Quando, due o tre anni fa, la rivista napoletana d’inchiesta Monitor iniziò a segnalare, con il consueto rigore, le falle nel rapporto tra il sindaco di Napoli e i movimenti, il baratro che separa i proclami rivoluzionari dalla realtà quotidiana, i miraggi di palingenesi coltivati da molti militanti e i limiti di quello che sarebbe diventato il populismo in salsa partenopea, la reazione più diffusa a sinistra fu un mix di malcelato fastidio e zeppate rancorose. Uno degli articoli più contestati, ad esempio, fu una garbata riflessione sull’alleanza in chiave ideologica ed elettorale tra primo cittadino e centri sociali (vecchi e nuovi), le che frasi che circolavano nell’aria appartenevano più a riflessi pseudo-polizieschi che alla dialettica hegeliana: “Ma questi chi sono?”, “Sì, ma cosa fanno loro per cambiare le cose?”; addirittura un “Perché non li firmano gli articoli?” – che ovviamente vale solo per i rompicoglioni e mai per gli amici, che possono nascondersi dietro nickname improbabili e nomi collettivi -, e l’immancabile “E allora ditelo, che volete il ritorno di Bassolino e del Pd!” i

Sono passati 18 mesi da allora, ma sembrano cinque anni: la durata di un’intera legislatura. Questo perché, non appena De Magistris fu rieletto nella primavera del 2016, l’atmosfera era ancora molto diversa. Basti pensare al “contributo di riflessione” firmato dal collettivo Massa Critica e pubblicato sul sito di EuroNomade, che indicava nella due giorni del 3 e 4 settembre di quell’anno l’occasione per “costruire una rete di città ribelli oltre i confini nazionali”, e spiegava: “L’amministrazione ha accettato la sfida (…). L’ ‘Anomalia Napoli’, a oggi, continua il suo tortuoso percorso per divenire ‘laboratorio Napoli’, esportabile e allo stesso tempo adattabile, a geometria variabile”.ii In vista delle elezioni qualcuno aveva creato una pagina su Facebook, Leninisti per De Magistris, in cui il sindaco veniva ritratto come il classico capopopolo ipervirilizzato, che mette in fuga con un sorriso disarmante Renzi e i “poteri forti”. Era una pagina bonaria fatta da simpatizzanti, condivisa per lo più nella bolla auto-referenziale di molti “compagni” simpatizzanti del sindaco. In generale, un anno e mezzo fa, a sinistra, prevaleva ancora un sentimento di cauto ottimismo per la moltiplicazione di iniziative politiche, tavoli di discussione, attività mutualistiche, luoghi abbandonati che venivano riorganizzati e poi restituiti alla cittadinanza. Oggi nessuno, neppure per scherzo, si azzarderebbe a far circolare “da sinistra” un meme in sostegno del del primo cittadino.

Adesso che la città è avvolta in una crisi che si è delineata in tutta la sua gravità, che riguarda praticamente ogni settore della vita civile escluso il turismo, con i trasporti, la programmazione culturale e la manutenzione degli spazi pubblici che sono all’Anno Zero, adesso che il sindaco ha dovuto rinunciare persino alla cerimonia in Piazza Plebiscito per l’assegnazione della cittadinanza onoraria a Diego Maradona per evitare contestazioni, adesso insomma che il vento è cambiato, molti compagni hanno avvertito un “via libera” per un altro tipo di narrazione, di stampo più improvvisato che riflessivo: ecco un pullulare di roboanti prefiche sulla gentrificazione in città, analisi indignate sul bilancio comunale prosciugato dal neoliberismo; appelli a ritrovare la slancio rivoluzionario con improbabili alleanze tra comuni ribelli. E che qualcosa è cambiato lo si nota anche dal fatto che, a parlare del modo in cui sono stati fatti sfrattare i rom di Ponticelli, non ci sono più soltanto Padre Alex Zanotelli e qualche isolata ong, ma anche la stampa nazionale.iii

In realtà, che sarebbe stato un annus horribis per De Magistris lo avevano fatto capire già alcuni tra i suoi più onesti sostenitori. A settembre, una lettera firmata alcuni attivisti di lungo corso, pubblicata sul sito Contropiano, iniziava così: “La seconda consiliatura (sic) de Magistris, come è ampiamente noto, è nata con un crescente astensionismo del popolo napoletano e con una discutibile politica delle alleanze”. E più oltre: “ogni retorica sulla ‘Città Ribelle’, anche se fatta sul versante dei Movimenti, è, oramai, del tutto fuori luogo”.iv

Il duro impatto con la realtà

Cos’è successo? È che l’ultima manovra di bilancio del Comune, vuoi per colpa dell’austerity nazionale, vuoi per debiti lasciati dalle precedenti amministrazioni, rientrava pienamente nell’ottica del risanamento finanziario, con esuberi all’azienda di trasporto pubblico (in questi giorni si parla addirittura di privatizzazione), la svendita della rete del gas, tagli alle politiche sociali, i movimenti di protesta contro le speculazioni a Bagnoli tenute bellamente all’oscuro degli accordi col governo, e tanto altro che poco di buono faceva sperare sull’effettivo recepimento delle cosiddette “istanze dal basso nei piani alti”. Nonostante i centri sociali abbiano avuto un atteggiamento tutt’altro che supino nei confronti del Comune, ma anzi piuttosto guardingo nei confronti di alcuni membri della giunta, De Magistris si è mosso tranquillo come una fisarmonica nei confronti del Pd romano, allargando e restringendo gli spiragli di diplomazia a seconda delle convenienze; riallacciando il dialogo strategico con una nemesi dei movimenti quale Antonio Bassolino; dimostrandosi incapace di opporsi alle direttive del decreto Minniti, con la città sfigurata da obbrobriosi carri militari davanti ai monumenti principali, e un assessore in odore di candidatura, Alessandra Clemente, che proponeva addirittura l’inasprimento del Daspo per i parcheggiatori abusivi.v Riassumendo: un approccio tipicamente di centrosinistra, che rende aria fritta le reboanti promesse fatte in campagna elettorale (a cominciare da un fantomatico reddito di cittadinanza). Ma più in generale, viene meno il progetto utopico di una reale democrazia diretta, capillare, redistributiva. Di che natura è questo crollo? Trattasi di abbaglio in buona fede, oppure la conseguenza di una narrativa sinistroide ha guardato troppo nel proprio ombelico e distorto le proporzioni del suo peso?

Il punto è che, come’è facile immaginare, si è passati dalla troppa indifferenza alla troppa rozzezza. O, se preferite, dalla tattica all’accetta. Così oggi si salta dalla storia romantica del “sindaco di strada”, della “Napoli capitale morale”, all’incubo di una città che si sarebbe svenduta l’anima al diavolo: una “Disneyland” che viene ingigantita e caricaturizzata oltre misura, manco fossimo a Brixton, Londra, o a Williamburg – New York. Senza nessuno che parli dell’effetto paradossale di Airbnb come ammortizzatore sociale, per i pensionati abbandonati a sé stessi e per quegli stessi trentenni declassati che senza questa fonte di reddito finirebbero a fare i camerieri a Londra, e non i consumatori culturali del centro storico.

Allo stesso modo, il dramma economico di una città che bordeggia la bancarotta (con modalità che ricordano la New York del 1975, ma senza nemmeno la prospettiva di una rinascita per mano del terziario e della finanza come avvenne per la metropoli americana) rischia nei prossimi mesi di essere ridotto a esercizio ideologico, a occasione per pippotti antiliberisti che definirei teleonomici, in cui “tutto fa brodo”, e quindi la causa di tutti i mali va cercata in cospirazioni complicate e lontane da noi. Al di là di certe forzature, inevitabili in una città a bassa scolarizzazione e con la classe più istruita costretta all’emigrazione, la situazione è realmente terrificante. E riguarda non solo Napoli, ma quasi tutti i grandi comuni del centro-Sud.vi

Tempo fa Salvatore Di Maio, un caro amico che per quarant’anni ha lavorato come dirigente al Comune, ora in pensione, mi spiegò: “Questa amministrazione, come le precedenti del resto, tende a nascondere i problemi e inventa operazioni tutte politiche per definire un bilancio in modo da sostenere proprie tesi e tattiche necessarie per il mantenimento del consenso. Questo atteggiamento è scorretto perché trasferisce nel tempo e soprattutto ad altri problemi che dovrebbero essere avviati a soluzione subito, anche a costo di perdere consensi. Ma questo non è facile a farsi, soprattutto per chi sulle intenzioni ha costruito il proprio successo”. Quando chiesi un parere a Salvatore sull’ex assessore al bilancio Riccardo Realfonzo, che già nel 2012 aveva denunciato la disastrosa situazione dei conti pubblici e si era dimesso in contrasto con De Magistris, lui spezzò una lancia a favore del sindaco: “Mah, la corazza di castigamatti ‘senza distinzioni’ a me non piace. Accettare di fare l’assessore al bilancio e rifiutarsi di affrontare il compito con spirito politico non è proprio il massimo”.

Salvatore però ci tenne a sottolineare un punto: “C’è una differenza rispetto agli anni di Bassolino e Iervolino, nei confronti dei quali pure sono molto critico”, spiegò. “All’epoca i nomi degli assessori erano sulla bocca di tutti: la stampa, il pubblico ne discuteva continuamente. Si parlava delle loro personalità, delle loro idee. Erano quasi delle superstar. Oggi per sfizio prova a chiedere in giro, per strada, alla gente se conosce il nome di un assessore. Scommetto che faranno tutti scena muta”. Come l’allenatore José Mourinho, il sindaco dunque fa scudo sui giocatori, attirando su di sé tutta l’attenzione dei media, permettendo alla squadra di lavorare senza pressioni, ma forse anche senza troppa personalità e coraggio.

Nel suo libro nato da una serie di dialoghi col sindaco di Napoli, Demacrazia, lo scrittore Giacomo Russo Spena ripercorre la storia del “Masaniello d’Italia” – come lui lo definisce – dalle sue inchieste al suo progetto politico nazionale, all’ipotesi di una forza anti-sistema alternativa sia al Pd che al Movimento Cinque Stelle. Secondo il giornalista Carlo Formenti, ci sono elementi lasciano intravedere indubbiamente in De Magistris “un modello quasi archetipico di politico populista”: la centralità della questione morale, l’interclassismo, la demagogia (“fare di napoli una città stato autogestita dal popolo”, “la fase più avanzata della democrazia è l’anarchia”), la personalizzazione della politica (sul modello di Melenchon in Francia o Corbyn in Inghilterra), l’adozione di obiettivi politici di sinistra evitando di autodefinirsi come sinistra. Certo, da un libro-intervista difficilmente si può pretendere una operazione-verità, ma è significativo come per Formenti, un dichiarato comunista materialista, il problema non sia che tra la retorica di quell’archetipo e la situazione attuale intercorre un abisso profondissimo, ma che De Magistris non sia sufficientemente antagonista del Capitale, non abbastanza schierato contro l’Unione Europea.vii Ma davvero si può chiedere tanto ad un ex magistrato, e nemmeno tanto profondo culturalmente, che governa una città in bancarotta? Sì, è vero che anche alcune riviste radical americane hanno sventolato l’ipotesi neomunicipalista come alternativa al liberismo – mettendo in un solo calderone il comunalismo del Rojava con le leggi antigentrificazione di Ada Colau a Barcellona e le “città santuario” pro-migranti degli Stati Uniti – ma ancora una volta il problema qui sembra essere una visione della realtà e dei rapporti di forza piuttosto distorta, quasi psichedelica.viii

Di certo c’è che il mondo della politica cittadina è nello stallo più totale: il Pd divorato dalle solite lotte intestine, la destra che cerca di ricucire pigramente la sua rete di alleanze, un Movimento Cinque Stelle da anni irrilevante in città. La novità più importante di questi mesi, forse, è che l’ex-Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Materdei, ora occupato, uno dei centri sociali più attivi e impegnati nel rapporto con la cittadinanza e i migranti, ha lanciato il suo partito politico, Potere al Popolo. Sostenuto, bisogna dire, più da altri gruppi fuori città che tra le mura amiche. C’è il problema di chi non vuole contarsi, sapendo l’aria che tira. E il problema della mancanza totale di dottrina economica, che l’entusiasmo come antidoto alla depressione può forse occultare ancora per qualche mese. Ma di certo la colpa non è di chi prova a far da se, dopo tante promesse mancate.

Fatto sta che il sindaco è evidentemente isolato. Negli spazi occupati il suo nome si pronuncia poco volentieri: a stento sono riuscito a ricavare qualche dichiarazione dagli attivisti più famosi, e la sensazione è che in molti casi si cerca di non “alimentare polemiche strumentali”: così recita la definizione dei più cauti con i giornalisti. Quando qualche mese fa ho pubblicato per Gli Stati Generali un resoconto della natura di fatto classista e liberista dell’economia napoletana in questo momento, il passaparola tra molte persone che frequentavo in questi spazi è stata: “non facciamo girare, meglio lasciar cadere le provocazioni” (mi è stato riferito da persone ben informate). Ma allora come fa, un lavoratore culturale che voglia dormire con la coscienza a posto la notte, a non commentare l’involuzione di un sindaco passato dal promettere una gigantesca spiaggia libera a Bagnoli e una moneta alternativa (ancora nell’estate del 2015!), dall’enfatizzare oltre ogni misura una delibera sui “beni comuni” occupati che lo aveva reso un faro per gli squatters di mezza Italia – che vedono i cosiddetti “spazi di agibilità” ridursi sempre di più sotto i colpi di sgomberi e manganellate – passato da tutto ciò al patrocinio di un’iniziativa di medici “free-vax” espulsi dall’Ordine, o di una grottesca “Universal Academy of Hermeneutics”? Non fa paura l’ipotesi che una crisi economica e amministrativa della città si ripercuota anche sulla sinistra non istituzionale, che nulla c’entra con la gestione della città?ix La sintesi più sconfortante me la confida un economista piuttosto celebre, da sempre vicino al sindaco, che ha chiesto di non essere citato, se dovessimo guardare la realtà locale e pensare alle “forze e alle capacità necessarie per aggredire i nodi macroeconomici principali, non posso dire di sentirmi ottimista”.

Capitale culturale allo sbaraglio

Ma perché non si riesce a sviluppare un dibattito sullo stato della città sia all’altezza dell’argomento e degli attori in scena, che pure potrebbero fornire spunti interessanti non solo per Napoli ma per tutta l’Italia? Perché la qualità si trova solo in riunioni quasi carbonare, da pochi a pochi? In parte, tra i gruppi antagonisti, c’è la paura che un vento di protesta “troppo viscerale”, “troppo impulsivo”, insomma, “sbagliato” – per esempio, una manifestazione che segnali il disastro del trasporto pubblico che è diventato, de facto, esclusione ancor più grave delle periferie – possa beneficiare vecchie baronie della politica, i nemici di un tempo anziché i possibili alleati. La paura, soprattutto, che una discussione franca e aperta possa far emergere le contraddizioni dei movimenti anziché del “potere”.

E poi c’è, più a monte, la fragilità del sistema culturale napoletano. Sarà una banalità quello che sto per dire, e i libri non sono che l’ennesimo feticcio borghese: ma la città vede ormai le sue librerie storiche chiudere una dopo l’altra, o trasformarsi in fabbriche di spritz, come Berisio. I giornali cittadini più diffusi si adeguano a raccontare l’esistente, come Repubblica; a dare voce alla borghesia insofferente senza alcuna analisi retrospettiva (Il Corriere del Mezzogiorno) o a diventare centrali di propaganda dell’imprenditoria immobiliare e di fake news (Il Mattino, che ha visto crescere il suo sito di 20 volte in pochi anni grazie proprio alle notizie-spazzatura). I datori di lavoro più ambiti e credibili, in questo momento, per un laureato in lettere e filosofia sono il gruppo di Fanpage o la casa di produzione The Jackal. Il fenomeno Gomorra è stato del tutto disinnescato come controracconto del potere criminale, diventando tormentone pop. La borghesia declassata qui si trova ad uno stadio ancora precedente all’insoddisfazione esistenziale: quello dalla depressione apatica, che si traduce in parte in rancore “per chi ce l’ha fatta” e in parte in una emigrazione in massa per poi tornare di tanto in tanto, illudendosi di poter vivere per qualche attimo una storia diversa, “anomala” appunto, come una infatuazione estiva.

Attenzione: a Napoli dobbiamo parlare di fragilità nella ricchezza: perché le persone che si interrogano e collaborano sono tante e valevoli, e cercano di connettersi finché possono (anche se c’è sempre una certa ritrosia nei confronti dai non allineati, dei non definibili, dei troppo formali: meglio consolarsi con zone temporaneamente autonome dove il tempo si è fermato, dove la competizione e il rigore sono sospesi, e ci si ritrova tra i volti mai mutati del centro storico e della vecchia militanza). L’offerta culturale degli spazi occupati, comunque, è generosa e variegata: va dall’universo classico marxista-leninista classico a quello più folclorico meridionalista, passando dalla galassia che potremmo definire settantasettina, degli osservatori foucoultiani.

Sia che tu abbia vent’anni e sei appena sbarcato in città con l’Erasmus, sia che tu ne abbia trentacinque e hai smesso di fare progetti per il futuro, in una serata qualsiasi a Napoli puoi imbatterti in un concerto della neomelodica Maria Nazionale al Lido Pola di Bagnoli, in una classe di italiano per stranieri o in un monologo dell’ambasciatrice pro-Chavez all’ex-Opg (dove, pure, ad un criticone come me veniva data possibilità di organizzare un evento di crowdfunding per ristrutturare il teatro o di presentare un panel con Paco Ignacio Taibo II e Pino Cacucci sulla letteratura sudamericana), mentre all’ex Asilo Flangieri coesistono laboratori di acroyoga con un convegno su Wikileaks con Bifo e, ancora, il sottoscritto tra gli ospiti. E poi, ancora corsi di recitazione, di tango, di capoeria, balli popolari, braciate popolari (del resto tutto, in questo mondo, è “popolare” o “liberato”).

Una programmazione che negli anni si è professionalizzata ed arricchita così tanto da elevarsi ben al di sopra dell’offerta degli altri spazi pubblici gestiti dal Comune o dai privati: dove invece si trovano quasi sempre scortesia, impreparazione, sciatteria o richieste esose per poter fare qualsiasi cosa. Si tratta, però, di un grado di anarchia creativa possibile grazie a, e non nonostante, il sottosviluppo del contesto. Se è vero che nessuno vuole la sterilizzazione degli spazi culturali, la loro riduzione a templi algidi e perfettini e incravattati stile Triennale di Milano, è anche vero che Napoli è una città dove si discute forse meno di vent’anni fa, anche se ci siamo illusi del contrario; dove si trovano sempre meno spazi per suonare, per scrivere, per creare e vivere di arte, per essere pagati per restare nel terziario avanzato. È una città di patrimoni familiari notevoli ma sempre più consumati e redditi bassi o inesistenti: una combinazione che salva dalla disperazione ma forse, al tempo stesso, impedisce l’emancipazione. E qual è il momento in cui una vocazione mutualistica si trasforma in hobby intellettuale? Qual è il confine tra il “servire il popolo” e il diventare sostituti un po’ imbranati – sia perdonata la brutalità – del welfare che non c’è?

Shock e risentimento

La nuova narrazione su Napoli, se vuol essere onesta, deve partire ammettendo il proprio trauma. Il trauma della fine dell’utopia autonomista. Giornalisti compiacenti, scrittori faciloni, attivisti gasati forse dal troppo ottimismo hanno venduto in questi ultimi anni in Italia e all’estero la cartolina di una città in cui la solidarietà diffusa e ancestrale, la costellazione dei “beni comuni”, l’inedito dialogo tra istituzioni e movimenti, le “buone pratiche” potevano creare un modello dal potenziale dirompente, per chi restava e per chi non c’era. Un nuovo modo di organizzare la comunità e il vivere collettivo che avrebbe potuto “reclamare” la città, e fornire un’alternativa alla speculazione rampante e agli effetti della crisi decennale.

È vero, nel centro storico rigenerato e re-imborghesito, nelle isole spensierate della gioventù – che ha trovato nel turismo e nel mutualismo praticato dai nuovi centri sociali la scomparsa di quello stigma che per molti anni accompagnava Napoli – si respira un’aria nuova, e tutto sommato vibrante. Ma trattasi di posticipazione del conflitto, non del suo superamento. La cartografia dominante della città “neoliberista” è stata sfidata dall’ “anomalia Napoli”, sì; ma la città ne è uscita bellamente ignorata, non vincitrice. Perché mentre i grandi investimenti vanno altrove i precetti del laissez-faire sono praticati nell’ombra o con sfacciataggine da pochi, mentre i molti sono sempre più emarginati dalla politica e dalla cultura. Fare il sunto di tutto ciò, capire che la salvezza della città dovrà necessariamente avvenire tramite concertazione, lacrime e sangue, strategie nazionali ed europee piuttosto che “localiste” o “meridionaliste”, provocherà ulteriore risentimento tra i lavoratori culturali, possiamo starne certi.

Per capire cosa è successo a Napoli in questi anni bisognerebbe dunque chiamare a testimoniare non le solite controfigure del potere dei piani alti, immutabili nei decenni, ma i diversi rappresentati di cosa sono le classi sociali contemporanee: dallo studente fuorisede che senza farsi troppe domande vive la Napoli notturna nella sua “età dell’oro”, al laureato in lettere che con qualche amico si reinventa imprenditore di sé stesso; dal rampollo della borghesia concentrato solo sui propri riti ancestrali al dottorando in filosofia, che tornando da una fallimentare espienza all’estero si reinventa capuzziello di assemblea dai toni un po’ giacobini, approfittando dello stagno per fare il pesce grosso.

Il problema è che nessuno sembra volersi scrollare di dosso certe narrazioni di comodo, certi pregiudizi, la voglia di insabbiare le polemiche scomode e il confronto tra “campane di vetro”: tutto pur di confermare le proprie nemesi storiche, le proprie radicate convinzioni e mai affrontare i limiti del proprio agire. Ma da lettori, da partecipanti attivi, da osservatori o anche solo da teste pensanti, dobbiamo augurarci che la nuova narrazione napoletana saprà raccontare il disastro al quale stiamo andando incontro con più lucidità, coraggio e persino sfacciataggine.

i Si veda ad esempio La tentazione de Magistris. Se il movimento si rituffa tra le braccia del sindaco uscente. In Monitor, 15 febbraio 2016. Cfr: http://napolimonitor.it/la-tentazione-de-magistris-se-il-movimento-si-rituffa-tra-le-braccia-del-sindaco-uscente/

ii Cfr.: http://www.euronomade.info/?p=7702

iii Riccardo Rosa, A Napoli non c’è spazio per i rom, in Internazionale, 2 ottobre 2017. Cfr: https://www.internazionale.it/reportage/riccardo-rosa/2017/10/02/napoli-rom-sgomberi

iv Cfr.: http://contropiano.org/interventi/2017/09/18/anomali-napoli-lora-punto-rilanciare-095673

v Cfr. La Repubblica, 25 settembre 2017: http://napoli.repubblica.it/cronaca/2017/09/25/news/parcheggiatori_abusivi_alessandra_clemente_il_daspo_non_basta_occorre_modificare_la_legge_-176438849/

vi Un lavoro di questo tipo è stato pubblicato sul sito Massa Critica – Decide la città, che nei mesi successivi alla riconferma del sindaco si è dato da fare per organizzare un’ipotesi di “democrazia diretta”: http://www.massacriticanapoli.org/2017/11/16/il-debito-pubblico-a-napoli/

vii Carlo Formenti, De Magistris, il populista di sinistra tra luci e ombre. 28 novembre 2017. Cfr. temi.repubblica.it/micromega-online/de-magistris-il-populista-di-sinistra-tra-luci-e-ombre/

viii Cfr. Roar Magazine, Issue #6, July 2017: https://roarmag.org/magazine/new-municipal-movements/

ix Cfr. https://www.nextquotidiano.it/de-magistris-convegno-free-vax/

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