, fatti, pensieri, convinzioni, punti di vista potrebbero tutto d’un tratto ribaltarsi, e il lettore, pur non sapendo cosa succederà la pagina dopo, ne è in qualche modo avvertito. Quel che sembra paradossale, ossimorico, persino impossibile, può accadere, e non perché siamo in un romanzo, ma perché questa è la vita.

Qui si racconta infatti la storia di Berta Isla e Tomàs Nevinson, innamoratisi sui banchi di scuola e poi novelli sposi nel 1974, dopo che lei ha studiato in Spagna e lui in Inghilterra, Paese cui è rimasto fortemente legato per lavoro. Questa è la ragion per cui Berta nulla sa e nulla può immaginare di quello che nasconde il marito, e che non può confessare neppure a lei, la donna della sua vita, da cui avrà anche due figli, fino a quando i fatti non precipitano e due sconosciuti entrano nella vita di Berta instillandole il dubbio.

Il romanzo inizia così: “Per molto tempo non avrebbe saputo dire se suo marito era suo marito” e anche aprendo una pagina a caso delle quasi cinquecento che compongono il romanzo si intercettano frasi che minano le certezze, scardinano l’ovvio, ciò che si usa dare per scontato. Qui l’autore sussurra all’orecchio di chi legge, ossessivamente, la domanda: ma tu sai chi sei? e soprattutto sai chi sono le persone accanto a te?

“Certo che ero un altro, ma ero sempre io” dice verso la fine Tomàs Nevinson, di cui si racconta e di cui si dubita lungo il romanzo, quando la narrazione torna, come al principio, in terza persona,nella sequenza terza, prima, terza, prima, terza che, già di per sé, altera i punti di vista e mostra come tutto dipenda dalla prospettiva. E quand’anche l’autore narra in prima, la voce che sentiamo raccontare non è la sua, non sarebbe quasi possibile ‒ Nevinson ne ha troppe e quindi nessuna ‒ ma quella di sua moglie, Berta Isla, che, quasi straordinariamente (di solito è un’esplicita citazione shakespeariana), dà il titolo al romanzo.

Eppure la citazione dal Bardo non manca: stavolta è l’Enrico V (in Così ha inizio il male era l’Amleto, ne Gli innamoramenti il Macbeth, in Domani nella battaglia pensa a me il Riccardo III e così via) e in particolare l’episodio in cui il re, alla vigilia della battaglia di Agincourt nell’ottobre del 1415, si aggira in incognito nel suo accampamento e ha un alterco con un soldato che, ignorando l’identità di chi gli sta di fronte, parla male del sovrano. I due si scambiano infine un guanto ripromettendosi di riaffrontare l’argomento se, dopo la battaglia, avessero avuto l’occasione di rincontrarsi vivi e riconoscersi. E così avviene, ma stavolta il re veste i propri panni.

Il comandante del soldato “traditore” suggerisce a Sua Maestà di giustiziarlo, ma il re, viceversa, ordina che gli sia riempito di corone il guanto. Di chi è la colpa? Di chi ha mancato o di chi ha ingannato? Il soldato si giustifica col sovrano dicendogli che, se lui si fosse mostrato per quello che era, avrebbe agito diversamente. Questo il punto, la chiave di volta, il leit-motiv del romanzo: quanto influisce sulla vita di chi ci gira intorno chi siamo e soprattutto chi mostriamo di essere? Berta Isla è ambientato tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta, ma potremmo chiedercelo a maggior ragione oggi, adesso, che viviamo incollati a uno o più schermi dove identità reali e fittizie raramente si distinguono.

Dell’episodio dell’Enrico V discutono Berta Isla e il marito, in uno dei periodi in cui l’uomo, alle dipendenze del MI6 (ma formalmente del Foreign Office di Londra), è invece in Spagna con la famiglia. Berta ha capito che il Tomàs cela una verità silenziosa, dai confini sfumati,che è quasi un buco nero suo malgrado, così lo provoca: “Non si tendono trappole ai fedeli. Il re in fondo lo sa […]”. E lui: “E come è stata vinta la guerra di Troia? […] La colpa è di chi si lascia ingannare […]”.

Poi, per più di dieci anni Nevinson sparisce (oggi si chiamerebbe ghosting), alla vigilia di un’altra guerra, quella delle Falkland. Sarà morto? Sarà caduto (cioè sarà stato scoperto e fatto ritirare)? Sarà vivo e sotto mentite spoglie in qualche luogo? Saperlo fa differenza? Fa differenza per Berta? E per Tomàs Nevinson stesso, fa differenza vivere una vita piuttosto di un’altra? Se dopo quegli anni gli fosse concesso di tornare, sarebbe la sua la vita a cui approderebbe? Troppo facile pensare a Pirandello, chiamare in causa in nostri doppi virtuali, viene piuttosto voglia di citare Tolstoj che nel Diario, a ottantun anni, scrive: “La coscienza è senza movimento. Ed è proprio per questa sua immobilità che possiamo percepire il moto di quello che chiamiamo tempo”.

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