Ho scritto di Celati in varie occasioni, ma non ho mai parlato della sua voce, del ritmo strascicato che prendeva il suo girovagare verbale, come di chi si sia messo a fare una lunga camminata e deve risparmiare il fiato, o come un carro pieno di cose molto voluminose, spinto su una salita, e che pure non si ferma mai. La mia memoria della sua voce comprende momenti che non sono mai stati registrati né lo dovevano essere. Avevano significato, sì, ma quando Celati parlava il significato veniva dopo la voce, era quasi il suo corollario. Di una cena a Toronto, dopo la proiezione del suo Strada provinciale delle anime all’Istituto di Cultura, ricordo che a proposito del libro, peraltro notevolissimo, che Rebecca West dell’Università di Chicago stava scrivendo su di lui (Gianni Celati: The Craft of Everyday Storytelling, Toronto UP 2000), disse: “Io… non… capisco… Rebecca… dice che ho scritto… quello che ho scritto… perché ho letto… Vattimo”.

Erano gli anni in cui il “pensiero debole” impazzava tra i professori di italiano negli Stati Uniti. Quando si cercava un appiglio teorico all’analisi letteraria, i giovani italianisti correvano da Vattimo. I francesi avevano il decostruzionismo, noi il pensiero debole. Non aggiungo altro. Ma Celati pronunciò il nome “Vattimo” come se contemplasse un abisso che si spalancava davanti a lui. Era difficile capire se fosse sinceramente stupito di essere stato reclutato nel pensiero debole oppure se con lo stupore della sua inflessione ci volesse trasmettere solo la sua perplessa ilarità. Poi la discussione prese un’altra piega e un docente dell’Università di Toronto presse il timone. Era un uomo di forti convinzioni e pareri decisi. Dalla sua barba nera e corta usciva una voce chiara che diceva cose impossibili da equivocare. Finita la cena, mentre lo riaccompagnavo in albergo, a un certo punto Celati mi disse: “Quel professore… è una persona pesantissima… Mi ha fatto venire in mente… sai… i fascisti… ‘Io ti spacco la testa…’ Cose così…”. Il modo in cui pronunciò “i fascisti” ti faceva sentire tutta la storia del ventennio, ma senza l’ideologia, senza la retorica, e senza nemmeno la finezza necessaria alle interpretazioni degli storici. No, quello strascicamento andava al cuore della voce stessa del fascismo, quella che per vent’anni e più non ha fatto altro che ripetere “ti spacco la testa” anche quando usava (e usa) altre parole.

Poi parlammo di varie altre cose che ho raccontato altrove, in un articolo poi incluso nel mio libro I poeti sono impossibili (Sossella 2016). Gli dissi anche, non mi ricordo come mai, di avere conosciuto Barbara Feldman, musicista, compositrice, moglie di Morton Feldman, il pre-minimalista della generazione di John Cage. Gli raccontai di avere cenato con lei in un minuscolo ristorante italiano di Toronto, uno di quei posti che avevano ancora le tovaglie di tela cerata a quadrettini bianchi e rossi, e che avevamo parlato di musica, di Schönberg, di Feldman, e poi non avevamo mantenuto i contatti, perché è così che vanno le cose. Ma quello che mi era piaciuto di Barbara Feldman, gli dissi, era la sua tristezza. Era una donna triste, tristissima. Non sembrava triste a proposito di qualcosa di specifico. Era triste e basta. “Che cosa… bella… che hai detto” commentò lui, e questa volta lo vidi veramente interessato. “Hai detto… una cosa… bellissima…”.

 

 

Qualche anno dopo, a New York, una mattina mi suonò il telefono. Una voce imperiosa disse: “Sono Susan Sontag”. Sentii una scossa; anche da seduto, mi misi sull’attenti. “Voglio parlare con Gianni Celati,” aggiunse, con lo stesso tono di comando. Gianni, che era mio ospite (in quei giorni gli consegnavano il Premio Zerilli-Marimò alla Casa Italiana della New York University) dormiva in salotto. Andai a chiamarlo e gli passai il ricevitore. Concordarono l’ora per un incontro, Celati la voleva intervistare. Tornò nel pomeriggio, registratore in mano. Era entusiasta, non strascicava nemmeno la voce. “Che donna fantastica, intelligentissima,” disse. “Che cose straordinarie ha detto. Devo sbobinare subito…”.

Lo fece nei giorni successivi, io non ero presente. Ma mi è stato detto che all’ascolto dell’intervista Celati cominciò a sbuffare: “Ma di che cosa parla questa qui? Ma che sciocchezze sta dicendo? Io quest’intervista non la pubblico”. Non ho sentito con che voce Celati espresse il suo disappunto, la posso solo immaginare. Poi pare che abbia mutato idea un’altra volta e che abbia deciso di finire il lavoro. Mi piacerebbe leggere quell’intervista, non so se sia uscita e dove, sicuramente sarà stata una conversazione intelligentissima.

Ma, attenzione. Quando Celati usava la parola “intelligenza” bisognava stare molto attenti, perché se c’era una virtù che in lui destava il massimo sospetto era proprio l’intelligenza. Come dice Robert Musil nel suo fondamentale Discorso sulla stupidità del 1937 (possibile che Celati non lo conoscesse? Non credo), se la stupidità non assomigliasse così tanto all’intelligenza, nessuno vorrebbe essere stupido. Per Celati, le dimostrazioni di intelligenza non erano mai disgiunte da un quanto di stupidità. Esistevano, nel suo ordine mentale, una stupidità dell’intelligenza e un’intelligenza della stupidità. Convivevano senza conoscersi e purtroppo senza riconoscersi. Lo scrivere che si fa oggi, così credo di interpretare il suo pensiero, più che essere stupido è rovinato dal tarlo di un’intelligenza che ha talmente paura di passare per stupidità da non accorgersi di essere già stupida.

Perché per Celati chi scrive (chi scrive davvero, non semplicemente chi ti vuole convincere di qualcosa) non deve dimostrare di essere intelligente, anzi non deve dimostrare proprio nulla. Gliel’ho sentito dire, non ricordo quando, che la scrittura dovrebbe essere sdrammatizzata, che non dovrebbe essere niente di più che una continuazione della lettura. E ricordo la voce calma, in quell’occasione per nulla rallentata, con cui lo diceva. Togliere tutto il dramma inutile che vortica intorno alla scrittura e farne una pratica di vita, quasi importante quanto il camminare due ore al giorno, abitudine alla quale non ha mai rinunciato, era forse la sua poetica, il suo vero messaggio.

 

Opere

Traduzioni

  • Jonathan Swift, Favola della botte, Bologna: Sampietro, 1966; Torino: Einaudi, 1990
  • William Gerhardie, Futilità, Torino: Einaudi, 1969; Milano: Adelphi, 2003
  • Louis-Ferdinand Céline, Il ponte di Londra, Torino: Einaudi, 1971; Guignol’s band II, Torino: Einaudi-Gallimard, 1996
  • Edward T. Hall, Il linguaggio silenzioso, Milano: Garzanti, 1972
  • Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer, Milano: Rizzoli, 1979
  • Louis-Ferdinand Céline, Colloqui con il professor Y, Torino: Einaudi, 1980 (con Lino Gabellone)
  • Barthes di Roland Barthes, Torino: Einaudi, 1980
  • Louis-Ferdinand Céline, Guignol’s band, Torino: Einaudi, 1982; Guignol’s band I, Torino: Einaudi-Gallimard, 1996
  • Jack London, Il richiamo della foresta, Torino: Einaudi, 1986
  • Herman Melville, Bartleby lo scrivano, Milano: Feltrinelli 1991; Milano: SE, 2013
  • Friedrich Hölderlin, Poesie della torre, Milano: Feltrinelli, 1993
  • Stendhal, La Certosa di Parma, Milano: Feltrinelli, 1993
  • Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, Milano: Feltrinelli, 1997
  • Joseph Conrad, La linea d’ombra, Milano: Mondadori, 1999
  • Henri Michaux, Altrove, Macerata: Quodlibet, 2005 (con Jean Talon)
  • Storie di solitari americani, Milano: BUR, 2006 (con Daniele Benati)
  • Henri Michaux, Viaggio in Gran Garabagna, Macerata: Quodlibet, 2010 (con Jean Talon)
  • James Joyce, Ulisse, Torino: Einaudi, 2013
  • Joseph Conrad, All’estremo limite, Macerata: Quodlibet, 2017

Documentari

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *