SE NE È ANDATO ADRIANO APRÀ, 83 ANNI, IL MAGGIOR STORICO DEL CINEMA CHE ABBIAMO AVUTO IN ITALIA NEL DOPOGUERRA. NON SOLO. QUELLO CHE NELLA SECONDA METÀ DEGLI ANNI ’60 È RIUSCITO A TRADURRE CON LA SUA RIVISTA, “CINEMA & FILM”, IL CINEMA DI GODARD, DI PASOLINI, DI STRAUB-HUILLET, DI CARMELO BENE, DI ROSSELLINI, DI HOWARD HAWKS, DI JERRY LEWIS IN QUALCOSA CHE LE PIÙ GIOVANI GENERAZIONI CRITICHE POTESSERO CAPIRE, AMARE, STUDIARE…
e ne è andato Adriano Aprà, 83 anni. Qualcosa in più o in meno di un critico. Di sicuro il maggior storico del cinema che abbiamo avuto in Italia nel dopoguerra. Non solo. Quello che nella seconda metà degli anni ’60 è riuscito a tradurre con la sua rivista, “Cinema & Film”, il cinema di Godard, di Pasolini, di Straub-Huillet, di Carmelo Bene, di Rossellini, di Howard Hawks, di Jerry Lewis in qualcosa che le più giovani generazioni critiche potessero capire, amare, studiare.

E magari innestare in una sorta di Nouvelle Vague italiana. Una via italiana alla Nouvelle Vague e alla critica dei “Cahiérs”, diciamo, chiarissima nei primi film di Bernardo Bertolucci, di Gianni Amico, nei film di Mario Schifano o di Carmelo Bene, in certi film dei Taviani e perfino in certi film di Marco Bellocchio, che pure era più vicino allora alla linea di Goffredo Fofi e alla sua rivista, “Ombre rosse”, che era un po’ la versione italiana di “Positif”, l’altra celebre rivista francese di cinema. Per tutta la mia generazione, una generazione che partiva dai fedelissimi di Aprà e della sua celebre rivista di cinema, “Cinema & Film”, diciamo Enzo Ungari, Maurizio Ponzi, Piero Spila, Marco Melani, Oreste De Fornari, Luigi Faccini, e si allargava poi a Tatti Sanguineti, Alberto Farassino, Sergrio Grmek Germani, a Enrico Ghezzi, a me, Adriano Aprà è stato una figura di importanza fondamentale per la nostra formazione. Ho in mano il primo numero di “Cinema & Film”

Apre un editoriale anonimo, ma credo di Aprà. “Cinema e film è una rivista in formazione e di autoformazione: non viene pubblicata per ripetere il già risolto, ma per manifestare e verificare una ricerca di gruppo in via di svolgimento”. Segue un dialogo tra Aprà e Pasolini che non ricordavo più “Buongiorno, cari amici, come va? Il titolo della vostra rivista mi piace molto. Il piacere consiste nel sentirlo suonare ambiguo e significativo: cinema e films (o cinema e film?): una contraddizione? un dilemma? un’endiadi? L’e è congiuntivo o avversativo? C’è in queste due parole congiunte, lo stesso valore che sentiamo in espressioni analoghe come ‘unmanità e uomini’ oppure ‘industria e prodotto’, oppure ‘poesia e poemi’?”.

Troviamo poi un’intervista di Michel Dalheye e Jacques Rivette a Roland Barthes. Seguono una serie di articoli sugli ultimi film di Godard, la sceneggiatura di “Non riconciliati” di Straub, conversazioni con Alexander Kluge, Agnes Varda, André Delvaux. Nel secondo numero trovo una lettera di bertolucci che non ricordavo. “… non è un caso che siate tutti giovani, e c’è un’idea che mi esalta da quando ho avuto in mano la vostra rivista, e sono rimasto contagiato dall’amore tra virgolette con cui una piccolissima tribù l’ha partorita: l’idea è questa: la rivista è la vostra maniera di fare cinema, la tribù, o gruppo se preferite, ha fatto il suo primo film, che ha un nome lunghissimo, si chiama Cinema & Film anno I numero I inverno 1966-67 Una copia L.600.” Ora.

In tanti siamo cresciuti, romanticamente, con gli articoli di “Cinema & Film”, al ritmo delle frasi di Godard, “Per me il tempo dell’azione è passato. Sono invecchiato. Comincia quello della riflessione”. Pensando davvero che fare un film, Melani diceva anche fare un festival, equivalesse a fare un film. Da quella generazione sono nati i direttori più importanti dei nostri festival, da Marco Muller a Alberto Barbera, che forse era più vicino a Goffredo Fofi. E sono nati critici come Roberto Silvestri del Manifesto. Insomma, dobbiamo tutti qualcosa, alcuni davvero molto, a Aprà, che ha aperto le porta a un tipo di cinema, di critica, di cultura, che non conoscevamo.

Ha aperto alla lettura infinita di Rossellini, di Godard, di Pasolini, allo studio di Hawks come opera di alta ingegneria, ma negli anni anche allo studio dei mélo di Raffaello Matarazzo, di Vittorio Cottafavi, di Riccardo Freda, che riaprirono una discussione infinita tra cinema d’autore e cinema popolare. Coinvolgendo nomi diversi, a cominciare dai savonesi Freccero e Sanguineti. E era riuscito, cosa che da tanti anni non è più accaduto, a dar vita a un cinema che nasceva proprio dal dibattito critico, dalle lezioni di Barthes e Pasolini. Penso al cinema di Bernardo e Giuseppe Bertolucci. A sceneggiatori legatissimi a lui, come Enzo Ungari, che scriverà “L’ultimo imperatore”. A operatori culturali internazionali, come Donald Ranvaud.

Ma penso anche ai festival che Aprà e la sua tribù curarono negli anni, come Salsomaggiore, dove vedemmo i primissimi lavori di Jim Jarmusch, e dove Jarmusch incontrò un produttore come Wim Wenders e un protagonista come Roberto Benigni. A Salsomaggiore capimmo per la prima volta che i videoclip potevano essere cinema. E anche film. Capimmo la nascita dei video. Ricordo di aver assistito a un film con Michael Powell e Jacques Demy di fronte a me. Aprà curò, con la direzione di Carlo Lizzani, una serie di retrospettive memorabili al Festival di Venezia, facendoci rileggere le opere di Kenji Mizoguchi (non ne persi una, svegliandomi alle cinque di mattina) e di Howard Hawks. Girò un film, “Olimpia agli amici” con Olimpia Carlisi che non venne considerato un capolavoro.

Fece l’attore, un po’ per gioco, con Ferreri, Schifano… In un curioso periodo che vedeva vari critici civettare col cinema, Edoardo Bruno girò “La sua giornata di gloria”, Goffredo Fofi scrisse “Sbatti il mostro in prima pagina” diretto poi da Marco Bellocchio. Fu un periodo pieno di vita, di idee, di scambi continui, di scoperte fondamentali che avremmo portato avanti tutta la vita. E che, purtroppo, non si ripeterà più. Aprà, che era stato per molti di noi il candidato ideale per dirigere la Mostra del Cinema, non arrivò mai alla direzione. Non aveva grandi doti politiche, diciamo. Ricordo che fu un grande rimpianto per tutta la nostra generazione.
O magari solo per me, ma il cinema italiano perse un’occasione. Perché era riuscito, soprattutto grazie a due figure molto legate a lui e al clan Bertolucci come Ungari a Melani, a unire cinefilia militante e cinema d’autore contemporaneo. Dirigerà invece, sotto la Presidenza di Lino Micciché, dal 1990 al 1998 la Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, poi dal 1998 al 2002 la Cineteca Nazionale. Ma se vi capita il numero uno di Cinema & Film ricordatevi la frase di Godard “Per me il tempo dell’azione è passato, Sono invecchiato. Comincia quella della riflessione”.

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