Il 19 aprile del 1992 è il giorno della svolta. Sul “New York Times” Richard B. Woodward, giornalista che per lo più si occupa di critica d’arte, scrive un lungo reportage dal titolo Cormac McCarthy’s Venomous Fiction. È riuscito a intervistare il “più grande e sconosciuto scrittore degli Stati Uniti”, che pratica una specie di eremitaggio, la protervia della solitudine. Il giornalista incontra lo scrittore a Mesilla, in Nuovo Messico; lo scrittore, refrattario a parlare della propria vita, parla dei serpenti a sonagli del Mojave, la vasta regione desertica, in California. Ha accettato l’intervista a patto di non concederne altre, “per diversi anni”. Cormac McCarthy va per i sessant’anni, non ha mai venduto più di 5mila copie per romanzo, gode del rispetto di una stretta “confraternita di critici e di scrittori”, e poco più. Non pare curarsene. Quel giorno, però, trent’anni fa, è il giorno della svolta. Il reportage di Woodward lancia, inesorabilmente, il “personaggio”; il mese dopo Knopf pubblica Cavalli selvaggi, il primo romanzo della “Border Trilogy”, il primo successo di McCarthy (da cui, nel 2000, Billy Bob Thornton trae un film, invero modesto, con Matt Damon e Penelope Cruz). Il romanzo ottiene, quell’anno, il National Book Award – nella sezione poetry gareggia il futuro Nobel per la letteratura Louise Glück, con The Wild Iris – e verrà tradotto, dopo poco, da Einaudi. Improvvisamente, tutti conoscono McCarthy; quanto a lui, continua la vita di prima, sobria, arcana, fuori dal tempo, in viaggio. Quest’anno pare sia l’anno buono per The Passenger, l’ultimo romanzo di McCarthy. Se ne parla dal 2009, doveva uscire nel 2015, il precedente, The Road, è pubblico dal 2006. Ma McCarthy, si sa, segue ritmi che riguardano i fiumi e le pietre, esegue compiti inscritti da un tempo precedente; quello umano gli pare precario, vago, esausto. In attesa del romanzo, abbiamo tradotto una larga parte dell’intervista di allora, quella del ’92, che cambiò tutto, testimonianza sgargiante che non esclude il sangue della contraddizion

“Conosci i serpenti a sonagli del Mojave?”, mi fa Cormac McCarthy. La domanda, a pranzo, a Mesilla, Nuovo Messico: lo scrittore eremita, il più grande sconosciuto romanziere degli Stati Uniti, vuole distogliere la conversazione da se stesso, crede di potersi mimetizzare, di eludermi, raccontando di un suo viaggio, al confine tra il Texas e il Messico, qualche anno fa. Autore che narra le azioni brutali degli uomini con dettagli terrificanti, senza anestetici psicologici, McCarthy preferisce la chiacchiera alla confessione. Narratore dalla lingua d’argento, assapora le stranezze, si china sul piatto, fa la cronaca delle minuzie, fantastica, nel suo dolce accento del Tennessee.

“I serpenti a sonagli del Mojave hanno un veleno neurotossico, simile a quello dei cobra”, comincia, dandomi una lezione di zoologia, spiegandomi i diversi colori che assume quella serpe, la sua diffusione, a Ovest. Si è imbattuto in quella creatura nel 1978, guidava un Ford pick-up, nei pressi del Big Bend National Park. McCarthy scrive solo dei luoghi che ha visitato: ha fatto dozzine di escursioni in Texas, New Mexico, Arizona, lungo il Rio Grande, a Chihuahua, Sonora, Coahuila. L’enorme deserto, saturo, scabro, è metafora della violenza nichilista di Meridiano di sangue, pubblicato nel 1985. La stessa terra disabitata, martoriata dal nulla, domina in Cavalli selvaggi, il nuovo romanzo.

“Mi interessa l’animale allo stato brado, che può ucciderti all’improvviso”, dice, sorride. “Mi è capitato in Alaska. Ho visto un grizzly, non c’erano recinzioni, avevo la sensazione che dopo essersi stancato di inseguire una marmotta, mi avrebbe puntato”. Di fronte al serpente a sonagli si è tenuto a rispettosa distanza, l’ha allontanato con un bastone, lo ha spinto nell’erba, è strisciato altrove. Due ranger del parco, incrociati più tardi, erano riluttanti a discutere di serpenti velenosi. “Non sappiamo quanto siano pericolosi”, ha detto uno, “Diamo per certo che saresti morto”. L’aneddoto termina con una delle risate smaglianti di McCarthy. I suoi romanzi sono caratterizzati da una sorta di morboso realismo; i suoi eroi sono spesso degli emarginati: indigenti, criminali, senzatetto accucciati in tuguri privi di elettricità, uomini che sgattaiolano nei boschi del Tennessee orientale, sul crinale di spazi disumani, da deserto a deserto, tra i vuoti. La morte, che si annuncia spesso, cala all’improvviso, nell’immagine di una gola squarciata, di una pallottola in piena faccia. L’abisso si spalanca ad ogni passo falso.

McCarthy ama il selvaggio – negli animali, nei paesaggi, negli uomini – e sebbene sia un uomo di 58 anni, ben fatto, colto, ha trascorso la maggior parte del proprio tempo fuori dal mondo. Difficile pensare a un grande scrittore americano che abbia partecipato così poco alla vita letteraria del paese. Non ha mai insegnato, non ha mai scritto sui giornali, non tiene letture né conferenze, non concede interviste. Nessuno dei suoi romanzi ha venduto più di 5mila copie. Per larga parte della sua carriera, non ha avuto un agente. Eppure, per una stretta confraternita di scrittori e di accademici, McCarthy non è secondo a nessuno, nonostante l’assenza del vasto riconoscimento pubblico, la scarsità delle vendite. Autore di culto, scrittore per scrittori, in molti, soprattutto nel Sud degli Stati Uniti e in Inghilterra, lo hanno paragonato a Joyce e a William Faulkner. Saul Bellow, che ha fatto parte del comitato che nel 1981 gli ha concesso il MacArthur Fellowship, la borsa di studio assegnata a un “genio”, ha elogiato il suo “linguaggio prepotente, persuasivo, come una condanna a morte – o alla vita”.

Scrittore virile, la cui visione apocalittica di rado considera le donne, McCarthy non scrive di sesso, di amore, di vicende domestiche. Cavalli selvaggi, un romanzo d’avventura che narra di un ragazzo che viaggia dal Texas al Messico con un amico, è insolitamente docile, pare di vedere Huck Finn e Tom Sawyer che cavalcano insieme. La storia è schietta, rapida, ricorda il primo Hemingway; dovrebbe consentire a McCarthy un pubblico più vasto, pur conservando la consueta mistica maschia. La prosa di McCarthy ripristina il terrore e la grandezza del mondo terreo, cruento, con gravità biblica, che tiene sotto ricatto il lettore. Una pagina qualsiasi di uno qualsiasi dei suoi romanzi – appena punteggiata di virgole – possiede una sobrietà stilizzata che amplifica la forza delle parole, esatte. Crudeltà inimmaginabile e dettagli, il tenue bussare a una porta e lo strazio coesistono.

Erede legittimo del romanzo gotico del Sud, McCarthy è un conservatore radicale, crede ancora che il romanzo possa, come dice lui, “comprendere tutte le discipline e gli interessi dell’umanità”. Con le sue incursioni nella storia degli Stati Uniti e del Messico, ha aperto un sentiero nel cuore violento del Vecchio West. Non c’è nessuno, nella letteratura italiana contemporanea, lontanamente paragonabile a lui. Solido, timido, con gli stivali da cow boy, McCarthy cammina leggero, sembra saper ballare. Bello, dagli occhi celtici verdi e blu incastonati in un volto ampio, dalla fronte larga, “dà un’impressione di forza, vitalità, poesia”, ha detto Bellow, “sembra un uomo integro”.

Per essere un solitario tanto ostinato, McCarthy seduce, è divertente, un ottimo oratore. A differenza dei suoi personaggi, concisi, rozzi, per lo più analfabeti, è ironico, gli piace parlare. La sua sintassi ha un’eleganza cauta, sa dirigere con sapienza i pensieri. Dopo aver accettato l’incontro – dopo lunghe trattative con la sua agente, strappando la promessa che non avrebbe accolto interviste “per almeno molti anni” – è parso felice della mia compagnia. Dal 1976 vive per lo più a El Paso, al confine con Juarez, Messico. Pur recluso, McCarthy ha diversi amici, che conoscono le sue abitudini, il suo desiderio di solitudine. Alcuni anni fa il “The El Paso Herald Post” ha tenuto una cena in suo onore. Ha avvertito, educatamente, che non avrebbe partecipato, e così ha fatto. La targa pensata per lui è appesa nell’ufficio del suo avvocato. Per molti anni, per altro, non ha avuto mura su cui appendere alcunchéQuando ha appreso la notizia del MacArthur viveva in un motel a Knoxville, Tennessee. Ha imparato a viaggiare con una torcia ad alto voltaggio, per poter godere di un’illuminazione adatta quando legge o scrive, ed è in giro. Nel 1982 ha acquistato un minuscolo appartamento in pietra, dietro un centro commerciale a El Paso. Non mi ci ha portato. “È a mala pena abitabile”, mi dice. La ristrutturazione, iniziata qualche anno fa, si è fermata per mancanza di fondi. Si taglia da solo i capelli, mangia a una tavola calda, usa le lavanderie a gettoni. Stima di avere circa 7mila libri, sparsi qua e là. “Ha più interessi intellettuali di chiunque conosca”, ha detto Richard Pearce, il regista, che ha scoperto McCarthy nel 1974 ed è uno dei suoi rari amici “artisti”.

Non ha mai voluto un lavoro fisso, un tratto che pare abbia infastidito le due ex mogli. “Vivevamo in totale povertà”, ricorda Annie DeLisle, che ora gestisce un ristorante, in Florida. Per quasi otto anni hanno abitato in una stalla, fuori Knoxville. “Ci facevamo il bagno nel lago”, dice, con una sorta di screziata nostalgia. “Ogni tanto qualcuno chiamava, gli offriva 2mila dollari per parlare dei suoi libri in una qualche università. E lui rispondeva che tutto quello che aveva da dire era lì, sulla pagina. Dunque: avremmo mangiato fagioli per un’altra settimana”.

McCarthy preferisce parlare di serpenti a sonagli, musica country, Wittgenstein; di qualsiasi cosa, più che di se stesso, della sua vita, dei suoi libri. “È difficile trovare qualcosa che non mi interessi. La scrittura non è in cima alla lista”. La sua ostilità verso il mondo letterario è genuina (“le scuole di scrittura sono un caos inutile”). Alle riunioni del MacArthur e alle discussioni con gli altri scrittori, preferisce le lunghe chiacchiere con gli scienziati, il fisico Murray Gell-Mann, il biologo delle balene Roger Payne. Uno dei rari amici è stato il romanziere ecologista Edward Abbey. Poco prima della sua morte, nel 1989, hanno ragionato insieme su come reintrodurre il lupo in Arizona.

Il silenzio di McCarthy intorno alla sua vita ha generato leggende. Secondo la rivista “Esquire”, che ha catalogato una vasta lista di pettegolezzi, ha vissuto per un po’ sotto un derrick, un impianto per trivellare petrolio. Per molti anni, la somma delle informazioni sulla sua vita la si ricavava soltanto dalla nota biografica apposta al primo romanzo, The Orchard Keeper, pubblicato nel 1965. Nato a Rhode Island nel 1933, cresciuto nella periferia di Knoxville, ha frequentato le scuole parrocchiali, è entrato alla University of Tennessee, per poi abbandonarla; dal 1953, per quattro anni, si è arruolato nella Air Force; è tornato in università per abbandonarla di nuovo; nel 1959 ha preso a scrivere romanzi. Ha avuto due mogli, un figlio, nato nel 1962, si è trasferito nel sud-ovest nel ’74. I dati biografici finiscono qui.

Primo figlio di un eminente avvocato, già membro della Tennessee Valley Authority, McCarthy in verità si chiama Charles Jr., ha cinque fratelli. Cormac, equivalente gaelico di Charles, era il vecchio soprannome di famiglia affibbiato al padre dalle zie irlandesi. Sembra avere avuto un’infanzia agiata, per nulla simile alle vite dei suoi miserabili eroi. La grande casa bianca della giovinezza dominava su acri di bosco, governata da cameriere. “Eravamo considerati ricchi perché tutti, intorno a noi, vivevano in baracche di una o due stanze”, ricorda lui. Quello che accadeva in quelle baracche, e nel mondo infernale di Knoxville, sembra aver alimentato la sua immaginazione più di quanto ha vissuto nella sua famiglia. Il romanzo Suttree, che narra di un paralizzante conflitto padre-figlio, ha tratti autobiografici. “Non ero ciò che avevano in mente dovessi essere”, racconta McCarthy. “Ho capito che non sarei diventato un cittadino rispettabile. Ho odiato la scuola dal primo giorno in cui ci ho messo piede”. Solo a 23 anni scopre la letteratura. Era in Alaska, inviato dall’Air Force. Per vincere la noia, in caserma, ha iniziato a leggere. “Ho letto molto, e molto velocemente”. La lista di quelli che considera “bravi scrittori” – Melville, Dostoevskij, Faulkner – esclude chi non si occupa di vita o di morte. Proust e Henry James non gli piacciono. “Non li capisco. Per me quella non è letteratura. Un mucchio di scrittori che sono considerato buoni, per me sono soltanto strani”.

McCarthy ha cominciato a scrivere The Orchard Keeper all’università, lo ha terminato a Chicago, dove lavorava part-time in una officina di automobili. “Non ho mai avuto dubbi sulle mie capacità. Sapevo di poter scrivere. Il punto era guadagnare qualcosa mentre lo facevo”. Nel 1961 ha sposato Lee Holleman, conosciuta al college; hanno avuto un figlio, Cullen – che studia architettura a Princeton –, per poi divorziare, poco dopo. Ancora senza editore, lo scrittore è stato a Asheville, a New Orleans. Gli chiedo come riuscisse a pagare gli alimenti. “Già, come?”. Ricorda che è stato cacciato da una stanza a 40 dollari al mese, nel quartiere francese, perché non pagava l’affitto. Dopo tre anni, ha spedito il manoscritto a Random House, “l’unico editore di cui avevo sentito parlare”. Il testo giunge sulla scrivania del leggendario Albert Erskine, l’ultimo editor di Faulkner, nonché fautore del successo di Sotto il vulcano di Malcolm Lowry e di L’uomo invisibile di Ralph Ellison. Erskine ha riconosciuto lo stesso carisma di quei grandi in McCarthy, il genio di uno scrittore ormai estinto dall’orizzonte della letteratura americana. Lo ha seguito per vent’anni. “Ci lega un sentimento di paternità, direi”, dice Erskine, e ammette, “ma non abbiamo mai venduto uno dei suoi libri”.

Per anni, ha sopravvissuto grazie a premi in denaro, sovvenzioni dell’American Academy of Arts and Letters, borse della William Faulkner Foundation e della Rockefeller Foundation. Ha usato parte di questi soldi per un viaggio in Europa, nel 1967. Sulla nave che lo portava in Irlanda, ha incontrato la DeLisle, cantante pop inglese, la sua seconda moglie. Per alcuni mesi hanno vissuto a Ibiza, dove McCarthy ha scritto Outer Dark, edito nel 1968, specie di involuta Natività centrata sulla ricerca, da parte di una madre ragazza, del figlio, nato da un incesto. In un lungo articolo pubblicato sul “New Yorker”, Robert Coles ha definito McCarthy un “romanziere col senso del sacro”, che ha la stessa tensione dei tragici greci e dei moralisti medioevali. “Lo dimostra perfino il suo testardo rifiuto di piegare la scrittura alle esigenze intellettuali della nostra epoca… il suo destino è quello di restare relativamente sconosciuto, per lo più frainteso”.

“Non esiste vita senza spargimento di sangue”, dice McCarthy. “L’idea che la specie possa essere migliorata, in qualche modo, che tutti possano vivere in armonia, mi pare pericolosa. Chi è afflitto da questa nozione è il primo a rinunciare alla propria anima, alla propria libertà. Il desiderio di percorrere questa via ti rende schiavo, rende vacua la tua esistenza”. Come Flannery O’Connor, si schiera con i disadattati, con gli alieni e gli anacronistici, contro ogni utopia di “progresso”.

Uno dei suoi amici descrive McCarthy come un camaleonte, “sa adattarsi a ogni ambiente e ad ogni compagnia, è sempre sicuro di ciò che vuole fare”. Lo scrittore ribatte, “il punto è che mi interessa tutto. Non mi sono mai annoiato in 50 anni. Dimentico ogni cosa”. Ha risparmiato abbastanza soldi per lasciare El Paso. Intende andare in Spagna. Suo figlio, con il quale ha ricomposto un legame, si sposerà lì, quest’anno. Il costo di una vita così indipendente, per sé e per gli altri, è difficile da valutare. Gli scrittori americani di talento non sopportano alcuna delle difficoltà che McCarthy ha scelto di imporsi. Quanto a lui, sembra immensamente orgoglioso di essere un tipo di scrittore ormai estinto.

Richard B. Woodward

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