Prima di scrivere di scrivere di William Burroughs, ha scritto di Pier Paolo Pasolini e di Giovanni Testori. Scrittori, cioè, che si sono impregnati di mondo, impegnandosi a contestare la lingua del Potere con un linguaggio inaudito, spesso sconsiderato, ad ogni modo inimitabile. Lui, Alessandro Gnocchi, mi contesta: non c’è alcun filo rosso nelle sue scelte. I libri, bestioline selvagge, sfuggono di mano a chi li ha scritti. Vado a trovare Gnocchi al “Giornale”, nella nuova sede, via dell’Aprica, Milano. Arrivo mentre tentano di attaccare l’insegna del quotidiano sul palazzo. Strade anonime, uomini anemici. Imbiancano.

Alessandro Gnocchi ha sempre gli occhi blu, abbacinati, da acquasantiera, è un buono e vuole convincermi di essere diventato un asso del tennis. Ha scritto un libro su William S. Burroughs, appunto; s’intitola Burroughs e il virus della parola, stampa l’editore napoletano Polidoro. Tutti, allo zenit della nostra giovinezza, abbiamo amato Burroughs: l’eleganza, per me immotivata – mai indossato una cravatta, mai imbracciato un fucile – lo faceva una specie di sicario sufi. Finalmente, uno scrittore pericoloso. Preferivo Il pasto nudo – una volta tentai di tradurre le sue poesie. Quella più bella s’intitola Fear and the Monkey, attacca così:

“Turgido prurito e sentore di morte
nel sussurro del vento del sud
odore d’abisso e di nulla
Nero Angelo dei vagabondi grida nel solaio
il suo sonno puzza
sogno mattutino di scimmia perduta
nata nell’ovatta di antichi capricci
con foglie di rosa in barattoli sigillati.
La paura e la scimmia
aspro sapore di verdi frutti all’alba
aria lattiginosa speziata dagli alisei”.

Gli ultimi versi sono molto belli, credo siano la Sindone dell’opera di Burroughs. Eccoli:

“Tuo padre è una stella cadente
ossa cristalline nel nulla
cielo notturno
dispersione e vuoto”.

L’idillio è finito presto. Burroughs è uno scrittore straordinario – bastardo figliastro, lo ricorda Gnocchi, di Samuel Beckett e del Joyce di Finnegans Wake – che inaridisce la scrittura verso il non ritorno. È uno scrittore-profeta: e i profeti ‘scadono’ quando le profezie si realizzano; se oggi viviamo nel mondo predetto da Burroughs, sotto dominio del Controllo, cosa me ne faccio di Burroughs? Tuttavia, Gnocchi mi insegna che Burroughs è lo scrittore centrale perché ha bombardato ogni centro, ha destituito di senso la scrittura e si è posto nel cuore del caos. Di certo, il suo libro su Burroughs – pieno di citazioni con i chiodi dentro – è elettrico, ha il severo entusiasmo degli iniziati. Ritaglio alcune frasi:

“Il linguaggio è il linguaggio del potere: uno strumento di controllo che si propaga come un virus. Il linguaggio va sabotato con il cut up. È necessario trovare un modo di evadere dalla gabbia in cui le parole ci hanno chiuso”;

“Burroughs mira in alto. Contesta alla base il mondo fondato sulla Parola. Non solo l’Occidente, quindi, ma tutte le civiltà che si fondano su un libro. Questa è la vera trasgressione dello scrittore. Non la droga, l’omosessualità, l’anarchia. No: la contestazione della parola e della Storia. Burroughs è irriducibile a correnti e tendenze. Fa squadra da solo. È l’apice di una società che si è involuta fino a diventare una galera. Tutti vogliono le chiavi della prigione. Lui vuole abbatterla. È il Ribelle Per Eccellenza”.

Ogni scrittore, in effetti, nasce per contestare il linguaggio del Potere – o per confermarlo. Per Rimbaud, il vocabolario è un cimitero, lo Stato un patibolo. La ribellione è insita nel verbo, che ri-nomina le cose per liberarle dall’incantesimo che le artiglia.
Rilke e il suo doppio

Opera tesa alla sparizione, quella di Burroughs, alla spartizione tra accoliti, ora è però elargita in ogni dove, come pizza&patatine: ibs.it, il mercato digitale del libro, mi segnala 43 libri in italiano di W.B. Oltre ai romanzi, si possono leggere le lettere, le interviste, saggi e assaggi di Burroughs. L’uomo che ha sradicato tutti i culti è diventato uno scrittore ‘di culto’ – santificare l’alieno è il modo perfetto per disinnescare la sua furia. Il contestatore è bene inserito nel contesto: spesso lo edita Adelphi, l’Armani dell’editoria. Che vuol dire? Che da carcerati discettiamo sulla barba dei carcerieri, di quanto è bello far saltare in aria il carcere – ma non facciamo nulla, schiavi di futili astrazioni, di comode frustrazioni.

Mio padre, prima di levarsi di torno, mi ha insegnato a dubitare dei contestatori come dei tesorieri della legge. Legalisti e fuorilegge, per lui, miravano allo stesso obiettivo: conservare lo status della Legge – e dunque, la possibilità della sua abolizione. Dubitava che i preti fossero gli autentici depositari della Parola – la Parola va scatenata, non tenuta tra le briglie: il suo esito? L’assalto, il morso, il silenzio. L’unica lettera che mio padre scrive a “Davide Brullo” è del 1988, avevo nove anni. La custodisco in un libro di Pasternak, uno scrittore che tra il nulla e il servaggio ha preferito il futuro: coltivare fiori nel deserto, un florilegio di fuochi.

Non so perché sono arrivato a questo punto, forse per ribadire il regno degli affetti in un tempo ignobile. Ad ogni modo: Gnocchi non è il ragazzo che ha risposto a queste domande. A un certo punto, emergendo da un pilastro di libri, parla del Tigrai, di un bar dove si radunano gli eritrei. “Ti piacerebbe”. Gli si illuminano gli occhi. Qualcosa di incontrollato lo prende. Il sorriso ha un astro dentro. Per Dante, il verbo aveva la foggia della pantera; scrivere vuol dire andare a caccia, avere il coraggio di scoprirsi preda.

Hai scritto di Giovanni Testori, di Pier Paolo Pasolini e di William Burroughs. Ci metto anche Oriana Fallaci, Giuseppe Berto, Guido Keller. Qual è – se c’è – il ‘genio’ che li tiene insieme tutti?

Non c’è. Ho seguito i miei gusti e i miei interessi. Quando mi è parso che mancasse qualcosa nella bibliografia, ho provato a colmare la lacuna o meglio ho provato a iniziare a colmarla.

…te lo dico io, dicendo la mia. La lotta contro il Potere. La lotta contro il linguaggio imposto dal Potere. Perché “Le parole sono i principali strumenti di controllo”, scrive Burroughs. Il quale – scrivi tu – “contesta alla base il mondo fondato sulla Parola”. Bene. Tolta la Parola – dello Stato, del Tiranno, dello Scrittore, di Dio –, cosa resta al mondo?

Tolta la Parola, non resta niente. Dopo l’Apocalisse regnerà il silenzio assoluto e non esisterà neppure un uomo per esercitare l’arte della parola scritta.

Leggendo il tuo libro, capisco che Burroughs – oltre ad espellere, per eccesso di ingenui florilegi, pressoché tutti i ‘romanzieri’ odierni – ha profetizzato la ‘società del Controllo’, ha capito pressoché tutto del ‘nostro’ mondo, è uno scrittore-profeta dal vertiginoso estro. Bene. Letto col senno dell’oggi W.B. non dà il senso di qualcosa di già visto & già detto & già fatto?

Temo di no. Per ora il Controllo ha fatto solo qualche esperimento, a esempio durante la pandemia, per vedere in quanto tempo rinunciamo alla libertà e per cosa siamo disposti a cederla. Prossime puntate: la turpe fabbrica dell’uomo; selezione della specie (nuova, quella fusa con le macchine); addio dei superuomini al pianeta Terra; morte dei più deboli.

Voglio dire. Burroughs coglie il problema. Come il suo maestro, Beckett. La vera ribellione, però, una ribellione che non profetizzi il futuro ma lo costruisca, mi domando, magari con spavalda cecità, non è forse scrivere una poesia, su un taccuino, che descriva una rosa come mai prima è stata una rosa, per poi donarla a chi si vuol bene?

No. Il futuro è omicidio.
William S. Burroughs (1914-1997)

“Per essere liberi è necessario cancellare i propri dati dalla macchina del potere, ormai computerizzata”. Come fare? Scrivi su un taccuino?

Non c’è nulla da fare, se non sfasciare la macchina. È una libertà, quella dell’anonimato, che abbiamo già ceduto. E volentieri.

Dici che ci sono almeno “due, tre, cinque, dieci libri” di W.B. “che dovrebbero figurare nella libreria di chiunque”. Dimmene almeno tre – e perché.

Il pasto nudo, perché contiene una metafora di quasi tutto. In un episodio, un uomo insegna a parlare al proprio culo, che alla fine diventa prepotente e lo zittisce.

Terre occidentali, perché fa i conti con l’aldilà in un modo originale.

Lettere dallo Yage, l’unico vero romanzo beat.

Scrivi un paragrafo che mi colpisce, mi pare centrale. Te ne do merito chiedendoti di spiegarlo. “Nel regno della tecnica, la tecnica diventa magia. Tutto quello che può essere fatto, anche se potenzialmente distruttivo, sarà fatto. questa è la differenza con l’antica disciplina alchemica, che rifiutava proprio questo passaggio, e per questo poneva, alla fine della Grande opera, la trasmutazione del mago, predicando pazienza, una sconfinata pazienza. Il mago diventava raffinato come la sua scienza”.

Ci sono tra noi alchimisti buoni e alchimisti cattivi. È una lotta aperta, da sempre. L’alchimista buono lavora per trovare la pietra filosofale dell’ordine interiore. L’alchimista cattivo ritiene che la vera rivoluzione non sia quella che si fa per le strade, ma dentro se stessi, cancellando ogni ordine interiore.

Il linguaggio del Potere e il giornalismo. Come contestare il linguaggio del Potere con il linguaggio giornalistico?

Non è possibile ma si può trovare un onesto compromesso lanciando ogni tanto un messaggio nella bottiglia.

Di chi ti resta da scrivere, di chi vorresti scrivere?

La prossima volta scriverò di una terra che non ho mai visto, l’Africa.

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