ANCHE I VECCHI CRITICI MUOIONO. IL CINEMA FRANCESE PERDE LA SUA VOCE CRITICA E STORICA PIÙ AUTOREVOLE, MICHEL CIMENT, 85 ANNI, 60 PASSATI A SCRIVERE ARTICOLI SU ARTICOLI SEMPRE PER LA RIVISTA “POSITIF” – BATTAGLIERO, BIZZOSO, PRECISO. UN MONUMENTO. LA PRIMA RECENSIONE SU ORSON WELLES, POI I GRANDI SAGGI SU STANLEY KUBRICK, LA SUA MONOGRAFIA PIÙ NOTA IN TUTTO IL MONDO. JOSEPH LOSEY, FRANCESCO ROSI, ELIA KAZAN, JOHN BOORMAN, TERRENCE MALICK, I SUOI PREFERITI – SAPEVAMO TUTTI CHE AVEVA UN CARATTERE PESSIMO. E PROPRIO PER QUESTO LO RISPETTAVAMO…

Anche i vecchi critici muoiono. Il cinema francese perde la sua voce critica e storica più autorevole, Michel Ciment, 85 anni, 60 passati a scrivere articoli su articoli sempre per la rivista “Positif”, a cominciare da una prima recensione su Orson Welles a grandi saggi su Stanley Kubrick, la sua monografia più nota in tutto il mondo, Joseph Losey, Francesco Rosi, Elia Kazan, John Boorman, Terrence Malick, i suoi preferiti. Tra i più giovani amava molto Quentin Tarantino, Jane Campion, Tim Burton.

Negli anni ’70 e ’80 fu attivissimo anche in tv e alla radio come critico di cinema importante. Diresse e fece l’intervistatore di una serie di film-intervista, su Billy Wilder nel 1980, un altro su Elia Kazan, uno su Joseph L. Mankiewicz, “All About Mankiewicz”, ne scrisse uno su Francesco Rosi nel 1986, “Francesco Rosi: Chronique D’un Film Annonce”, fu persino sceneggiatore per Jerzy Skolimowski, “Il successo è la miglior vendetta” nel 1984.

michel ciment biografia su stanley kubrick michel ciment biografia su stanley kubrick

Battagliero, bizzoso, preciso. Un monumento. Autorevole, erudito, non simpatico, ma sempre pronto a dir la sua e a discutere. Non importava molto se non si era d’accordo. “Uno spirito curioso di cinema e d’arte che ha fatto battaglie per tutta la vita”, scrive Gilles Jacob. “Cannes senza di lui non sarà più la stessa”, scrive invece il critico del Guardian, Peter Bradshaw.

Ma vederlo in giro assieme alla moglie malata per le strade di Cannes non era più un bello spettacolo. E a Venezia non veniva da prima della pandemia. Lo ricordo cattivissimo urlare questo film è una merda all’indirizzo di un film di James Franco. Insofferente, mentre presentavo “Lo scapolo” di Antonio Pietrangeli con Alberto Sordi assieme a Carlo Verdone lo ricordo sbuffare in maniera assolutamente cafona perché voleva vedere il film, tanto che Verdone, interrotto, lo mandò simpaticamente al diavolo.

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Sapevamo tutti che aveva un carattere pessimo. E proprio per questo francamente lo rispettavamo. Anche se Glauber Rocha, l’anno che presentò a Venezia “A idade da terra” e vinse il Leone d’Oro “Atlantic City”, il film americano di Louis Malle, davanti al Palazzo del Cinema massacrò lui e tutta la giuria (“assolutamente corrotta”), da Suso Cecchi d’Amico (“non è autorevole… la dattilografa di Visconti”) a Gillo Pontecorvo (“lo credevo un regista di sinistra e invece premia un film imperialista”), da George Stevens Jr (“rappresentante del Pentagono” appunto a Ciment (“tutto il mondo sa che riceve soldi dagli americani, dalla Motion Pictures e dalla Cia…”).

Nato nel 1938, allievo di Gilles Deleuze, suo professore di filosofia, a far venire la voglia di scrivere a Michele Ciment sono gli articoli del giovane François Truffaut, non ancora passato alla regia. Ma non arrivava agli eccessi di Truffaut (“Il peggior film di Jacques Becker è migliore del miglior film di René Clement… è falso!”) e diffida degli articoli più strampalati di Jean-Luc Godard.

 

Quando esplode la Nouvelle Vague vede in “Hiroshima mon amour” di Alain Resnais “il film che rivoluziona il linguaggio cinematografico”, più di “A bout de souffle” di Godard, che mette al secondo posto nella classifica dei suoi preferiti, e più di “I 400 colpi” di Truffaut, “film molto buono sulla vena del neorealismo”.

Non gli piacciono i film senili dei vecchi maestri, “i film televisivi di Rossellini, “Le petit theatre” di Jean Renoir, “La contessa di Hong Kong”. A “Positif” suoi maestri come critici sono stati Roger Tailleur e Robert Benayoun, le colonne di “Positif”. Grazie alla sua conoscenza della lingua inglese, aveva abitato un anno in America, riesce a intervistare tutti i grandi registi americani e fa da cerniera tra una vecchia generazione di Hollywood e la nuova.

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Incontra così John Ford, Raoul Walsh, Fritz Lang, Frank Capra, King Vidor, Josef von Sternberg.  Nel corso degli anni prova dei colpi di fulmine per Antonioni, Resnais, per “2001” di Kubrick, per “Lost Highway” e “Mulholland Drive” di Lynch, per “Mean Streets” di Scorse, “Il Padrino 2” e “La conversazione” di Coppola. Adorava i film che abbattevano le frontiere del pubblico, i film che arrivavano facilmente a tutti, come quelli di Kubrick, anche se poi vedeva nei film di Malick, anche gli ultimi, l’interesse per la pura messa in scena cinematografica, la “caméra-stylo, cioè il film scritto con la caméra”. Si identificava completamente col suo giornale, “Positif”, e con quel tipo di cultura cinematografica.

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