Stigmatizzato dal genio poetico, Jean-Pierre Duprey fece di tutto per disinnescare le aspettative, per disorientare gli aspetti ornamentali della letteratura. Il suo più accanito sostenitore, André Breton, cardinal surrealista, che l’aveva benedetto tra gli apostoli della sacra setta (“Lei è certamente un grande poeta…”), dovette cedere agli eccessi di questa figura eccezionale. Nato a Rouen il primo giorno del 1930, estremo fin da ragazzo, anoressico, drogato, sancito da una poesia fitta di notti, di estemporanee tigri, di ringhiose apocalissi, Duprey pubblica il primo libro, Derrière son double, nel 1950, per “Le Soleil noir” di François Di Dio, discepolo surrealista, tra l’edizione della Justine del Divin Marchese commentata da Georges Bataille e una tiratura d’arte de Le Lettere du voyant di Rimbaud. Va da sé che tutti presero Duprey per l’ennesimo, redivivo Rimbaud – ci andarono vicini.

Per istinto, Duprey abbandonò la poesia pubblicata, preferendo la via della scultura. Le sue opere sono agghiaccianti: sembrano enormi tagliole, trappole, mostri dai mille denti, esegesi dei primordiali vermi teorizzati da Lovecraft. Sappiamo cosa dice il viso di Duprey: dai tratti instabili, i capelli in aria, alla James Dean, gli occhi da bimbo impareggiabile, da indifeso brigante, da impuro innocente. Dice, quel viso, dell’arte come ora-o-mai-più, dell’oro dei perduti, della poesia come atto istantaneo, che, libera da schiavitù grammaticali, schiava i sette cieli, libera le paradisiache serpi. La poesia-rischio, intendo, l’arte che esiste finché si nutre dell’artista, fattura di mille vampiri.

Aveva tutto per essere tutto: bello, riconosciuto, il cattivo ragazzo dei surrealisti illustri, che avevano dismesso le oscenità per le uscite nei café, l’onirico per la cravatta. Fu, invece, poeta del tutto postumo, parabola dell’angelo in latrina, messo all’angolo dai manganelli della storia. Succede, così, che in rivolta alla guerra d’Algeria, Duprey compie un gesto rimbaudiano e assurdo: va sotto l’Arco di Trionfo e piscia sulla fiamma del Milite Ignoto. Mentre gli intellettuali – i Sartre, i Camus – prendono posizione, come si dice, Duprey, dice lui, vuole “commettere un atto oggettivo contro l’esercito implicato in una guerra ingiusta”. L’esito è nel sangue. Arrestato dalla gendarmeria, menato, gettato in carcere, infine, per qualche settimana, al Sainte-Anne di Parigi, il manicomio. È la stessa storia cumulativa del poeta gettato nella casa dei matti, a licenziare lì i suoi imprevedibili versi. C’è poca teoria o romanticheria intorno: gli amici dicono che Duprey soffre, grida, dà in allucinazioni; la prigione gli si digrigna addosso. Si tratta, come si è detto, di un carattere con chiromanzia di spine sul petto, ipersensibile, che vive nella placenta di un urlo: lo dimostrano le continue liti, saggiate da visioni, con la moglie, Jacqueline Sénart, con lui da quando era un ragazzino, si erano conosciuti in Normandia.

L’esito è già scritto. Rilasciato il 30 luglio del 1959, il poeta si chiude in casa. Fa il reprobo e il recluso. Termina l’ultimo libro, La Fin et la manière. Il 2 ottobre chiede alla moglie di consegnare il manoscritto a Breton; lui si è già consegnato alla scelta: si impicca. Ha 29 anni. Il libro esce nel 1965, per “Le Soleil noir”, con i disegni di Matta e una prefazione di Alain Jouffroy:

“Jean-Pierre Duprey non si è limitato a invitarci a scendere nei sotterranei mitologici dove vita e morte si sfidano come molossi di ceramica: ci ha offerto le redini della sua personale tragedia. Non più illusioni, allusioni, antinomie, bipolarità o divorzi baudelairiani, ma ‘tutto il vitale che c’è’, in blocco, la ‘fuga temporale’, l’epopea di tutti i fantasmi, la mischia del vero con il falso, dell’intangibile con il tangibile, dell’ombra con la luce, fino a quel gesto triangolare ed enigmatico: l’invio del manoscritto ad André Breton pochi minuti prima della morte”.

Morte, prima di tutto, di Breton e di quel mondo più che di Duprey, che morendo si eleva a monito, a mito immoto, a manovale d’angeli. Le Œuvres complètes di Duprey sono in catalogo Gallimard dal 1999 – quanto a noi, dovremmo ragionare sui poeti reclusi, come se reclusorio e silenzio fossero la prima voce della poesia: non si tratta di fuggire gli uomini nel deserto, a tentare qualche dio caudato, ma di chiudersi al mondo, chiudere fuori gli altri, immergersi in quel feto di cemento, la casa.

Giacomo Cerrai, tra i pochi che si sono occupati in Italia dell’opera di Duprey – nel 1993, per Palomar, Bruno Pompili ha curato la traduzione de La foresta dei sacrilegi: poco altro, di sparso, è uscito –, scrive, tra l’altro, di “una poesia, al di là dei pegni pagati ad una incurabile difficoltà di vivere, libera nella sua sostanza e nella sua forma, che in alcuni testi sembra, secondo Julien Gracq, ‘una Apocalisse arredata da De Chirico e filmata da Buñuel’. Una poesia vissuta intensamente e pagata a caro prezzo”.

Sembra raffigurare un canone il segno sul collo del prestigiatore senza grammatica che al cospetto delle stelle impiccate, spira – dal suo sputo faranno enciclopedie, coccodrilli con le vertebre verbali.

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Dopo

Presso la traccia, la distanza.
Chi sogna l’uno, chi l’altro,
l’uno nell’altro compreso.
Nessuna luce
può finire senza fuoco.
Comincia il fumo
perché prenda forma
senza presa sull’avvenire.

*

Il giorno comincia al bordo della notte

Sentite, io mi butto!
Pianto la notte nella mia testa a colpi di coltello
A colpi di martello, d’una mazza d’una sbarra rossa
La pianto e la tiro fuori tutta fumante
Come un corto circuito senza scintille.

Lasciatemi, mi butto!
Mi caccio la notte nella bocca
Per sentirla tutta. Il mio cranio è il parabrezza
Dove sanguinano i segreti
Mi affondo ad ogni buon conto
La luna nell’occhio
Per vederla piangere.

Le canzoni sono tornate in gola
Questo silenzio mi rode i denti
Ho in testa il vento freddo dei ricordi
Che serve quanto una candela
Ma forse uno di questi giorni
Anch’io canterò
La bianca lebbra dell’amore.

(Settembre 1946)

Traduzione di Giacomo Cerrai

*

Tra la mia vita e me

Tra la mia vita e me c’è ora lo sgualcirsi d’un nuovo corpo sconosciuto e irritante che si appiccica al mio lo chiamerò Realtà.

Sono a letto: sto sognando; i miei amici hanno teste di legno e i miei compagni rassomigliano a negri tutto solo scalo le fondamenta di un nuovo mondo.

Io ordino la fucilazione delle antiche pietre

Seduto al tavolo davanti al cielo io consumo lo spazio

A Calcutta il mio corpo risvegliato si esercita in questo nuovo mestiere io nuoto nell’ombra naturale degli anni di silenzio la mia magia si eserciterà su tutti i mostri della creazione gentiluomo delle palme da cocco io sogno la follia del mondo.

(Settembre 1946)

Traduzione di Giacomo Cerrai

*

Nella mia somma solitudine ho inventato il frutto del soffrire, coltivato nella regione del cuore, che, mescolato a farina, annaffiato con vino vecchio, rappresenta un alimento pressoché completo benché troppo salato. Solitudine; legame tra una certa sofferenza e la grande gioia; volto minuziosamente elaborato nel silenzio dei brusii, nel vuoto. Comincia con una caduta, finisce all’esterno del tempo. A volte lo immagino come una bestia timida che cerca compagnia. La segua da vicino… La solitudine intorno, prosegue a perseguitarti.

*

Dall’alba sboccia la brina blu
lui coglie un sole
e taglia una crosta di giorno
vuole sedersi su una poltrona
ma prima si suicida
disperato perché non ha ciò che non ha
il poeta
il poeta
mescola pianto e chewing-gum
gioca coi grani del sangue
che gli sporcano la corazza
voleva svaligiare i perduti amori
fumarli, come mozziconi, senza sapore

*

Movimento

Movimento piegato al corpo della vita
Fuori, la notte innevata
Dentro, il morto che aspetta
Solo un battito d’ala
Il diritto
È anche il rovescio dell’ombra.

Questo diritto è questo rovescio
Passato attraverso questo diritto.

Movimento senza peso sulle mani
Il dorso
Preme sui vetri oltre misura.
Lentamente, affaticato da quattro giunture d’aria.
D’aria intorpidita,
Passato lentamente lungo i muri,
Il morto preme l’aperto della sua testa.

Traduzione di Alfredo Riponi

*

Da dietro i lupi

Come i lupi urlano la notte stringe la vite,
La terra smette di girare
Affinché il cielo si rimetta in piedi.
Stasera la terra è trasparente
Al sole secondo, sangue nero, viscido vento,
Librato nel senso
Del più profondo che s’apre su sé stesso
Nei suoi giri dai cento volti.

Volto da dietro i lupi
Dove la notte muore, passa
Un braccio da spavento.
…Liscio come uno specchio
Dove ci si congela nell’onda degli occhi.

Il volto da dietro i lupi,
Come un silenzio ha appena maledetto,
La sua vita di spazio
Già oltrepassa la cordigliera dei sensi.

Colpisci il volto, colpisci
Il volto liscio come un vetro;
Passa il coltello sul tuo volto,
Prendi la tua vita dalle due estremità
E fai la ruota,
Fai la ruota…

Traduzione di Pasquale Di Palmo

*

Piccola stella di carne, ci vorrebbe un mondo
per scassare ciò che ti trattiene,
ma non è forse ciò che tengo tra le mani
non è forse il grido del mappamondo la mia voce?
Io sono l’incantatore con le spade del silenzio,
ho donato il mio potere sui mari
a te piccola stella di tutte le fortune
e mi accuccio nella tua maschera di vetro
dove l’oro è un peso assegnato dagli occhi;
ma la notte è fredda per gli incantesimi
il cielo sa dov’è la sede del dolore
e mi accuccio tra le fratture del brivido
per limitare la felicità di entrambi.
Un bacio sulle labbra (lo senti?)
chiuso il cuore, come fosse di troppo,
non ho capito che amare vuol dire galoppare
e mi involo con i figuranti del mattino.
Piccola stellina, mio tutto sonno,
montata lassù insieme al sole.
Scendi e rendi l’uomo buono
mentre arretra il giorno davanti al prestigiatore
che conserva la sua febbre dal sapore felice.
Il sole esce dalle sue prigioni
è gennaio.

Jean-Pierre Duprey

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