Appena arrivato a Tokyo mi sono innamorato subito dei Ginko Biloba. Ho visto ogni giorno questi meravigliosi alberi con le foglie a ventaglio cambiare sfumatura di giallo, allontanandosi sempre più dal verde della loro giovinezza primaverile. I giapponesi li fotografano come fossero opere d’arte. Il Ginko (Ginkgo) è un albero antichissimo le cui origini risalgono a 250 milioni di anni fa: una sorta di fossile vivente, unica specie ancora sopravvissuta della famiglia Ginkgoaceae. Una pianta fortissima: sei esemplari di Ginko, ancora esistenti, sono sopravvissuti alle radiazioni prodotte dalla bomba atomica caduta sulla città di Hiroshima. La pianta è originaria della Cina, e il suo nome significa “albicocca d’argento” (dalla forme dei suoi semi femminili). Il nome della specie (biloba) deriva invece dal latino bis e lobus con riferimento alla divisione in due lobi delle foglie, a forma di ventaglio. Quel bellissimo e fragile “ventaglio” è il simbolo della città di Tokyo.

 

Dieci anni fa, a Chicago, raccolsi (e conservo ancora tra le pagine di un libro) delle foglioline gialle, di Ginko, cadute nel giardino autunnale della villa di Frank Lloyd Wright, a Oak Park. L’architetto americano si era portato dietro un albero dopo uno dei tanti suoi viaggi in Giappone. È stato uno delle tante “vittime” del fascino immenso di quel paese e di quella cultura, che cambiò il suo modo di vedere l’architettura (e si capisce molto bene perché). Nel 1893 Wright aveva visitato l’Esposizione Colombiana di Chicago, dove rimane colpito dall’Ho-o-den (un piccolo tempio giapponese ricostruito su un’sola artificiale). L’architettura giapponese da quel momento rimarrà uno dei suoi riferimenti. Compì diversi viaggi in Giappone e divenne uno dei più autorevoli collezionisti americani di stampe giapponesi. Pubblicò anche un libro sull’argomento: The Japanese Print: An Interpretation (1912). Nel 1916, Wright decise di lasciare gli Stati Uniti e si trasferì in Giappone. A Tokyo, aprì uno studio e vi rimase per sei anni. Venne addirittura ricevuto dall’Imperatore Taisho, cosa che lo rese molto popolare in Giappone. Ottenne l’incarico di costruire alcune nuove parti dell’Imperial Hotel (1880). Buttato giù nel 1968 per esser sostituito da un nuovo edificio. alcune sue parti sono state riassemblate presso il Museo Meiji-Mura, a Inuyama, vicino a Nagoya (a due ore da Tokyo).

Dalla finestra della mia abitazione si vede il grande cuore verde della città. Tokyo infatti ruota attorno a una grande area alberata (ciliegi, ginko, aceri, abeti), attraversata da canali e laghetti. Al centro di questo parco dove la gente va a passeggiare e a correre, dietro alte mura, c’è la residenza dell’imperatore. Tutto attorno svettano modernissimi grattacieli come una corona che confina il vecchio mondo delle tradizioni all’interno della Natura.

Sono stato ospite della comoda foresteria dell’Istituto Italiano di Cultura, situata al dodicesimo piano di un bell’edificio progettato da Gae Aulenti (2005). A suo tempo il palazzo fu molto criticato per il colore rosso della facciata che sembrava ai vicini troppo violento, quasi offensivo. Agli inizi di febbraio del 2007, l’allora primo ministro Massimo D’Alema, in visita in Giappone, durante una conferenza stampa fu attaccato dall’ultraottantenne Tsuneo Watanabe, presidente del gruppo dello “Yomiuri Shimbun”, quotidiano che vendeva 14 milioni di copie: “Lei parlava di ingegnosità degli italiani… Non so se conosce il santuario di Yasukuni nel quale riposano le anime di 350 mila nostri soldati morti nel secondo conflitto mondiale, una zona sacra… Un palazzo dal colore grottesco, in quella zona. Nel mio, a causa dei riflessi, anche la carta bianca si colora di rosso. Ne subiamo danni fisici”.

Nell’altro parco, alle spalle del mio palazzo, svetta un gigantesco portale buddista color amaranto che sta all’ingresso del Yasukumi-Jinia, il Santuario per la pace nell’Impero. In realtà esso è dedicato ai 2 milioni e 400 mila giapponesi caduti nelle guerre dal 1853. Nel 1979, contravvenendo alla Costituzione, e provocando le proteste della Cina e di molti altri paesi dell’area asiatica, vi sono stati sepolti anche un gruppo di criminali di guerra. Ogni anno, nell’anniversario della sconfitta del Giappone (15 agosto), molti esponenti politici, tra i quali l’attuale primo ministro Abe, si recano là a rendere omaggio. Passando ogni giorno accanto a quel santuario, per andare a prendere la metropolitana alla stazione di Kudanshita, guardavo con tristezza quelle tetre mura e quei portali aguzzi e incrociavo con fastidio gli sguardi fanatici di qualche attivista nazionalista che distribuiva volantini e gridava slogan.

La metropolitana, all’inizio, è una vertigine. Mentre scendi con le ripide scale mobili, incroci un cartello blu che ti avverte di quanti metri stai andando sotto il livello del mare. Là sotto sembra che stia rintanata gran parte della popolazione di Tokyo. Una densità umana che si potrebbe tagliare con il coltello. Mi assale il panico: riuscirò mai ad uscire vivo da qua sotto? Come farò ad orientarmi? In che modo comprerò il biglietto giusto? Poi, miracolosamente, diventa tutto facile e ti sembra di avere a che fare con il gioco più semplice e divertente del mondo. Ovunque ci sono addetti, in divisa e guantini bianchi, che dirigono il traffico. Altri inservienti si materializzano miracolosamente quando hai bisogno. Quando mi capita di inserire il biglietto nel tornello di uscita sbagliato e quello non me lo risputa fuori per continuare la corsa con un’altra linea, un gentile signore blocca tutto e tutti, mi chiede in inglese da dove vengo e dove debbo andare, apre la macchina e si mette a ravanare nella scatolina dei biglietti usati finché non ritrova il mio e me lo rende con un sorriso e un inchino.

 

La maggior parte dei viaggiatori della metropolitana dormicchia saporitamente. Gli abitanti di Tokyo sembrano non aspettare altro che, nelle lunghe tratte, schiacciare dei profondi pisolini. Li ho oservati per bene per tentare di capire come facciano a risvegliarsi al momento giusto per scendere. La mia teoria che si informino dal vicino a che fermata lui scende e poi lo preghino di scrollarli un po’ prima ha incontrato l’ilarità degli amici giapponesi ai quali l’ho esposta. Pare che nessuna persona per bene farebbe mai una cosa simile. Molti hanno l’auricolare per sentire la musica e programmano la sveglia un paio di minuti prima di arrivare (tanto i treni sono puntualissimi e si sa con precisione il minuto in cui si fermeranno alla stazione). Altri dormono, come i cani da guardia, con un occhio soltanto chiuso. Diversi viaggiatori, approfittando dell’affollamento, dormono in piedi appoggiandosi su coloro che gli stanno attorno. Ma ho notato anche delle giovani studentesse in divisa dormire, in carozze abbastanza vuote, appese penzoloni alle maniglie. Guardando meglio ho notato che erano dotate di una sorta di manette con un mollettone che agganciavano alla sbarra di sostegno.

Spesso gli altoparlanti si scusano, anche in inglese, per il piccolo ritardo di un paio di minuti al massimo. La voce contrita comunica che c’è stato un incidente. Mi hanno detto che ogni giorno qualcuno si butta sotto i treni. Qui la cosa viene risolta molto velocemente. L’altoparlante si scusa ripetutamente, E questo dà molto fastidio ai viaggiatori, anche perché disturba il loro sonno.

Il 20 marzo del 1995 cinque membri della setta religiosa Aum Shinrikyo, fondata da Shoko Asahara, si mischiarono fra i pendolari della metropolitana, nascondendo il gas nervino Sarin sotto forma liquida in sacchetti di plastica, avvolti in giornali. Arrivati in alcune stazioni prestabilite, lasciarono i sacchetti sul pavimento dei vagoni o delle stazioni, forandoli con la punta di alcuni ombrelli che avevano portato con loro. Mentre i cinque membri lasciavano la metropolitana, attesi da complici all’interno di automobili che avrebbero dovuto portarli lontano, il gas si disperdeva nell’aria. L’attacco sul treno della linea Hibiya in partenza dalla Stazione di Naka-Meguro fu il più grave e causò la morte di 8 persone e il ferimento grave di altre 275. I vari attacchi si svolsero quasi contemporaneamente fra le 7.50 e le 8.11 del mattino. Nella stazione di Kasumigaseki (Linea Chiyoda) fu evitata una strage spaventosa grazie al sacrificio di un dipendente della metropolitana, Tsuneo Hishinuma, che trovò il sacchetto da cui evaporava il gas nel vagone di un treno appena sopraggiunto. Hishinuma spostò il sacchetto fuori dal vagone e cercò di assorbire con carta di giornale il liquido letale che ne fuoriusciva. Insieme al vice capostazione Kazumasa Takahashi trasportò il sacchetto nell’ufficio di quest’ultimo, da dove segnalarono il ritrovamento. I due morirono a causa delle conseguenze dell’inalazione del gas velenoso. L’attentato provocò 12 morti e oltre 6000 intossicati. Da quel giorno, oltre all’ intensificarsi della vigilanza, sparirono dalla metropolitana e da tutta la città di Tokyo i cestini per l’immondizia. Una città molto pulita che ha abituato gli abitanti a portarsi dietro, fino a casa, i rifiuti (per strada è anche vietato fumare e quindi gettare i mozziconi).

Uno dei primi giorni, percorrendo la linea circolare verso casa ho deciso d’un tratto, per uno di quei colpi follia che assalgono i viaggiatori solitari, che sarei sceso a una fermata intermedia qualsiasi: la prima che, per qualche motivo, mi avrebbe ispirato. Dopo un po’ il treno si è fermato e mi sono accorto che era passato molto tempo e mi ero distratto a guardare la sequela di grattacieli che scorreva fuori dal finestrino. Rischiavo ormai di arrivare a casa. Ma sono stato attratto dal nome della stazione: “Kamagone”. Sono scattato in piedi e corso fuori, proprio mentre le portiere stavano iniziando a richiudersi. Mi sono ritrovato così nel più, apparentemente, anonimo e insignificante quartiere di Tokyo, un villaggio però a suo modo emblematico: grattacieli che sovrastano le fragili casette unifamiliari; intrecci di cavi elettrici che sembrano legare una casa all’altra; le ragazze in bicicletta che ti sorpassano veloci, non facendoti però trillare alle spalle il campanello per non farti trasalire; un negozietto caramellosamente rosa che vende gelati improponibili (ai vari tipi di tè…) e improbabili leccornie; la piazzetta al lato dell’edificio della stazione con le siepi tagliate a ciuffi sferici regolari, uguali a quelli che costeggiano la massicciata dei binari; le strade secondarie deserte, come se fossero state abbandonate; il sole che tramonta oltre le torri dei palazzi di uffici e brucia le vetrate dei casermoni di fronte; le rivendite di cibarie svariate e colorate; il boschetto col piccolo tempio, che spezza, con una nota antica, il concerto di caos e traffico…

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