[Nel 1978 Jonathan Cott intervista lungamente Susan Sontag in due tempi, prima a Parigi, poi a New York. L’intervista è stata pubblicata da poco da Il Saggiatore con il titolo Odio sentirmi una vittima. Intervista su amore, dolore e scrittura con Jonathan Cott, traduzione di Paolo Dilonardo.
Ne pubblico qui di seguito due estratti, ringraziando l’editore. o.t.]

J.C. In «Sullo stile», lei scrive: «Parlare dello stile è un modo di parlare della totalità di un’opera d’arte. Come tutti i discorsi sulle totalità, anche quello sullo stile deve ricorrere alle metafore. E le metafore sono ingannevoli». Come si pone, in generale, rispetto alle metafore?

S.S. Voglio darle una risposta più personale. Sin da quando ho cominciato a riflettere, mi sono resa conto che, per giungere a una comprensione teorica di qualcosa, dovevo coglierne le implicazioni, o i paradigmi e le metafore soggiacenti – per me era una forma di comprensione naturale. Ricordo che quando, a quattordici o quindici anni, cominciai a leggere la filosofia, fui molto colpita dall’uso delle metafore. Se la metafora utilizzata fosse stata un’altra, mi dicevo, la conclusione sarebbe stata diversa. Ho sempre provato questa specie di agnosticismo rispetto alle metafore. Molto prima di sviluppare le mie idee in merito a una questione, so che non appena individuo la metafora posso dirmi «ecco, è questa l’origine dell’idea», ma anche comprendere che se ne potrebbe usare un’altra. So che ci sono molte teorie al riguardo, ma non vi presto molta attenzione, preferisco seguire il mio istinto di scrittrice.
Quel che più mi interessa nella scrittura modernista, d’avanguardia o sperimentale, o semplicemente nella buona letteratura, è la purificazione dalla metafora. È la qualità che mi ha attratto in Beckett e Kafka. E un tempo, quando ammiravo molto più di adesso i romanzieri francesi come Robbe-Grillet, ad attirarmi era il loro progetto, l’idea di evitare il ricorso alle metafore.

J.C. Dunque quando parla di purificazione dalle metafore ne propone l’eliminazione.

S.S. In un certo senso sì, o perlomeno voglio esprimere un estremo scetticismo verso le metafore. Le metafore sono essenziali al pensiero, ma bisognerebbe usarle senza crederci – bisognerebbe sapere che sono una finzione necessaria, o forse non necessaria. Non riesco a immaginare una riflessione in cui non siano implicite delle metafore, ma ciò non fa che rivelare i limiti del pensiero. E io sono sempre attratta dai discorsi che esprimono questo scetticismo e che vanno al di là delle metafore, verso qualcosa di più limpido e trasparente o, per dirla con Barthes, verso il «grado zero» della scrittura. Certo, si può anche andare nella direzione diametralmente opposta, come fece James Joyce, e stipare nel linguaggio il maggior numero di metafore possibile, ma in tal caso non si tratta più di metafore, ma di un gioco con il linguaggio stesso e con tutti i diversi significati che una parola può assumere, come accade in Finnegans Wake di Joyce. Ma so che quando mi imbatto in una metafora come, per esempio, «Il fiume scorreva sotto le arcate del ponte come le dita di un guanto»… come le sembra? [ride]

J.C. Meravigliosa!

S.S. Be’, quando mi imbatto in una metafora del genere sento – ed è una sensazione viscerale, primitiva – di essere stata afferrata per la gola. Nella mia testa si produce una specie di cortocircuito, colgo il fiume e colgo il guanto, ma uno interferisce con l’altro. Perciò sto parlando di qualcosa che, per me, è una sorta di propensione caratteriale.
Potrei, in un certo senso, dare l’impressione di voler escludere tutta la poesia – pensi ai sonetti di Shakespeare. Ma non è affatto così – al contrario, le cose che leggo di più sono la poesia e la storia dell’arte. Ma, nella misura in cui esiste una cosa chiamata prosa ed esiste una cosa chiamata pensiero, continuo a pormi il problema della funzione della metafora. Non è come una similitudine: se dici che una cosa assomiglia a un’altra, be’, va bene, le differenze rimangono chiare… anche se a volte non chiarissime, perché la poesia può essere molto densa. Ma dire, per esempio, che «la malattia è una maledizione» a me sembra una sorta di tracollo del pensiero – una maniera per smettere di pensare e congelare gli altri in certi atteggiamenti. Il mio progetto intellettuale è, in effetti, un progetto di critica, nel senso più profondo del termine, che implica inevitabilmente la creazione di nuove metafore, poiché per pensare bisogna utilizzarle. Ma almeno bisognerebbe essere critici e scettici rispetto alle metafore ereditate, in modo da sbloccare il pensiero, sgombrare il campo e far entrare aria fresca.

***

J.C. […] Torniamo all’opposizione tra reticenza e apertura…

S.S. È una questione molto complessa perché ho in mente alcune idee – anche se non so quanto possano valere – su ciò che significa essere bambini o adulti. Questi pensieri mi girano e rigirano nella testa, e a volte mi dico che non c’è differenza, che si tratta di una distinzione puramente artificiale. Certo, invecchiamo, la pelle diventa più coriacea, e allora? Chi se ne importa? Che importanza ha l’età anagrafica? Non dovremmo cercare di imporre l’idea che ci si debba comportare in un determinato modo perché certi comportamenti ci appaiono adulti e altri infantili.
[…] Le nostre idee sull’amore sono strettamente connesse all’ambivalenza con cui guardiamo a queste due condizioni – alle connotazioni, positive e negative, che attribuiamo all’età adulta e all’infanzia. E credo che, per molti, l’amore significhi un ritorno ai valori rappresentati dall’infanzia, che sembrano censurati dall’arido mondo meccanizzato degli adulti, fatto di coercizioni lavorative, regole, responsabilità e impersonalità. L’amore è sensualità, gioco, irresponsabilità, edonismo e leggerezza, e si tende a considerarlo come uno stato di dipendenza, in cui si diventa più deboli, ci si assoggetta a una sorta di asservimento emotivo, trattando la persona amata come una specie di figura genitoriale o di fratello maggiore. Si riproduce, in parte, la condizione vissuta da bambini, quando non si era liberi e si dipendeva totalmente dai genitori e, soprattutto, dalla madre.
Chiediamo tutto all’amore. Gli chiediamo di essere anarchico. Gli chiediamo di essere il collante che tiene insieme la famiglia, che regola la società, che assicura i processi di trasmissione da una generazione all’altra. Ma io credo che la connessione tra amore e sesso sia molto misteriosa. L’ideologia moderna dell’amore presume, tra le altre cose, che amore e sesso siano sempre connessi. Suppongo che ciò sia possibile, ma se accade, secondo me, accade a detrimento dell’uno o dell’altro. E forse il più grande problema degli esseri umani è che non sono affatto connessi! Perché la gente vuole innamorarsi? È una questione molto interessante. In parte, ci si vuole innamorare allo stesso modo in cui si vuole ritornare su un ottovolante – anche se si sa già che ci si ritroverà ancora una volta con il cuore spezzato. Quel che mi affascina sono le attese culturali e i valori attribuiti all’amore. Mi hanno sempre stupito le persone capaci di dire: «Mi sono innamorato, ero follemente innamorato e abbiamo avuto una relazione». Vi descrivono ciò che hanno provato e poi, quando chiedete «quanto è durata?», vi rispondono «una settimana, non ce la facevo più».
Io non sono mai stata innamorata per meno di un anno o due. Sono stata innamorata raramente, ma ogni volta che mi è successo è stato qualcosa di duraturo, che poi si è concluso – nella maggior parte dei casi – con un disastro. Non so cosa voglia dire essere innamorati per una settimana. Quando dico di essere stata innamorata, intendo dire che ho vissuto insieme a una persona: abbiamo abitato insieme, siamo stati amanti, abbiamo viaggiato, abbiamo condiviso tante esperienze. Non sono mai stata innamorata di una persona con cui non fossi andata a letto, ma conosco molte persone che si dicono innamorate di qualcuno con cui non hanno avuto rapporti sessuali. Per me vogliono semplicemente dire: «Ho provato attrazione per qualcuno, ho avuto una fantasia e dopo una settimana la fantasia è finita». Ma so di avere torto, e probabilmente questo è uno dei limiti della mia immaginazione.

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